Quell’incompiutezza temibile e tremenda a un tempo

di Fabrizio Gabrielli

C’è questo passaggio in A room of one’s own di Virginia Woolf, quello in cui si osserva che “i libri si continuano l’un l’altro, a dispetto della nostra abitudine di giudicarli separatamente”, che m’è sempre sembrata un’affermazione insieme piena di livore e commiserazione verso chi giudica separatamente i libri: porèlli loro, che sempliciotti, viene da dire. Mi piace pensare che quell’a dispetto la Woolf l’abbia messo là, così vicino a nostra abitudine – weasel word della peggior specie, nostra, come sarebbe a dire, nostra di chi? – ecco, per dispetto.
I libri si continuano l’un l’altro nella testa di chi li scrive e di chi li pubblica, figuriamoci se non lo fanno pure in quella di chi li legge, Virginiabè, anima mia.
Il filo di seta che li lega, poi, tutt’altro paio di maniche: quello sì che è meritevole d’approfondimento. C’è chi traccia sentieri critici e chi si lascia meramente trascinare da un fiuto emozionale, olfatto che mena a un tartufo dopo un tartufo e prima dell’altro. O forse è tutta una fatamorgana, vallo a capire.
M’è capitato recentemente di imbattermi – encore une fois – in uno di questi maelström in cui convergono e da cui si dipanano i fili rossi della consequenzialità: ad accompagnarmi avevo un animale guida, che finiva per spuntar fuori da ogni pertugio come i coniglietti in quella lettera alla signorina parigina di Cortázar.
Il mio animale guida era l’ajolote, col suo piccolo e rosa volto azteco.

M’aveva fatto capolino, per la prima volta, in una teca tutt’intento a ipnotizzare Cetarti, il protagonista di Bajo este sol tremendo (Sotto questo sole tremendo, Atmosphere Libri, 2012, traduzione di Silvia Raccampo) di Carlos Busqued, un noir che m’aveva cercato, più che essersi fatto trovare – dev’entrarci qualcosa la radice etimologica del cognome dell’autore, stavvedére.
SQST è un romanzo pieno di mosche e pesci morti nei fiumi, di effluvi miasmatici pari in intensità alle puzze che fuoriescono da certe pagine suskindiane; ci sono elefanti che impazziscono dopo aver imparato a danzare stimolati da scariche elettriche, vite piene di desolazione, video porno studiati con mood entomologico e più in generale un campionario intero di animalità e istinto che ti rintontolisce pagina dopo pagina, tanto che a fine lettura ti senti imbarbarito un po’ anche tu, come Duarte, l’antagonista par excellance, figura che appartiene a quella genia di antagonisti che in fondo non sono che il negativo del protagonista, pieni di sì tanta benevolenza che finisce per stordirti, come l’essenza della perfezione emanata da Grenouille. Oltre agli elefanti, in SQST, ci sono zebù e anaconda, cani, calamari giganti, zoccoli tentacoli proboscidi e mandibole che finiscono per dare vita a un basilisco che abita il confine tra veglia e stato catartico; e poi Sangue, Sperma, Salamandre, Sogni, tutt’una serie di S che somigliano ai ganci di una macelleria, Premiata Ditta in cui puoi riconoscere il padrone e i garzoni un po’ svogliati e un po’ succubi, che in certi pomeriggi torridi d’estate, dacché non vogliono darsi una scossa, né saprebbero come fare, si limitano a un pascolo spensierato alla stregua di bovini, o di asciolotti.

“È che a noi non piace muoverci molto,” dice l’axolotl protagonista dell’omonimo racconto di Cortázar (è in Fine del gioco, Einaudi), “l’acquario è così stretto; appena avanziamo un tantino ci urtiamo l’un l’altro con la coda o con la testa; nascono difficoltà, liti, fatica. Si sente meno il tempo, se stiamo quieti”.

Penso che Alessandro Raveggi, a giudicare dal libro che ha scritto, Nella vasca dei terribili piranha (Effigie, 2012), e soprattutto da come l’ha scritto, ecco, axolotl non si senta per niente, né brami dalla voglia di impersonificarlo – o farsi impersonificare, per rimanere fedeli al divertissement inscenato da Cortázar.
NVdTP è un’elegia del movimento, dei larghi respiri, in cui l’oceano si sostituisce all’acquario e l’immobilità paciosa viene incrinata spesso e volentieri dall’urtarsi riottoso di testa e lingua, uno scontro dialettico dagli esiti devastanti che s’appalesa in uno stuggle intestino e centrifugo che rende il tempo mica una gelatina inconsistente, ma fragore di clessidra che si consuma inesorabile.
Non farò qui nessun cenno alla trama, perché quel che m’interessa è gettare il sasso in altri quadranti oceanici, e analizzare i cerchi concentrici che si creano lontani dal frangersi stanco dei flutti del plot.
Quando, era dicembre scorso, mi son trovato insieme a Raveggi e Simone Ghelli a parlar del romanzo alla Altroquando, ricordo d’aver evocato una scena che m’era apparsa in tutta la sua fluorescenza durante la lettura – una lettura tutt’altro che semplice, per inciso, e di certo non facilitata da una cura del testo, in fase redazionale, a tratti maldestra e approssimativa, ed è un gran peccato, perché non rende onore all’acribia dell’autore, che esce svilita da tutt’un cimitero indiano di refusi che férmati.
Avevo avuto, dicevamo, leggendo NVdTP, un’epifania di ciancioli che pescano a lampara. Le lampare aliciaie, se le osservi nottetempo in battuta di pesca, pare avanzino slegate, ognuna per sé, spinte dalla brama di piccola onnipotenza come Aguirre alla ricerca di El Dorado; sembrano voler pescare tutto il mare da sole, e tu pensi porèlle, che sempliciotte. Solo all’alba, quando l’abbraccio dell’aliciaia-madre le ricongiunge, ogni cosa assume un senso coerente, anche i deliqui solipsisti.
Ero molto convinto della coerenza strutturale del romanzo raveggino, all’epoca; meno convinto, invece, della sua riuscita stilistica. Sempre meno, a ogni rilettura. M’era sembrata, a più riprese, eccessivamente pretenziosa; poi pretestuosa; poi audace; infine incompiuta.
Qualche settimana dopo, in un articolo su La Lettura, Daniele Giglioli si è lanciato in una disamina di NVdTP che mi si è rilevata illuminante per comprendere appieno dove si celasse la rotella dell’ingranaggio inceppata, che io – meccanico poco operoso e decisamente inesperto – mi arrabattavo di trovare.
In soldoni, il punto di vista di Giglioli è che Raveggi, in questo romanzo, abbia cercato di far propri tutta una serie di imperativi stilistici, tematici e compositivi propri d’un filone letterario, quello legato da un robusto cordone ombelicale alla bandana di DFW; ma che, ahilui, non ci sia riuscito.
La pirotennìa verbale, la mescidanza d’elementi colti e raffinatissimi con brodetti primordiali e globalisti, l’education che copula senza bisticciare con l’entertainment, il massimalismo debordante, l’arte for the art’s sake, dice Giglioli, son propri di DFW, questo è assodato, ma anche di Raveggi. Che però, a differenza del suo illustre predecessore, non marca alcun passo, affronta la Medusa a viso aperto e ne rimane impietrito, Perseo sfortunato, o forse troppo sfrontato.
La conclusione di Giglioli è che certe comete, quando passano, sono angeli che possono rivelarsi benedicenti o sterminatori o fors’anche tutt’e due (in questo caso DFW ha abbacinato e raso al suolo); e Raveggi, questo è certo, dice Giglioli, deve sentirsi esentato dal motteggiare chi non risica non rosica: perché ha rischiato. Poi che c’entra, in parte ha fallito; ma può comunque leccarsi le ferite a testa alta.
Io DFW l’ho letto poco, e a mozzichi, e dopo Il rap spiegato ai bianchi pure con una punta di sprezzante pregiudizio, il che è sempre male, lo so da me, non statemelo a dire; e mi ci voleva un Giglioli travestito da asciolotto (o viceversa) che mi passasse dentro una torta alla panna un grimaldello interpretativo per divellere le sbarre della gabbia dell’incomprensione, quella che – dicevo – mi arrabattavo di risolvere.

Scrive Cortázar: “gli occhi dell’axolotl mi parlavano […] di un’altra maniera di guardare. […] Gli axolotl erano come testimoni di qualcosa. A volte come terribili giudici”.
Il giudizio che per me è emerso da NVdTP, paradossalmente tranciante, è che in fondo dovremmo sollevarci da qualsiasi giudizio, e concentrarci sullo sguardo altro, sulla prospettiva nuova che una lettura del genere ci spalanca dinanzi, perché Raveggi, senza indossare alcuna bandana, e anzi con le pupille come punta di spillo, ha lanciato un monito – neppure troppo immaginifico, vieppiù.
Se il ragazzo anfibio – belva mitologica o dio atavico, spot per viral marketing o va a capire che altro di inenarrabile – non si vede mai, non fa mai la sua apparizione a tutto tondo, resta nel chiaroscuro dello sfondo, si limita a lambire le coste di Lanzarote, di Oslo, inerpicandosi per il bionno tevere o per l’Arno o nelle fogne parigine entrando e uscendo senza che si sappia bene what’s cooking, un motivo dev’esserci, mi son detto allora: e forse deve dipendere dal fatto che quel mostro non siamo che noi, la nostra generazione, letteraria e tout court, che sebbene bramiamo dalla voglia di credere (e votarci) a una visione baluginante, di quello sfavillio non sappiamo scorgere che dettagli sfocati, un riflesso di sfuggita nello specchio di una sala buia, l’aura trasparente sui vetri appannati dell’acquario. Quel mostro è l’axolotl dentro la teca e al contempo noialtri che da fuori lo osserviamo, prima di scambiarci i ruoli e ancora e ancora, ad libitum, prigionieri di un’incompiutezza atavica e nondimeno, nostro malgrado, perpetuata.
Per questo, agli occhi di Giglioli, ai miei, e magari ci fermiamo qua, o magari no, NVdTP è un meraviglioso ibrido, feto in progress, creatura fantasticamente anfibia, organismo che non regredisce (non saprebbe come farlo) ma neppure si sviluppa, perché la sua raison d’être trova compimento solo nell’incompiutezza. Un po’ come noialtri, così simili all’axolotl.

Non lo so com’è che siam diventati tutti così simili a quella bestiolina semplice e misteriosa: noialtri, il romanzo di Raveggi, tutt’una generazione. Davvero: provo a sondarne le ragioni e non ci riesco.
Forse, a furia d’osservare l’immobilità dei nostri movimenti atrofizzati, abbiamo fatto dell’incompiutezza (e dell’inconcludenza) una caratteristica congenita: ci siamo abituati a uno stato larvale dal quale anche solo scrollarsi appare un successo entusiasmante. Come se non sapessimo far di meglio che limitarci a questo.
Alla stregua del lemming più audace, quello che si stacca dal branco per gettarsi dal dirupo, non ci restano che i flebili plausi dei modesti commilitoni, miserevolmente commossi.

Che solo a pensarci, è una ròba temibile e tremenda a un tempo.

[Su NVdTP leggi anche Due esordi, di Vanni Santoni]

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