Capitan Passato – #SurrealityShow
Maggio 1, 2013 1 commento
di Andrea Frau
Domenica è successa una tragedia.
Tragedia che colpisce una società in disfacimento già duramente colpita da una sequela di disgrazie e sconfitte.
Ora, perfino l’ultimo baluardo è stato colpito. Pensavamo che le istituzioni fossero al riparo dalla follia o dalla cattiva sorte come protette da una bolla di mitologia eterna. Invece due giorni fa, alle 15:15 in un’assolata domenica il Capitano, Javier Zanetti, ha subito un tragico infortunio.
Non è colpa di nessuno, non stiliamo la solita lista dei fomentatori d’odio o dei cattivi maestri. Limitiamoci a guardare le immagini e osservare come Salvatore Aronica non abbia fatto nulla di grave. Sappiamo che sono contrasti normali durante una partita. Però, i commenti dei suoi fan, sul suo blog, sono vergognosi.
Testimoni giurano di aver visto l’Aronica scoccare una freccia avvelenata sul tendine d’Achille del Capitano. Il tendine d’Achille, unica parte vulnerabile di Zanetti. Secondo la leggenda infatti Facchetti immerse il nostro ancora in fasce in un fiume di talento, sacrificio e Gatorade. Lo tenne per un tallone così quell’unica parte non si bagnò restando pericolosamente vulnerabile.
Il bimbo argentino protesse una palla trovata per caso e partì palla al piede, corse per chilometri, poi, quando si girò si accorse che nessuno l’aveva seguito. I suoi assist sarebbero stati inutili e si vide costretto a tornare indietro. Negli anni seguenti si guadagnò il rispetto vincendo la millenaria conventio ad excludendum anti-interista.
Il giocatore del Palermo forse influenzato da cattive letture, tipo Tuttosport, si è comportato esattamente come Antonio Pallante, l’attentatore di Togliatti. Ma il nostro Capitano, dal suo letto di ospedale non ha incitato alla rivolta, bensì con grande senso di responsabilità ha intimato ai suoi di star calmi e non cedere allo sconforto e alle provocazioni. Javier, come Enrico Berlinguer, non è la Madonna. Ma quando ha pianto dal dolore a bordo campo, dei pastorelli gli hanno portato dei fiori. Stanotte l’ho sognato e mi è passato il torcicollo. Nella mia visione Zanetti moriva in campo, e ai suoi oceanici funerali partecipava perfino il nemico di sempre: l’arbitro Ceccarini.
È curioso: come per il PCI il nome “Achille” segna sempre la fine del mito.
In questi tempi incerti rimagono ancora delle bandiere, degli esempi, dei simboli. Il Papa si dimette, sparano a dei carabinieri fuori da Palazzo Chigi, mentre i capelli di Javier, incuranti di tutto, rimangono scolpiti come le leggi nelle tavole di Mosè. Come il sole sorge sempre la mattina. Incuranti di tutto, anche degli infortuni.
“Qualcuno è interista perché Javier Zanetti è una brava persona”.
(Dedicato alla memoria di Armando Cossutta)
Un pomeriggio di dicembre del 1995, mentre aspettavo di imbarcarmi sul volo per Madrid, mi sono accorto che quel giovanotto che guardava attentamente lo schermo le immagini della sua partita di poche ore prima nella squallida sala d’attesa di Linate era il giocatore dell’Inter acquistato assieme allo strepitoso Rambert, ala estrosa alla Mariolino Corso destinata al pallone d’oro (subito dopo lo sciupafemmine Renato). Presenza episodica, l’imberbe terzinotto non poteva che essere stato in campo causa congiunzione astrale irripetibile. Sapevo che di costui, la ruota di scorta dell’inenarrabile Rambert, avremmo perso in fretta le tracce, se ne sarebbe tornato in Argentina senza lasciar il più minuscolo segno, Luis Silvio Dannuello della difesa interista, Barbadillo della fascia destra, Zahoui senza arte né parte nella sgangherata combriccola ambrosiana.
Il tipo che si è fatto male deve essere la sua copia bionica, un gentiluomo dei tempi andati che tratta palla, avversari e compagni come fossero persone, esseri umani, tanto da metter in serio pericolo il paradigma schmittiano amico/nemico, inossidabile sul campo da calcio. Deve esserci un errore nel software. O nell’hardware. Or both.
Un gobbo.