Le monetine del Raphaël – II

[Qui di seguito la seconda parte del capitolo 13 del romanzo Le monetine del Raphaël di Franz Krauspenhaar (Gaffi editore). La prima parte la leggete qui]

Arrivai finalmente fino a Catania. Ferruccio mi venne a prendere con la sua Opel Record scassata, e mi portò lungo le strade statali della Sicilia, per chilometri e chilometri. M’ero pentito. Il caldo mi soffocava, le chiacchiere del mio gentilissimo amico d’improvviso mi annoiavano. Avrei dovuto prendere un treno da Bologna diretto a Milano, o farmi accompagnare nella mia città in auto da Boratti, meglio. E invece avevo voluto sfidare tutta quella morte e quella desolazione, avevo voluto, ancora una volta, prendere le cose per traverso, sfidarle all’arma bianca, percuotere la natura, il giusto verso del mondo. Volevo riprendere nelle mani la sfida, continuare a giocare la mia interminabile partita a poker con la vita. Mi sentivo perso, lungo quelle strade brucianti, mentre Ferruccio s’imbarcava in sorpassi pericolosi, contro il sole, l’auto di turno che ci veniva incontro vicinissima nel verso contrario. Dopo un centinaio di chilometri, lungo la costa orientale, finalmente quel lungo viaggio ebbe fine. Ferruccio mi sistemò in questo grosso bungalow, già pieno di ospiti, imboscato in una pineta freschissima, poco battuta dal sole, che arrivava a fitte e a spasmi, a stilettate di colore oro.
Dormii per almeno diciotto ore. Ogni tanto mi svegliavo, dopo aver preso in pieno volto un incubo feroce di morte, bambini sanguinanti nel nero dell’asfalto, macerie che venivano caricate su una dozzina di autobus 37, treni che si tamponavano e poi scoppiavano tutti assieme… Mi svegliavo, andavo in cucina, prendevo dal frigo la bottiglia della minerale gassata e bevevo a canna, quasi con disperazione, come se quello fosse l’esaudimento delle mie ultime volontà. Tornavo nella mia piccola camera, pensavo a una sigaretta, ma non avevo la forza di procedere a tentoni per afferrarle. Così, mi lasciavo completamente andare sul letto e mi riaddormentavo dopo pochi secondi.

Finito il lungo sonno, feci amicizia con un noto cantante, che stava a torso nudo tutto il tempo indossando un paio di jeans a pantaloncino e delle infradito nere. In testa, sempre un cappello da cowboy. Era simpatico. Parlammo del Festival di Sanremo, delle pastette, di Mike Buongiorno, di un sacco di gente dello spettacolo che secondo lui non valeva “un cazzo piegato.”
La sera finalmente Ferruccio, sicuro della mia partecipazione – “quest’uomo è il più grande artista italiano” – così mi aveva presentato a quella piccola folla, e la cosa, in quel contesto, m’imbarazzò moltissimo, approntò la sua grande festa. La chiamava “Fetishella”, proprio perché aveva organizzato una cosa particolare. Avrebbe compiuto gli anni proprio quella notte, e ci teneva che l’ammucchiata fosse in linea con un clima di caldissimi festeggiamenti.

Invece di un regalo Ferruccio aveva chiesto agli invitati di venire vestiti il meno possibile e il piu’ possibile in modo strano. Il mio amico si era votato con tutta l’anima a mettere a proprio agio tutti, e stava sempre ad agevolare, guidare e fotografare con la sua Nikon professionale. Per lui in certo modo esisteva solo quello che era fotografabile, che si prestava a una scena, a un racconto per immagini. Non gli importava di fermare il particolare: la natica, il pene eretto, la bocca piena di quel pene, una vagina leccata. Per lui esisteva solo il rappresentato attraverso la cristallizzazione fotografica. Si era in quindici, tutti abbastanza giovani, sorridenti, alcuni drogati. Ferruccio aveva ovviamente la tendenza a coccolare gli uomini, come fossero oggetti teneri di piacere. Lo faceva con gusto, con lussuria patente, ma senza volgarità. Si sentiva un anfitrione al servizio della causa del piacere e del divertimento sessuale. Gli uomini erano il suo oggetto da coccolare e dovevano esserlo pure delle donne che di fatto erano forse anche numericamente superiori (se si sommavano alle tendenzialmente lesbiche e ai gay che pero’ erano al massimo 4 o 5). Mentre uno di questo gay prese Ferruccio per il didietro, io, che stavo un po’ in disparte sui cuscini, fumando, con la mano sinistra strizzando la tetta a pera di una donna piuttosto mascolina che forse era una delle lesbiche, mi arrivò l’immagine di un macigno che scendeva a valanga dal tetto della stazione di Bologna. Non riuscivo a distaccarmi da quelle immagini di morte, anzi quelle accoppiate piuttosto allegre mi ributtavano con effetto paradosso nell’incubo. Ecco che la donna mascolina finiva di massaggiare le tette delle sua amica alla sua sinistra, si girava verso di me e sorridendomi prendeva il mio uccello in mano e cominciava al scuoterlo, salutandomi con un ciao strascicato. E di nuovo, altre immagini. Il mio uccello abbastanza duro ma non eccessivamente eccitato spariva dalla mia vista anche se lo stavo guardando, e la faccia da mascherone del povero facchino piangente prendeva tutta la mia visuale, così che mi sembrava di essere preso da lui, e non dalla donna. Le due immagini si sovrapposero: il ragazzo ci metteva proprio la faccia, e il corpo e la mano era femminile, pulsante, ma non meno viva di quel volto maschile abbandonato alla stazione delle lacrime. Dietro di lei, l’amica e il cantante col cappello da cowboy, incrociando le lingue come in un duello di fioretto carnale, si insinuavano tra le chiappe della donna, leccandole fica e ano. Quelli che scopavano fino in fondo poi erano i gay, come sempre; erano quelli che non potevano trattenersi, che dovevano sparire nella violenza, nel terremoto dei sensi, nella forza del desiderio; ma a Ferruccio non interessava intervenire in quel salasso breve, perché aveva un decorso troppo semplice, veloce, consumistico. I gay trombavano con vigore e poi per il resto della serata stavano ammosciati dappertutto, per ogni angolo della casa, con le facce senza espressione, come corpi svuotati ed estranei, come vasi di terracotta semoventi che non avevano nemmeno più un’apertura per essere utili a qualcosa. Senza più niente di sessuale a cui ambire; e così aiutavano Ferruccio a creare situazioni tra le coppie etero, a guidare, frenare, controllare.
La saggezza delle donne in quei casi era determinante, avevo partecipato già ad altre orge e le donne la sapevano sempre più lunga, per istinto: forse solo un paio aveva scopato veramente, si attenevano alla piacevolezza della situazione e al ridere smodato, così che la situazione diventava da cabaret, da film comico. Il vino era fondamentale, e poi, col fatto che Ferruccio fotografava, in tal modo agevolava le situazioni, rompeva le distanze creando le combinazioni umane, li spingeva, i suoi ospiti, con accenti di simpatia vera, a toccare qui o li, dentro o fuori; e alla fine, ammaestrati dall’anfitrione e maestro di cerimonie nudo, con la Nikon a tracolla, andavano avanti da soli, ben ammaestrati da quel corso accelerato di sesso di gruppo. Col passare delle ore il meccanismo aveva preso una sua autonomia, una specie di canovaccio da commedia erotica dell’arte : fighe tutte al vento, culi da sculacciare, giochini con frustini (ridanciani, dunque per nulla cruenti), corpi legati con cordini facili da sciogliere. Ma scopare davvero quasi mai, perché in un modo o nell’altro tutti sapevano per istinto che quello avrebbe in breve significato la fine della giocosità. Scoprii che alcuni si conoscevano, e altri non si erano invece mai visti, e altri ancora si erano intraviste solo in un’occasione precedente. Tutti si divertivano, o almeno così sembrava. Le coppie si scambiavano con una fluidità sorprendente. Ferruccio era una specie di capocomico dell’amore di gruppo, e la sua compagnia di giro rispondeva con grande prontezza dalle sue sollecitazioni registiche. Io stavo ancora male: sì, avevo dei momenti di dispersione della volontà e del ricordo, perché due donne molto belle e sensuali, vestite entrambe con un body color caramella alla cola mi avevano preso il cazzo direttamente con le lingue e poi con le bocche. Infine, quando una mi succhiava in punta, l’altra teneva l’asta, come a mantenerla ferma e puntata verso l’altra; finché i ruoli venivano scambiati. Era come in un porno di quegli anni: le fighe pelose, le sopracciglia delle donne spesso folte, le capigliature cotonate e il trucco pesante. Chiusi gli occhi, a un tratto, perché sentivo il piacere arrivare a precipizio e volevo non guardare più, per paura di essere sorpreso dall’orrore infitto nel ricordo. E invece avvenne il fatto contrario e spiacevole, sentivo le due lingue danzare veloci e ficcanti sul mio arnese duro e d’improvviso venni travolto dal volto piangente di quella bambina, vidi di nuovo le ambulanze e la faccia contratta dalla paura di Boratti. Riaprii subito gli occhi, staccai dalle lingue l’arnese e cominciai a menarmelo disperatamente, come se avessi in mano una zattera di salvataggio, e prima che il fiotto in arrivo facesse la sua marcia indietro. Le due donne furono prese alla sprovvista, per un attimo; poi capirono, mi misi sopra le loro facce, masturbandomi sempre, violentemente. Ma fu inutile: tutta l’eccitazione era passata in un burrone d’altro, il pene si ritirava spedito, le due mi guardavano come si guarda un animale strano, o un uccellaccio del malaugurio. Ma quanto si divertivano, tutti gli altri! Ferruccio, lo si capiva bene, era felice più che altro per aver fatto star bene i suoi amici. Ogni tanto qualche cazzo lo prese in mano pure lui, ma proprio non aveva né tempo né intenzione di combinare di più, perché in tutto questo bailamme si mangiava e beveva piuttosto bene, e tra un piacere e l’altro temeva di scombinare le cose, di irritare qualcuno. La qualità del cibo e del bere era fondamentale e Ferruccio cucinava pensando alle persone che conosceva, estendendo il risultato dei suoi amabili sforzi anche ai pochi estranei che erano ammessi (e questi nuovi elementi erano fondamentali, dovevano esserci perché il loro stupore vergine di fronte a tanto gaudio inaspettato aveva una funzione importante nel gioco).
Certo, faceva abbastanza caldo. Ferruccio aveva sistemato dei ventilatori, la casa era aperta e dal mare, ora che era scesa la sera, arrivava una brezza leggera. Ma i movimenti erotici facevano spendere calorie, energie, e sudore. Qualcuno si stancava prima del limite, si prendeva una pausa, addentava un pezzo di formaggio, una fetta di melone, beveva dalla bottiglia il vino fresco e scuro. E improvvisamente, ad aumentare quel surriscaldamento generale di corpi e umori e sudore, arrivò da non si sa dove una folata odorosa, forte, di pollo arrosto. Qualcuno stava facendo andare un girarrosto e potentemente era arrivato fino alla casa di Ferruccio l’effluvio, che mi faceva pensare ai chioschi del pollo arrosto dei mercati rionali. Come se un pezzo di Milano, della città popolare e del sabato mattina tipico, alla spesa grossa, fosse approdato fin lì, nell’estate calda dell’80, all’inizio spettacolare di un decennio che in verità stentava a prendere un suo proprio corpo, una sua reale fisionomia. Restava nel grembo degli anni Settanta, nel terrorismo, nel piombo degli anni mitragliati da sponde impazzite e opposte. Mi venne di nuovo alla testa l’odore delle macerie, mentre quello del pollo segreto svaniva nel buio. Mi veniva alle narici l’olezzo disturbante della morte in massa, dei corpi ammassati sull’autobus 37 che girava in tondo nella Bologna attaccata come in una guerra, tra detriti, calcinacci, pezzi di stazione divelta, gente che piangeva, che invocava Dio e la mamma, dispersa, disperata. Riconobbi nella calca della grande casa del sud una manicure che conoscevo, di Milano; la riconobbi riaprendo gli occhi dopo averli serrati, sopraffatto dal ricordo cupo di morte. La manicure stava a cavalcioni sopra al cantante mediamente famoso col cappello da cowboy, imbragata nelle sue gambe forti, elettrizzate. Le grandi tette a pera ballonzolavano indecorose, era una mamma di tre figli, mi chiesi il marito che fine avesse fatto, come lei fosse infine capitata tra gli amici viziosi di Ferruccio, sperai non mi riconoscesse e mi ripromisi di chiedere informazioni al mio amico. Ma nei minuti seguenti tutto prese di nuovo a svanire, a prendere pieghe altre, e la mia mente incrostata dal sangue visto e vissuto fu di nuovo assalita dalla morte e dalla distruzione, e così non potei resistere a quello stridere che forse era solo apparente, e mi alzai e mi misi a cercare i pantaloni e la camicia e le scarpe, e una volta rivestito andai fuori, tra fiori e alberi, e mentre sentivo vociare e ansimare i partecipanti all’orgia, come cani scannati vivi, torturati, bastonati nei centri vitali, li presi per le mandibole con corde e rampini, che dilaniavano le carni secche dei cani fino a romperle, così che i musi dei cani letteralmente si spezzavano in due parti sanguinolente, mentre sentivo il guaire, lo squittire, il nitrire, presi con gli occhi umidi la vista non lontana del mare, come uno scorcio di salvezza, quella pozza presa a schiaffi da lente onde a seguire le terrazze, e intravidi un gesto di pace della natura, una resa a ciò che è bello. Avevo dimenticato la bellezza, e l’avevo dimenticata in tutto, preso dalla mia pittura bella nell’orrore, e perciò bella in parte e per convenzione di gusto contemporaneo. Avevo dimenticato le cose semplici, e naturalmente l’amore. Morta Rita avevo dimenticato la bellezza di un sentimento, m’ero accompagnato a tante donne senza dare alcun senso e di cui non ricordavo il nome, avevo fatto il gigolò per le anziane signore milanesi danarose, ero finito ai primi d’agosto, di quell’agosto della strage, nel budello marino della Sicilia a partecipare a un’orgia. Esaminai con attonita paura di me stesso la mia follia, subdola come un rovello allo scavo ritorto della coscienza: avevo visto saltare in aria la stazione di Bologna, avevo visto la morte in faccia, negli occhi della gente, dei bambini consolati ma inconsolabili, e quell’autobus 37 coi lenzuoli ai finestrini; e avevo visto il facchino piangente calde lacrime e invocante la mamma, il facchino salvo per miracolo grazie alla valigia che teneva in spalla; e nonostante questo ero voluto andare lo stesso in Sicilia per un’orgia, non avevo pensato nemmeno al mare, al sole, alle cose normali e sane di una qualsiasi vacanza. No, avevo pensato solo al sesso fatto in gruppo con sconosciuti, come se quello potesse essere un sordo riscatto a tutta quella morte, anche agli occhi spenti e spaventati dell’amico Boratti. Niente, ero fuggito semplicemente dalla realtà per abbracciare corpi che non conoscevo. M’ero fatto spompinare da due lesbiche o qualcosa del genere, e poi da un amico di Ferruccio, cosa che non avevo molto gradito ma che m’ero lasciato fare come se stessi compiendo un dovere, come se quello fosse stato un atto dovuto, di ringraziamento a tutta quell’ospitalità. E infine, tra mugolii canini, avevo riconosciuto una manicure, dalla quale m’ero fatto curare le unghie due o tre volte due anni prima; prestava servizio presso il mio barbiere di allora, un veneto anziano che ogni volta voleva farmi fare la pulizia del viso e mi parlava con tono grave dei miei punti neri. Così un paio di volte avevo ceduto ed oltre al viso m’ero fatto sistemare le unghie da questa donna popolare, i capelli biondo tinto slavato con grosse strisce di ricrescita nere, le gote gonfie, la “niente di speciale” che vedi ai grandi magazzini spingere un passeggino, la donna della spesa grossa, del mercato, della messa della domenica.

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