999 barrato/2

di Carlo Antonicelli

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“Destinazione”, “de-sti-na-zio-ne”, “presto”, “sedersi”… Quante vocali ci sono in questa frase? E come mai questo tizio parla in un modo così neutro, senza l’ombra di un accento? Dove si è mai visto un autista che parla senza uno strascico dialettale? E perché ha le mani coperte di tatuaggi? Coma fa un’azienda seria ad assumere un tizio con le mani tatuate?

L. alzò la testa per evitare che altro sangue gli colasse addosso. Si frugò nelle tasche. Niente fazzoletti. Con gli occhi al tettuccio dell’autobus e due dita premute sopra il setto nasale, L. veniva sbatacchiato di qua e di là mentre cercava ansiosamente di afferrarsi ad un sostegno.
L’autista d’un tratto scalò velocemente tutte le marce. Quarta. Terza. Seconda. Prima. Frenata. L. si stampò contro la vetrata della cabina guidatore e ruzzolò a terra.
Il mezzo accostò al lato della carreggiata. La porta più vicina all’autista si aprì e il taglio fendente della luce di cortesia irradiò un pezzo di asfalto nel pieno della sera.
L. si rigirò e vide che non c’era più traccia di scarafaggi. Forse la frenata li aveva fatti volare via. Si rimise in piedi. Il sangue, dopo il duro colpo e la caduta, gli colava ancora lungo gli angoli della bocca.
Fuori dalla porta si sentiva solo il suono stridulo di un mare di grilli che riempiva un’oscurità densissima. In lontananza, le luci della città. Che sembrava molto, molto distante. Si girò verso l’autista. Non aveva spento il motore, che continuava a bofonchiare. Le sue grandi mani stringevano con sicurezza il volante; ma non si vedeva altro.
Di certo quella non era la sua fermata. Chissà dov’era ora. Se c’era stato una cambiamento di percorso avrebbero dovuto mettere un annuncio da qualche parte, invece… Né tantomeno l’autista pareva essere quello che si potrebbe chiamare un lavoratore cortese.
Mentre era ancora lì sul ciglio della porta, si udì un rumore differente da quello del gracchiare dei grilli. Anzi, diversi rumori. Un fruscio di erba scostata a fatica e passi pesanti nel fango. Qualcuno o qualcosa pareva attraversare velocemente il terreno davanti a cui sostava l’autobus. Con un salto si fece avanti una sagoma che incrociò la luce gialla di cortesia. L. era proprio in mezzo alla porta e ostruiva il passaggio. L’uomo alzò gli occhi su L. chiedendogli il permesso di salire. Aveva una foglia di quercia tra i capelli e pezzi di spiga d’avena che gli puntellavano la giacca grigio verde con i bordi dei risvolti rossi. L. riconobbe subito la divisa dell’azienda di autotrasporti: era un controllore! Cercò di ricomporsi e si fece da parte per farlo entrare. L’uomo aveva le scarpe completamente ricoperte di fango. Le sue mani erano scorticate, ricoperte di graffi, e le unghie nere di sporcizia. Sulla sua faccia si scorgevano tracce di cenere grigiastra.
Rivolgendosi al nuovo arrivato, L. prese a lamentarsi vivacemente:
«Questo signore,» disse, senza indicare l’autista, «è un maleducato… e un mascalzone, con rispetto parlando. Oltre ad essere un pessimo guidatore. Ha cambiato il normale percorso previsto senza nessun preavviso ed è arrivato sin qui, nel bel mezzo del nulla… Io sarei dovuto scendere non so quante fermate fa…»
L. quasi balbettava in preda alla foga.
«E adesso non so dove sono né tantomeno come tornare indietro. Il suo collega è passabile di provvedimento penale, sa? Anche se spero che sia punito severamente prima di tutto dalla vostra azienda. Questa si chiama interruzione di pubblico servizio, se non sequestro di persona, direi! Comunque, se mi riporterete indietro, non sporgerò denuncia, ma mi accontenterò delle scuse del signore».
Così concluse L., facendo cenno con la testa all’autista, con un contegno speciale.
Per tutto il tempo che aveva fatto le sue rimostranze, concitato e nervoso, sbracciandosi di qua e di là, L. non si era accorto che il sangue gli aveva coperto le labbra, il mento e aveva raggiunto il colletto della polo, bianca, come le scarpe. La manica della sua giacca sportiva si era leggermente strappata e sulla fronte aveva una linea di grasso a causa del ruzzolone che aveva fatto poco prima.
Il controllore aveva seguito il suo discorso con circospezione, con gli occhi fissi sulle gocce di sangue che si andavano espandendo sul colletto della polo.
Dopo che L. ebbe finito di parlare il controllore cominciò a strofinarsi energicamente la mano destra sul pantalone, come chi volesse pulirla o asciugarla dal sudore prima di porgerla ad un estraneo. La faccenda durò diversi secondi. La forze e la perizia del gesto si prolungarono per un tempo inusitato. L., fuori di sé, balbettò ancora poche parole sottovoce e rimase a bocca aperta.
Il controllore ripassò sia il dorso che il palmo della mano sul pantalone, ancora e ancora… Ad un certo momento, terminata l’operazione di pulitura, sollevò con la mano sinistra un lato della giacca e, molto delicatamente, infilò l’altra all’interno della stessa. Ne cavò fuori un candido fazzoletto bianco . Era di un bianco opaco nitido, come le unghie dell’autista. Il controllore porse gentilmente il fazzoletto a L., tenendolo tra l’indice e il pollice, preoccupato che non si sporcasse.
Doveva essere di seta.
«Torni a sedersi signore, e stia tranquillo, presto arriveremo alla sua fermata».
Nel pronunciare la parola “sua”, il controllore dava l’impressione di sapere dove L. fosse diretto.
L. pensò che quelle parole non avessero senso. Ma non potendo fare altro, rassegnato, si voltò e barcollando tornò a sedersi. Si portò il fazzoletto al naso, che si impregnò istantaneamente di un rosso intenso, scarlatto.
Il controllore, intanto, parlava con l’autista dando le spalle a L. Ogni tanto si voltava senza preoccupazione e lo guardava. Posava gli occhi su L. come si guarda un animale esotico visto solo nei documentari e improvvisamente apparso in carne ed ossa sotto i propri occhi.
L. aveva attorcigliato il fazzoletto di seta e l’aveva infilato, non senza dolore, su per la narice sinistra, lasciando la restante parte del fazzoletto a penzolare davanti alla sua bocca. Si pulì le mani sporche di sangue con il giornale. Prese il telefono dalla tasca, ma non c’era campo in quel posto, ovunque fosse fosse in quel momento. L. si sforzò di mantenere la calma. Ripose delicatamente il telefono nella tasca della giacca e pensò. Pensò che prima di tutto doveva trovare il coraggio di alzare la testa e guardare i suoi oppositori. Non era facile, pensò. Ma bisognava farlo, mantenendo tutta la calma necessaria. Si guardò le mani, che adesso erano sporche di inchiostro di giornale. Strinse i pugni e alzò la testa. Il controllore era sempre lì. Si sporgeva leggermente con la testa oltre la vetrata che isolava la cabina del guidatore e continuava a parlare all’autista. Come faceva già da qualche minuto si voltò e incrociò lo sguardo di L., che in quel momento lo fissò con aria rabbiosa, sfidandolo. Il controllore si voltò verso l’autista, accennò delle parole e sorrise, forse per via di quel fazzoletto che pendeva dal naso di L., o per la linea di grasso sporco sulla fronte. L. credeva di avere l’aria di chi la sapeva lunga. Invece, proprio quell’aria di sfida con cui guardava il controllore, il modo in cui provava a tenersi insieme, avrebbero fatto sorridere chiunque avesse potuto guardarlo.
Il controllore si girò a guardarlo un’altra volta, l’ennesima.
L. sapeva che doveva restare calmo per poter controllare la situazione. Stava solo aspettando che il suo nemico facesse la mossa sbagliata.

L’autobus intanto procedeva ad una velocità inaudita per un mezzo di quella grandezza. L. doveva tenersi al seggiolino per non cadere. Forse erano arrivati in un’altra provincia, o in un’altra regione. Per quanto ne sapeva lui, potevano essere anche in un altro paese.
La luna piena illuminava un paesaggio che sembrava essere stato arso da un incendio estivo.
Il controllore scambiò un cenno d’intesa con l’autista.
Si intuirono le parole «è importante… vado a dirglielo…».
Il controllore si avvicinò a grandi passi fino a raggiungere il fondo dell’autobus dove era seduto L. che, continuando a trattenere la rabbia della sua frustrazione, era diventato rigido come un palo. Si sforzava di non sbattere le palpebre mentre lo fissava, ma ovviamente era impossibile. I suoi occhi erano pieni di lacrime.

I due si guardarono. L. non sapeva cosa dire, inghiottiva saliva e muoveva la lingua avanti e dietro come uno che dovesse incominciare a parlare. Invece inghiottiva solo altra saliva.
L’autobus decelerò. Le curve erano finite, la strada procedeva placidamente diritta davanti all’automezzo.

Il controllore posava malinconicamente il suo sguardo su L.
Si piegò in avanti fino ad un prossimità accettabile per potergli parlare all’orecchio. L. fu subito scosso da un brivido profondo e si scostò spaventato.
Il controllore aveva un volto comprensivo. Sorrise, affabile e un po’ triste. Con due dita fece cenno a L. di avvicinarsi. Doveva esserci qualcosa d’importante in quel messaggio, se il controllore aveva bisogno di pronunciarlo standogli così vicino.
Le parole, sussurrate ma chiare, arrivavano come un flusso intenso di aria calda da quella bocca. Un calore speciale emanava dal suo respiro. Gli occhi di L. strabuzzavano. All’inizio.
Poi, man mano che il controllore parlava, L. si rilassò. All’inizio egli scuoteva la testa da sinistra a destra come un bambino che non vuole obbedire. Ma con il passare dei secondi quelle parole esplosero nella sua testa come fuochi d’artificio. Tutto era illuminato, chiaro, preciso.
L. capì quello che doveva fare, ciò a cui era destinato. Prese ad annuire con il capo mentre con la coda dell’occhio guardava il controllore. Si asciugò le lacrime con la manica della giacca e si passò una mano tra i capelli. Piegò un po’ il capo mentre salutava il controllore che tornava al suo posto.
Adesso tutto era chiaro, doveva rendersi presentabile.
Per giunta, era atteso.

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