Carcharodon – #gunstreet

di Domenico Caringella

Quando il tenente Woodehouse, per venire al dunque, scelse l’infelice metafora del gatto corredata dallo strascico inevitabile delle sette vite, perse l’ultima possibilità di entrare un giorno al mio posto nel grande ufficio candido come la neve all’ultimo piano. Mi limitai a posargli una mano sulla spalla e a fargliela pesare quanto bastava per suggerirgli di restare seduto, di tacere e spiegargli che aveva imboccato una strada senza ritorno.
Mentre mi alzavo, provai una fitta di delusione, non tanto per lui quanto per me; solo ora mi accorgevo che non aveva gambe abbastanza forti per camminare da solo. Né ali per volare. A me erano spuntate il giorno in cui a distanza di due sole ore avevo divorziato e avevano sparato al mio compagno di pattuglia, e ne ero uscito vivo, immacolato come un lago di montagna, come la fedina penale di un vescovo, come l’abito che porto adesso.
Quando iniziai a parlare io, bastarono pochi minuti a far comprendere a tutti i presenti, ai poliziotti di strada come agli ufficiali, che non potevamo permetterci di sbagliare animale per Guzman. Non era una questione di pellaccia dura e di vite, ma di denti. Uno squalo può perderne quanti ne vuole, altri arriveranno, incessanti, in un ciclo che andava ben oltre il sette. E lo squalo è cattivo, non fa sconti. Ed è un pesce, e i pesci non si cerca di ammazzarli, i pesci si prendono.
Hanno capito chi avevano davanti, chi dovevano prendere, è stato sufficiente quello. Così è bastato decidere che far saltare le cervella a sua madre e mandargli una letterina con su scritto l’indirizzo della sorella era un sacrificio che si poteva affrontare senza tanti sentimentalismi, e alla fine lo Squalo Guzman è venuto lui dritto dritto da noi, da solo.
È il giorno in cui hanno cominciato a chiamarlo “lo squalo” che abbiamo preso Guzman. Il giorno in cui hanno cominciato a chiamarlo come tutti quanti chiamano me.

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