I dolci li ordiniamo alla fine
Maggio 6, 2013 1 commento
I cani si rincorrevano disegnando per terra traiettorie di polvere che conducevano alla fontana o sotto la grande quercia, davanti al parcheggio, dove si fermavano d’improvviso, sdrucciolando come vecchie gomme bruciate e fissando spauriti un punto invisibile nell’aria; lì, con le orecchie tese e la bocca spalancata, il più veloce s’acquattava sotto la coda del più smarrito e gli infilava, come in una presa, il suo lungo muso eccitato, che dava smalto allo slancio per l’ennesima sgroppata, lungo le stesse trame polverose di prima.
Acciambellato in disparte, un cane nero allungava il collo tra i listoni divelti di una panchina marcita, srotolando la lingua in una busta di carta marrone che sapeva di cibo. Ogni volta che il suo muso, come una gemma, fioriva tra le sbarre arrugginite, una mano lo stringeva con forza fino a farlo lacrimare, in una morsa fredda e pelosa da cui il cane si liberava a fatica. Subito dopo ci riprovava, girando attorno alla panchina, ma l’uomo era più furbo e anche più veloce: nascose la busta sotto il cappotto e gli franò addosso con un balzo prima di scomparire tra le nebbie oscure del parco.
In direzione opposta, una scia di odori intensi condusse il cane davanti a un ristorante ancora aperto. Di fronte alla vetrina, stesa per terra, una donna stava morendo sotto una macchina appena abbandonata. I suoi capelli biondi erano intrisi di sapori speziali a cui era impossibile resistere; leccò per bene le lunghe ciocche insanguinate e il suo viso bianco e freddo; poi continuò fino ai piedi, dove una sigaretta bruciava ancora e un cellulare vibrava sulla ghiaia che zampillava come pop-corn bollente.
È il nostro primo appuntamento e io sono in ritardo. Sul marciapiede, come in un domino di lamiera, le automobili si arrampicano dalla caditoia sotto il cordolo della banchina fino all’ingresso del ristorante. Al terzo giro lascio la macchina in seconda fila e, nel silenzio dell’acqua gelata che bulica nelle polle dei nasoni, finisco la sigaretta davanti alla vetrina, mentre il vento preme sul nastro adesivo che dolcemente fissa un cartellone rosa con la fotocopia di una vecchia recensione e il menu della serata scritto a mano. Leila è seduta al tavolo e parla al cellulare. Appena mi vede fa segno con gli occhi di averne ancora per poco; sorrido riprendendo fiato e mi sento già meglio: se la telefonata dura quanto il mio ritardo, non dovrò scusarmi.
Attorno a noi i tavoli sono vuoti; l’ingresso alle nostre spalle è coperto dal rinfianco di un arco. Leila inarca le labbra ogni volta che sorride; quando parla, gli occhi si distraggono e il viso le si contrae in una smorfia involontaria, eppure la trovo più attraente che in foto e penso che mi piacerebbe dirglielo. Appena il cameriere arriva con i menu, lei chiude il telefono e lo saluta stringendogli la mano. Io non conosco quasi nessun piatto e non so da dove cominciare; Leila propone di ordinare per entrambi e chiede al cameriere di portare subito una bottiglia di Duca di Castelmonte.
Il vino è buono e mi rilassa; ne bevo due bicchieri mentre Leila sceglie le portate.
L’unico tavolo occupato è quello avanti al nostro: una giovane donna è seduta con due ragazzi che parlano ad alta voce e ridono rumorosamente. Il loro tavolo è già imbandito, pieno di colori forti e accesi: il verde del pistacchio, il dorato dei fritti, il rosso del sugo profumato.
Mezz’ora dopo il vino è quasi finito. Leila è distratta, regge in grembo il cellulare e dal ronzio della vibrazione mi accorgo che sta scambiando messaggi con qualcuno.
Mi verso l’ultimo bicchiere e faccio segno al cameriere di portare un’altra bottiglia.
«Sei molto bella Leila. Più che in foto» le dico.
Leila mi guarda con i pollici sullo schermo, come se cercasse di ricordare qualcosa, poi le cade il cellulare e la batteria si perde da qualche parte sotto il tavolo.
Ci alziamo insieme per raccoglierla e appena sono in piedi barcollo un po’. Ho tanta fame.
«Scusami» dice lei rimontando a quattro zampe il cellulare sul pavimento «devo fare una telefonata. Torno subito!»
Mentre va via, mi giro a guardare i suoi lunghi capelli biondi e mi accorgo che la ragazza avanti a noi porta una fede al dito. I due amici continuano a parlare fissandosi negli occhi. Sono protesi l’uno verso l’altro – le loro labbra si sfiorano, le dita si annodano, ma i piedi no, non riesco a vederli, da qui.
La ragazza va alla cassa a pagare e i due escono tenendosi per mano. Al nostro tavolo intanto arrivano le caponate, i tortini di verdure con le cipolle, le zucchine e i pomodori ripieni e le panelle calde fritte.
«Manca qualcosa?» mi chiede il cameriere, mentre un rivolo di sudore gli cola dalla fronte lungo tutto il viso. Le terrine dei tortini sono bollenti e le caponate profumano di mare. Sento il sapore dei capperi e qualcosa di dolce mi si scioglie in bocca, stringendomi il cuore e irradiandosi giù, fino alle ginocchia.
Il cameriere continua a guardarmi con gli occhi lucidi per il calore; ho la sensazione che mi stia suggerendo qualcosa o forse mi sta chiedendo di pensarci ancora.
Mi guardo attorno. Il locale è vuoto, e tutto ruota, come se crollasse, attorno al nostro tavolo. Penso che mi piace. È come vedersi in uno specchio rotto. È una bella sensazione.
«Manca il vino» gli dico.
«Nient’altro?»
Rispondo con una specie di sorriso.
«I dolci li ordiniamo alla fine.»
Sempre un piacere leggerti!!!