IL FLEP!, PRESUMO

di Pier Paolo Di Mino

Il Festival delle Letterature Popolari, dunque: che detta così è una cosa che si presta a non pochi fraintendimenti.

Un festival sembra una fiera, una manifestazione che, con l’aggiunta della specificazione letteraria, riguarda i libri. A rigore, è certo che i libri hanno a che fare con la letteratura, ma dovrebbe essere dato meno per scontato che la letteratura debba averlo coi libri, visto che una storia si può avvalere di altri mezzi per vivere. E poi c’è l’aggettivo popolare, che potrebbe alludere a una fama sperata; o a questioni folkloriche; oppure essere l’indicazione di una precisa aspirazione populista: in fondo il limite tra lo scrittore e il politico è difficile da demarcare. Certamente quella espressa dal nostro festival è una politica, un prendersi cura della nostra civiltà, ma proprio per questo abbiamo ben poco a che fare con il populismo. E poi abbiamo i libri e le persone che li scrivono, ma ci è fatale considerare questi mezzi come appena transitoriamente necessari, non imprescindibili. Astraendo appena un po’, dunque, posso subito dire che il Flep! è concepito attorno all’esigenza primaria di dare voce alle storie nella loro valenza umana, e quindi politica, civile.

Il Flep!, quindi, non è una fiera editoriale né uno spettacolo di letteratura varia, ma un accadimento letterario. Come ogni fatto letterario, allora, si struttura attorno a una precisa e circoscritta idea del mondo, o della vita: o meglio di come si possano narrare, e dunque vivere, e il mondo e la vita. Il Flep! è in sostanza la rappresentazione drammatica (per mezzo di presentazioni e letture e dibattiti ed esposizioni di immagini, e via dicendo) di un sentimento letterario che ruota attorno alla necessità di narrare, intendendo per narrazione il movimento di quelle strutture profonde che, specie se condivise, danno ragione all’uomo del suo essere. Essere vivi significa partecipare a una narrazione. La morte della nostra società civile, della nostra intera civiltà trova una salda base nell’estinzione di questa capacità di narrazione epica, mitologica. Nostra intenzione è di restituire alla coscienza collettiva un panorama, non coeso e diversificato, di questa estetica ed etica letteraria: per questo abbiamo accostato mondi opposti come quello di Balestrini e quello della Morante, impegnati con modalità tanto distanti nel medesimo impegno epico. Lo stesso discorso vale per le case editrici e le riviste presenti alla festa, scelta fra quelle che maggiormente ci sembrano cercare un modo nuovo di restaurare il rapporto fra produzione editoriale e letteratura. Tutto a favore della letteratura, che dovrebbe essere il punto nodale.
Anzi: tutto a favore della letteratura popolare.

Ecco, questa, come accennavamo, è una definizione che lascia spazio ad ambiguità o a salti concettuali sperticati. E, allora, è meglio riferire tutto alla sua fonte, ossia a Gramsci e al suo discorso sulla letteratura d’arte popolare. Nella presentazione di Flep! infatti citiamo Gramsci e la sua idea di cultura popolare, basata sul concetto di classe sociale riferito a un periodo storico in cui le classi sociali e la loro dedizione politica erano diverse. Gramsci si riferiva a una situazione culturale che riguardava in maniera particolare l’Italia. L’Italia, in sostanza, mancava (e manca nuovamente oggi) di un Conrad, di uno Stevenson, di un Hugo, di un Dostoevskij, a causa di un ben determinato atteggiamento nei riguardi di tutti gli esclusi dalla condizione di agio economico e, quindi, dal godimento della libertà politica: il popolo era trattato come un bambino da intrattenere e subornare, o da escludere dai discorsi dei grandi. L’industria editoriale in stile americano, questa breve parentesi nella storia della letteratura, ha amplificato questo atteggiamento, in nome della produzione: la letteratura si riduce a un oggetto, il libro, da vendere secondo uno studio di settore, così che avremo libri per vaste moltitudini (da intrattenere e subornare) o libri per un pubblico di nicchia (che spesso ricava da questi libri appena il piacere di non appartenere alle moltitudini). Non è un caso se il già citato Stevenson, con lungimiranza, sia stato tra i primi critici, a seguito di un suo viaggio in America, della nascente editoria moderna, e che vi si sia sottratto (voglio ricordare, anche se non c’entra nulla con l’argomento, e solo per un mio dispettoso divertimento, la critica che Wilde mosse al fervore politico di Stevenson, morto combattendo more piratesco contro l’imperialismo tedesco; voglio ricordare che Stevenson è morto lottando contro il sopruso, Wilde subendolo). Quindi eccoci al Flep!, ossia al nostro tentativo di ristrutturare la parola “letteratura” accostandola a “popolare”. Ossia eccoci al nostro atto di forza, al nostro assalto semantico al cuore etico e politico della letteratura.  Tutto nasce da questo, secondo l’idea che restituire alla collettività delle persone le loro storie e la loro storia potrebbe essere intenso come impegno minimo nei confronti della civiltà.

Oggi dovrebbe essere questo il nostro principale obiettivo. Gli scrittori sono in genere ossessionati da altre questioni: la loro figura sociale o il trattamento economico a cui sono sottoposti. Questioni legittime. Ma il problema dei tagli alla cultura non è diverso dal problema dei tagli in qualsiasi altro settore, ed è solo un aspetto del crollo di una civiltà, che forse nel passato abbiamo addirittura auspicato, e che oggi ci trova impreparati. Se potessimo ridurre questo problema a una questione sindacale, sarebbe il caso di farlo insieme agli altri lavoratori, nelle fabbriche o nei cantieri, facendo le necessarie distinzioni in urgenza e necessità. Le biblioteche, e gli istituti, e le case editrici chiudono esattamente come le altre aziende. A questo punto, provocati, sarebbe meglio giocare al rilancio, e cercare di uscire dalla cosiddetta crisi imponendo che non solo una biblioteca non sia più considerata come un’azienda, ma che nemmeno un’azienda la si consideri tale. Dovremmo cercare di salvare il lavoro, che, come dimostra l’oroscopo e Freud, insieme all’amore, è ciò che ci rende umani, e quindi ci affligge. Non una questione sindacale, dunque, ma di più: come spesso è capitato nella storia della nostra civiltà, il letterato e l’intellettuale potrebbero lavorare a fornire i mezzi culturali di una riscossa. Appunto il lavoro di ridare storie, e quindi senso alla società civile. I mezzi, in sé di natura interinale, sono ininfluenti: su carta da pacchi, telematicamente, in piazza, magari per una festa. Come quella del Flep!

Dunque, in conclusione, il Flep! è una rifondazione e una riscrittura. Spero che ci divertiremo.

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