999 barrato/1
giugno 11, 2012 2 commenti
di Carlo Antonicelli
L’autobus arrivò. Erano le cinque e mezza e i lampioni si erano già accesi. La luce del sole non era ancora del tutto svanita ma l’autobus era già illuminato al neon. Sopra i finestrini campeggiavano diverse pubblicità. Una tra queste prometteva:
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L’autobus ripartì. Era domenica e le poche persone presenti viaggiavano in piedi, sballottate su e giù da un autista che pareva aver fretta di arrivare alla fine della propria giornata.
Il posto migliore, il set da quattro posti sul fondo, era libero. Risolini e voci acute disturbavano la lettura del giornale. Per fortuna, dopo poche fermate, erano quasi tutti scesi. Un vecchio signore era ancora seduto sul seggiolino più vicino all’autista, con le mani appoggiate sul manico curvo del suo bastone; gli occhi minuscoli dietro un paio di lenti di notevole spessore.
Passate le sei, era ormai sera.
L’autobus si fermò al ciglio della strada. Frenata brusca.
L’autista bussò contro il vetro che separava la sua cabina dal resto dell’automezzo.
L. alzò la testa, si voltò e guardò in direzione della cabina: “Ce l’avrà con me?”
L’autista bussò di nuovo. Più forte. Ce l’aveva col vecchio seduto sul seggiolino più vicino a lui. Il vecchio era mezzo sordo.
Le nocche massicce del pilota fecero tremare tutta la porta della cabina.
Il vecchio si girò, lentamente. Aveva capito. L’autista gli fece cenno di avvicinarsi.
Non si sentiva nulla dal fondo dell’autobus. Il vecchio, stranito, pareva non capire nemmeno lui.
«Ma questa non è la mia fermata, perché devo scendere qui?! Lei non ha il diritto…»
La tendina della cabina era tirata per tutta la sua lunghezza e non si riusciva nemmeno a vedere cosa l’autista stesse dicendo, figurarsi sentirlo.
Strabuzzando gli occhi, il vecchio oscillava come se una raffica di vento lo scuotesse dai piedi alle orecchie. Un farfugliare intenso e veloce proveniva da dietro alla cabina guidatore, ma i suoni erano indistinguibili.
«No, no, no… scendo qui, scendo subito…» sibilò il vecchio, che fece due passi indietro mentre un raggio di luce gli cascò in testa, illuminando la sua gracile figura. Il vecchio ebbe un sussulto, si girò di scatto e mentre la porta si apriva già aveva la gamba destra per strada e con l’unica mano libera tirava con forza la porta a scorrimento. Appena fu saldamente a terra, aiutandosi più che poteva con il bastone, si allontanò rapidamente gettando occhiatacce torve in direzione dell’autobus. La porta si chiuse e la luce di servizio si spense; i pistoni idraulici sollevarono leggermente il trabiccolo che ripartì ancheggiando.
L. si era avvicinato sino alla porta centrale per cercare di capire cosa stesse succedendo lì davanti. Guardò il vecchio che quasi saltellava facendo leva sul bastone.
Il vecchio si voltò.
I loro sguardi si incrociarono.
Il vecchio rimase fermo, immobile.
Pallido, gli occhi incavati, una maschera di rughe, la bocca semi aperta.
Si fissarono per pochi attimi, prima che l’autista ingranasse la seconda e il mezzo scivolasse oltre l’incrocio deserto.
L. non poté vederlo, ma il vecchio si portò la mano sinistra allo sterno e con la destra fece il segno della croce, lasciando che il bastone cadesse in terra.
Un po’ intontito L. tornò al suo posto e riprese il giornale. Guardò fuori dal finestrino. Non mancava molto alla sua fermata.
Il motore ringhiava sotto la pressione dell’acceleratore. L’autista aveva una guida, come dire, “sportiva”. Ma era cosa risaputa in città che gli autisti fossero un po’ dei balordi al volante.
Senza alcun motivo L. pensò che morire in un autobus, tra tutti i modi di crepare, era certamente un modo di andarsene davvero inconsueto; non si era mai sentito uno morire in un autobus, mai, che lui sapesse. L. avrebbe voluto fare le sue rimostranze, ma le precedenti cortesie dell’autista, lo spinsero a rimanere tranquillo al suo posto.
Era ormai sera, le luci dei lampioni erano fioche e i negozi avevano abbassato le serrande.
D’un tratto la luce andò via. Pochi secondi. Poi tutto tornò normale. L. guardò fuori dal finestrino per accertarsi che fosse vicino al posto dove doveva scendere. Ma non si vedeva nulla. Non si distingueva nulla del panorama esterno. Tutto era completamente oscurato.
Eppure dovevano esserci lampioni sulla strada, le luci delle case, qualcosa… L. inforcò meglio gli occhiali e mise a fuoco la superficie del finestrone che correva lungo tutto l’autobus. La luce bianca del neon si rifletteva nitidamente contro una massa indistinta di colore nero che copriva la parte esterna del finestrone stesso. Anche la sua faccia si vedeva benissimo, come fosse davanti ad uno specchio. L. si avvicinò per vedere più distintamente. Quando poggiò la mano sul vetro, un numero imprecisato di insetti prese a correre furiosamente. Sembravano scarafaggi; migliaia, migliaia di piattole ricoprivano il vetro muovendosi tutte nella stessa direzione.
L. si ritrasse di scatto e spaventato si alzò in piedi. Si guardò intorno e vide che altri scarafaggi correvano su tutte le finestre dell’autobus, avvolgendolo completamente. Il rumore di migliaia di zampette che marciavano e strisciavano senza sosta era sottile, ma assordante. Come unghie affilate su una lavagna nuova. L. cercò di tapparsi le orecchie. In preda al panico, si avvicinò alla cabina del guidatore.
«Mi scusi, ma che succede?!» disse, quasi urlando
«Cosa?»
«Come cosa?! Non li vede gli scarafaggi che circondano tutto l’autobus? Che sta succedendo qui?!»
Nessuna risposta.
«Niente, non succede niente. Torni al suo posto,» rispose l’autista senza voltarsi.
«Ma come non succede niente! È surreale questa situazione, si guardi intorno!»
Silenzio dall’altra parte.
L. non sapeva cosa altro dire; girò la testa in tondo, si guardò le punte dei piedi, le sue scarpe da ginnastica nuove, e poi si rivolse di nuovo verso l’autista. Immerso nell’oscurità. Solo le sue mani restavano visibili. Erano piene di tatuaggi che correvano sulle dita, fino alla unghie. Queste erano di un biancore opaco che risaltava sulle falangi annerite dall’inchiostro nero carbone.
Solo in quel momento L. si accorse che altri insetti brulicanti ricoprivano interamente la vetrata davanti all’autista, impedendo la vista della strada.
L. prese a respirare affannosamente.
Si appoggiò pesantemente con le mani sul sedile più vicino, le gambe non lo reggevano bene. L. faceva lunghi e sibilanti respiri, aveva il viso paonazzo. Una goccia di sangue gli cadde sulle scarpe bianche, linde: «Dannazione!»
La sua vecchia epistassi gli certificò l’aumento violento della pressione sanguigna.
«Torni a sedersi, signore. Presto arriveremo a destinazione, » disse tranquillo ma perentorio l’uomo al volante.
[continua mercoledì 13 giugno]
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Che strana questa cosa che accade quando si legge un racconto a puntate, o semplicemente mentre si è a metà strada dal terminare di leggerlo: l’immaginazione pare godere nel suo catapultarsi per indagare le possibilità che si aprono per condurre al suo naturale epilogo la storia. Qui mi sono vista una seconda corsa dello stesso autobus, con un altro vecchietto simile nelle rughe al primo, obbligato anch’esso a scendere prima della fermata desiderata. Questo “vecchietto” avrebbe voluto tornare all’azienda farmaceutica che gli ha riempito le tasche con tremila euro, non prima di averlo conciato come un papiro del mar morto con le sue creme anti-psoriasi. Un vecchietto di ventidue anni costretto a scendere non riesce a far altro che un segno della croce, non certo a incazzarsi, perché anche se la sua pelle si tendesse per il furor di bile, le sue profonde rughe manco se ne accorgerebbero… 😀