Il senatore più ridicolo del mondo – #SurrealityShow

Fuori Orariodi Andrea Frau

È notte fonda. Devo essere a Palazzo Madama tra venti minuti. È il mio primo giorno da senatore della Repubblica. Non ho la più pallida idea di dove sia, poco male, salirò sul primo taxi sperando di arrivare in tempo.
È buio e c’è una nebbia fitta come mai ne avevo viste a Roma. Ecco un taxi, faccio un segno, speriamo che mi abbia visto. Si ferma e salgo su.
“A Palazzo Madama con piglio combattivo, caro concittadino!”, gli ordino.
Alla radio Break on through (to the other side) dei Doors.
Il tassista si gira, è nero, ma ha la voce di Alberto Sordi.
“Obbedisco!” mi dice.
“Che ci va a fare al Senato a quest’ora?”
“Vedo che è un accanito lettore di quotidiani”, ironizzo.
“Senta un po’ capo, scusi se non sono un fine analista politico. Il turno di Massimo Franco è di mattina”. Detto questo spegne la radio.
“Non volevo essere arrogante, mi scusi”, cerco di sistemare le cose anche perché siamo quasi arrivati.
“La gente come lei mi irrita sul serio”. Preme un bottone e il tassametro va al contrario. Sette euro, cinque, tre. Torna rapidamente indietro. Fuori è meno oscuro, sta tornando la sera.
Con tono calmo e solenne mi dice:
“Vede signore, mi sta derubando, qua non siamo al Senato, questo è il mio taxi e decido io”.
Non capisco come cazzo siamo arrivati a questo. “Non volevo in nessun modo offenderla. Lei è un lavoratore, posso solo immaginare i sacrifici, gli orari pesanti, i turni massacrant… “.
Non faccio in tempo a terminare la paraculata che questo allunga il braccio vicino a me, penso che mi voglia colpire, il suo sguardo mi ricorda Alberto Sordi nella scena finale di Un borghese piccolo piccolo mentre aspetta Zed. Invece apre la portiera, sterza e io vengo scaraventato fuori dal veicolo e rotolo sulla strada.
Bestemmio, mi si è pure strappata la giacca.
“E i Doors mi fanno pure cagare!” gli urlo.
Quello torna indietro, scende dall’auto e mi viene incontro. Indietreggio, sono con le spalle al muro. Lui mi sfila la cravatta con un rapido gesto e mi dice sorridente:
“Pensa di entrare al Senato senza cravatta? Buona fortuna” e riparte sgommando, sollevando cumuli di polvere.
“Porca puttana!” mi dispero. “Ma che cazzo significa, perché?!” sbraito con l’espressione più sofferta che conosco. (Non la usavo dai tempi di Infinito dei Litfiba).
Anche una cosa così solenne come il mio primo giorno da senatore deve diventare una farsa. Dovevo solo prendere un taxi ed entrare in Senato. Ora mi daranno del traditore, del venduto, o peggio, penseranno che sia un pigro bastardo. Poi ho la giacca impolverata. Io che sognavo di scoprire un altro armadio della vergogna, ed impolverarmi spulciando gli archivi, presiedere commissioni stragi e fare luce sui misteri. Io, ridotto così per colpa di un folle in preda al furore giacobino.

Ce la posso ancora fare. Mi serve solo una cravatta. Finalmente un po’ di fortuna. Quel barbone addormentato ha una cravatta in testa a mò di bandana. Eh no, caro mio, quella cravatta lercia starebbe meglio nella gloriosa aula del Senato che sulla tua sudicia fronte, detto sempre con il massimo rispetto. Mi avvicino con destrezza facendo attenzione. Il barbone si alza di scatto:
“Ex comandante di fanteria John Persichetti, detto Il Persico. Ai suoi ordini, senatore!”
“Oddio, mi hai spaventato comandante eccetera eccetera. Senti, mi serve la tua cravatta. Devi farlo per la Patria che rappresento.”
“Sarei onorato di obbedire. Ma non ho nessuna cravatta”
“Come no? Quella cosa che hai in fronte come la chiami?”
“La mia bandana da notte, intende? Lei è una persona molto buffa, senatore. Va bene, la prenda”
“Grazie comandante il Persico, a buon rendere, la citerò nel mio discorso di insediamento” Tanto che ne sa questo qua… potrei promettere qualsiasi cosa.
“Non si disturbi dottore, più che altro lei è molto sporco, cosa le è successo?”
“Effettivamente hai ragione caro mio, è una storia lunga. Io novello rappresentante delle istituzioni democratiche ridotto come un barbone. Oh, scusa.”
“Scusa di che? Lei è proprio strano, senatore. Venga con me, le prometto un bagno caldo, un giacca nuova, giornali della mattina, omnibus notte e giorno e un buon caffè con cornetto.”
“Sì, si può fare, ti seguo.”
Attraversiamo la strada. Un taxi ci viene incontro e prende in pieno il barbone.
“Non arriverai mai in tempo senatore! E anche se dovessi farcela sei impresentabile!” mi urla il guidatore ridendosela di gusto e sfrecciando via. È il tassinaro nero con la voce di Sordi, bastardo!
Ha ragione, non ce la farò mai.

Proprio mentre vago sconsolato per i vicoli bui sento gridare.
È una donna, ed è in pericolo. Le urla non sono neanche così forti, posso far finta di nulla.
“Senatore, so che mi può sentire, mi aiuti, la prego!”
Ok, vado. Giro l’angolo e la vedo. È bellissima. Questa fontana è bellissima.
“Senatore, senatore, si muova!”
“Oh sì, scusa”. La giovane è di una bellezza passabile. Un viso comune, un vestito già visto, un corpicino né robusto, né magro. È proprio sciatta, proprio mentre lo sto scrivendo su un bloc notes mi interrompe.
“Che diavolo fa? Mi salvi!” Getto la penna, mi fiondo verso di lei e metto in fuga il tombino che aveva imprigionato il suo tacco. La guardo meglio: è una Jasmine Trinca con i capelli sporchi. Di quelle ragazze che conosci alle autogestioni del liceo. Ottimiste e di sinistra per dirla con Lucio Dalla.
“Mio eroe! Quanti disegni di legge mi dedicherai? Penserai a me durante le lunghi notti d’ostruzionismo?”
“Sai che anche la tua voce è proprio comune? Apprezzo la coerenza. Hai una di quelle voci che non rimane in testa. Se tu fossi una dittatrice e parlassi ogni santo giorno a reti unificate, doppiassi tutti i film, annunciassi i treni, prestassi la voce alla Vodafone per le ricariche, beh, la tua voce proprio non me la ricorderei.”
“Oh grazie, ho sempre sognato essere come tutti gli altri. Ho sempre invidiato chi passa inosservato senza attirare gli sguardi della gente come quegli attori non protagonisti che magari hanno recitato in centinaia di film ma non c’è verso che ti rimanga impressa la loro faccia.”
“Ti capisco. Mio padre era Renato Salvatori!”
“Oh, il mio idolo!” e quasi sviene mentre me lo dice.
“La gente mi chiede perché non ho organizzato un funerale pubblico per mio padre. Ma io li ho fatti i funerali, dannazione! E la gente che me lo chiede ci ha pure partecipato! Ma quando mostro loro le foto non si ricordano nulla e negano come una Melandri alla festa di Briatore. La bara aperta di mio padre sembrava vuota. La sua presenza scenica era paragonabile a quella di un fotomodello vampiro.” Anche il suo nome è banale. Lei è la vera ragazza della porta accanto, di quelle che se il palazzo va a fuoco o sta per essere demolito nessuno le sveglia. Di quelle che se muoiono nel loro monolocale i vicini non vengono attirati manco dalla puzza. I loro corpi senza personalità neppure quando marciscono riescono ad avere un odore acre che rubi la scena agli altri sensi. Ormai questa Drew Barrymore nella vita reale, ossia senza trucco e sceneggiatura, è pazza di me:
“Oh amore, dedicami la canzone più banale mai scritta, scrivi la poesia più retorica di sempre, realizza per me l’impresa più fattibile del mondo, ti ispirerò il racconto più prevedibile mai concepito!” “Questo e altro piccola, per il nostro amore, così mediocre, così comune”
“Oh senatore, ti prego, baciami”.
“Ok, la Camera approva”.

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