L’Acheronte del nonno – #TUS2
febbraio 5, 2013 2 commenti
[Questa settimana l’appuntamento coi testi di Torino Una Sega 2 vede protagonista Jacopo Nacci. Jacopo ha letto un brano da Un tipo di realtà di Yu Hua, contenuto in Torture, il racconto inedito L’Acheronte del nonno, che proponiamo qui di seguito]
È il pranzo di Natale a casa dei nonni e sto pensando che, prima di riuscire a scappare per andare a imboscarmi con Jessica, trascorrerò almeno due ore con i miei e con nonna ad ascoltare i discorsi sul nonno e sul suo controverso desiderio di morire. Il nonno non partecipa al pranzo: da un anno e mezzo vive confinato nel letto della stanza in fondo al corridoio, mutilato degli arti andati in cancrena uno dopo l’altro in senso rigorosamente orario: braccio sinistro, gamba sinistra, gamba destra, braccio destro. Ora che la vecchiaia gli ha rattrappito il tronco, che sembra ormai quello di un bambino, – con il pigiamino celeste, a bozzolo, sempre più tagliato e ricucito, tanto che il taschino, che la ditta produttrice aveva progettato, secondo la norma, sulla parte sinistra del petto, si è spostato al centro – il nonno è sostanzialmente ridotto al suo testone pelato, con i suoi due ciuffi gialli dietro le orecchie.
Ammazzami, Clelia, dice il nonno ogni giorno.
Non se ne parla nemmeno, risponde nonna, tu vivi fin quando il Signore decide che vivi, altrimenti andiamo all’Inferno tutti e due.
Giuro che quando vado all’Inferno, risponde la testa del nonno, torno su e ti ci trascino.
Mia madre cerca di convincere nonna che ’ste cose si son sempre fatte; l’idea mia è che se nonno se ne vuole andare bisogna accontentarlo, anche perché da ieri ha preso un colore orrido in faccia, e sembra essersi smarrito definitivamente: non parla più, fa versi strani, si agita, si è defecato nel bozzolo senza chiamare nonna per farsi slacciare e appoggiare sul water. Io dico che è ora. E mia madre piagnucola che in effetti, povero vecchio, non lo si può vedere in quello stato.
– E che devo fare, – risponde mia nonna, – devo tirargli il collo, così andiamo dritti all’Inferno tutti e due?
– Eeeh, – fa sommessamente mio padre, ma la chiude lì, perché sa che a Natale non deve fare ciò che fa di solito quando viene fuori un discorso sulla religione, ovvero partecipare entusiasta introducendovi il signoraggio, i pannelli solari e dei famigerati alieni prossimamente redentori, della cui esistenza sono al corrente in pochissimi, tra cui lui e il suo amico Saverio.
Proprio ieri ho accennato a Jessica i discorsi di mio padre e lei si è molto arrabbiata: vedi? vedi?, ha inveito Jessica, la new age è prendere lo spirituale per fisico, è pensare che con ‘religione’ si possa intendere la credenza nell’esistenza degli alieni. E sai perché? Perché non comprendiamo più il concetto di analogia, non contempliamo più l’esistenza di verità che non siano fattuali, verità spirituali, di valore e di senso; questa è l’essenza della tecnica. Finiremo col dire che la metafora della caverna di Platone o la Divina Commedia sono sciocchezze perché non sono fatti realmente accaduti. Sai che sta succedendo? Che nella mente non c’è più spazio per le metafore, e allora le metafore camminano sulla terra.
E mentre ripenso a Jessica che tuona contro l’essenza della tecnica, con i suoi capelli arancioni, lisci e lunghissimi e i suoi occhi enormi e tagliati, che l’aliena sembra lei, mia nonna appoggia al centro della tavola il pentolone dei cappelletti in brodo, e in quel momento sento un tonfo sordo che non è il rumore del pentolone sulla tavola. Non sono l’unico ad averlo udito: mia nonna resta ferma con le mani sulle presine e le presine sulle maniglie del pentolone. Ci pensa mio padre:
– E insomma Enzo c’ha una passerina nuova per le mani.
E vedi come il mondo riprende a girare nella sua orbita di squallore? Nonna rovescia nel mio piatto una mestolata di cappelletti in brodo.
– E racconta, no? – fa mio padre.
– Seh, – fa mia madre allungando il piatto verso il mestolo, – con noi non parla, non lo sai? Speriamo che almeno non sia una zoccola come quella di prima.
È in quell’istante che la porta della sala si piega verso l’interno con un gemito. Ci voltiamo tutti, e non capiamo finché non abbassiamo lo sguardo e vediamo il testone del nonno, e poi il nonno intero che striscia dentro la sala contorcendo il tronco.
– Oh santo cielo, papà! – grida mia madre.
Mio padre tace.
Mia nonna fa:
– E potevi pure dirlo che volevi mangiare con noi. Ti portavo io, di qua.
Ma nonno, assorbito nello sforzo di strisciare accanto alle gambe delle sedie, ansima rauco e non risponde. Vedo mio padre alzarsi, inseguirlo lento e silenzioso come dovesse acchiappare un pollo, e poi afferrarlo per i fianchi e sollevarlo: nonno ha la faccia ancora più gialla di ieri, gli occhi pregni di sangue ed emette versi incomprensibili torcendo il busto tra le mani di mio padre, che alza le sopracciglia e piega la schiena all’indietro, e fa:
– Gaetanooo…
E lo appoggia sulla sedia libera: qui nonno rimane in bilico in un modo che non riesco a capire, e pare calmarsi.
La nonna ha già preso un piatto e un cucchiaio, gli mette i cappelletti davanti; avvicina la sua sedia e si appresta a imboccarlo quando nonno spalanca la bocca lasciando andare un suono bizzarro e con una scudisciata del collo affonda la faccia nel brodo bollente, poi lento la rialza, con il liquido che cola, la bocca ancora aperta, e pezzi di pasta di cappelletto che fumano tra i cespugli delle sopracciglia.
Mia madre fa:
– Oddio papàaa…
Mio padre è immobile. Mia nonna sospira, scuote il capo e prende il tovagliolo. Dice:
– Vuoi proprio farmi vedere i sorci verdi.
– Mamma… – faccio io, ma mia madre non mi considera, guarda la nonna che sta cercando di pulire la faccia di nonno, che dal canto suo ha ricominciato a sbattersi come un indemoniato, tale che la nonna è costretta ad alzarsi e spostarsi dietro di lui tentando di immobilizzarlo.
– Maaammaaa… – sibilo, e lei finalmente si gira e mi fa:
– Eeeh, che c’èeee.
– Il nonno è morto, – faccio io.
– Eh?
– Il nonno. È morto.
Ci voltiamo: la nonna ha il respiro flebile e rauco, ha la testa sopra la testa del nonno, gli occhi ribaltati come una mistica, il collo squarciato e un lembo di carne stretto tra i denti del nonno, che digrigna e stride. Un fiume di sangue denso si riversa nella scodella dei cappelletti che ora galleggiano in un brodo nero e nuovamente fumante, e io li guardo, quei cappelletti in brodo di sangue, e penso che davvero non c’abbiamo più spazio, nella testa, per le metafore.
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qualcosa nell’uso del linguaggio mi trova molto complice, eppure la vicenda nel suo insieme mi lascia da solo, sul ciglio della strada, col pollice alzato ed il cartello con scritto: “raccontami”.