Questi maledetti toscani
Maggio 31, 2013 1 commento
Piano B edizioni inaugura la sua nuova collana di narrativa italiana Avantiveloce »| con Toscani maledetti, una raccolta di racconti curata dal giovane critico fiorentino Raoul Bruni. Toscani maledetti cerca di tracciare lo stato dell’arte del racconto in Toscana, da sempre una terra d’elezione di questa forma narrativa, dove con Boccaccio è nato il racconto occidentale moderno e dove, nel secolo scorso, esso ha raggiunto alcuni degli esiti più alti in ambito italiano (Papini, Tozzi, Palazzeschi, Pea, Tobino, per non fare che alcuni nomi).
Questo libro si propone di raccogliere una scelta di racconti inediti composti dagli autori più significativi e originali della nuova narrativa toscana. Si tratta di narratrici e narratori sotto i quarant’anni, giovani ma non esordienti, anzi già noti al pubblico nazionale, e che si sono distinti, fra l’altro, per la capacità di raccontare in modo singolare varie aree del territorio toscano.
Alcuni tra questi – Ilaria Giannini, Alessandro Raveggi, Vanni Santoni e altri ancora – sono apparsi più volte anche sul nostro blog.
Tra gli autori selezionati c’è anche il nostro Simone Ghelli, di cui vi proponiamo in anteprima un estratto del racconto presente in antologia e intitolato Oboe d’amore.
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Accadeva così: che io la seguissi ovunque.
Lei, stanca di tutti quegli sguardi, si era appartata in campagna: dove faceva delle lunghe passeggiate con indosso i suoi strani cappellini; e gli animali la guardavano, e anch’io: certo.
Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano.
Che non mi abbia mai visto resta un mistero: forse, troppo presa dal rimirarsi nello stagno, e poi dal ripensare quell’immagine riflessa di se stessa, non si accorgeva davvero che degli esseri più piccoli: che per farsi notare fanno sempre più baccano degli altri, si sa. Ad esempio tutti quei passerotti che lei lasciava becchettare tra i suoi capelli: ma anche i roditori, che scendevano a frotte dai rami; e poi tutto quello squittire e chioccolare lì intorno: una sinfonia da uscirci pazzi.
Dovete infatti sapere che io con la musica non ho mai avuto un buon rapporto: che dall’età di quattro anni mi misero a fare gli esercizi al piano con le noci tra le dita, per tenerle divaricate, e che mi obbligavano a raccoglierle ogni volta che cadevano e a riprendere il brano daccapo: e che io le noci me le mangiavo poi di nascosto, anche questo lo dovete sapere. Chopin lo odiavo, con tutto quello struggimento; un po’ meno Mozart, che in certi passaggi mi faceva sobbalzare dallo sgabello: come i grilli che in futuro mi sarebbero zompati tra i piedi, nascosti in quei ciuffi d’erba secca, e a volte fin dentro la barba. Mentre la guardavo, però, sentivo piuttosto le note d’un Ravel, o d’un Debussy: tutto un rincorrersi di pifferi e percussioni, insomma; perché la sua corsa in mezzo a quei campi era una pennellata feroce di colore, e uno squarcio nel paesaggio che s’animava tutto. Era di più: uno strappo nel cielo, che si rovesciava a terra insieme a tutti gli angeli; e me li sentivo nello stomaco, quelli, che mi pizzicavano le corde e solleticavano il sentimento.
Accadeva, mentre percuotevo i tasti come un ossesso, che mi arrampicassi per le scale adorne di fili dorati disseminati dal suo ricordo: e ogni volta, terminato con successo un esercizio, dovevo tornare a spiarne i movimenti, perché mi suggerissero l’aria che avrebbe dato corpo allo spazio tra le note. Allora mi alzavo dallo sgabello e indossavo le scarpe da ginnastica per uscire all’aperto, dove mi distendevo con l’orecchio a terra, paziente e in attesa dei suoi passi. A volte giungeva gaudiosa, così prosperosa che temevo un terremoto capace di squinternarmi tutte le scale; in altri giorni era invece esile e contratta, in procinto di piangere per un nonnulla, e perciò dispensatrice di trilli a profusione. Per certo m’era d’ispirazione ogni particolare, che annotavo su un piccolo taccuino punteggiato di moscerini schiacciati dalla forza della penna, e ogni sgorbio voleva esprimere un sentimento suddiviso per frazioni, di cui trattenevo a stento il tempo tamburellando con le dita sulle gambe.
Rientrato a casa, accaldato per la corsa, scoprivo spesso l’impossibilità di tradurre i segni da me stesso elaborati – a sfuggirmi erano soprattutto le sfumature, il colore: che nella musica son tutto, si sa. Allora m’indispettivo, e a voce alta cercavo di riprodurre il ritmo emettendo strani versi con la bocca, che certe volte distoglievano mia madre dalle sue faccende e l’attiravano allarmata nei miei pressi, dove mi guardava con sbigottimento: «Ma ti sembra il modo?»
Diceva proprio così: modo – che in musica ha un significato preciso.
Applausi dalla tifoseria 🙂