Garrinchakra
giugno 7, 2013 Lascia un commento
di Fabrizio Gabrielli
Da quando è uscito Sforbiciate, e ormai è passato del tempo, mi son scivolati – spesso m’han fatto scivolare – per le mani una serie di scritti calcistici, filocalcistici, pseudocalcistici, metacalcistici, che davvero basta, m’è successo che un po’ mi sia andata a noia, la palla quando rotola per le righe d’un libro. A meno che non sia uno di quei palloni calciati con le ultime tre dita del piede sinistro, a effetto, che producono stupore e meraviglia per come escono dalla visuale e vi rientrano repentini, ça va sans dire.
Non avevo mai letto niente, di Riccarelli; conoscevo al contrario abbastanza bene la biografia di Mané, il passerotto, e buona parte della sterminata bibliografia a lui dedicata, o almeno quel tanto che ti porta a chiederti “Si può parlare di Garrincha encore une fois?”
D’altronde, in buona parte di quei libri calcistici, pseudocalcistici, filocalcistici e metacalcistici passati in rassegna, la figura di Mané tornava e ritornava incessante, come un mantra – o dovrei forse meglio dire un meme –, assurta a feticcio doriforo d’una visione poetica e trasognante del gioco più bello del mondo. Per questo ero un po’ titubante quando mi è capitato tra le mani questo suo libellino agilèrrimo, edito da Giulio Perrone, che s’intitola Garrincha e si compone di tre parti: una conversazione tra l’autore e Michela Monferrini, un racconto intitolato Passerotto (già incluso nella raccolta L’angelo di Coppi edita da Mondadori) e un’azione teatrale di dieci quadri omonima del libro.
Ce lo raccontavamo, tempo fa, con Gianni. C’è da far caso a come Garrincha, in molti dei libri che menzionano Garrincha, sia spesso ritratto da ragazzino – sfrontato, sfortunato, con gli occhi della tigre di chi anela al riscatto, l’allure mitica di chi sa trasformare un minus in una delle più devastanti skills futbólistiche di sempre; oppure già vecchio – caduto in disgrazia, con gli occhi di chi non ha più niente da chiedere alla fama.
Il mio amico Gianni giocava al pallone, da ragazzino, all’ala, come Garrincha (ma non ha avuto il suo successo, né fatto – ancora – e m’auguro non la faccia mai – la sua fine). E non ti sto uccellando, ci teneva a precisare, quando me lo raccontava. Non riuscivo a immaginarlo come un passerotto, l’amico Gianni: più come un fenicottero, di quelli casteddani, anche se i fenicotteri barba ne hanno mica.
Una sera color dell’antracite, a Parigi, chez Mané – avremmo dovuto intuirlo, nulla succede per caso –, ce ne stavamo coi gomiti appoggiati a un bancone sudicio incarognito in un pertugio che affaccia su un impasse di Faubourg Saint Martin. Con Gianni si parlava di premesse e promesse, e a me era scappato di ricordare un tredici giugno di tredici anni fa, quando lei – che ovviamente oggi non m’aspetta più – rimase tre ore in piedi davanti al motorino ad attendermi, a guardare le ombre cinesi dietro le finestre, il mio profilo alla scrivania come bassorilievo nel buio, a pensarmi con commiserazione e odio a un tempo. E ci dicevamo che la letteratura è sempre gioco d’ombre cinesi, di bassorilievo, e ad aver senso – spesso – non è il fatto in sé, ma i prodromi e le sue dirette conseguenze. Non servirebbe a niente raccontare d’una ragazzetta che il tredici giugno del duemila se n’è stata ad aspettare qualcuno per tre ore, se non ci fosse un perché e un poi.
Se al personaggio di Garrincha (che io, per dire, in Sforbiciate faccio chiamare Garìnca da Er Melanzana) nella narrazione calcistica può essere riconosciuta una consolidata portata mitopoietica, credo dipenda dall’universalità della sua presenza, elusiva come lo sfrullo d’uccello che sfrasca della sua finta, una presenza eterea e archetipica che proffonde il classico miasma sprigionato dalla mescidanza tra l’idillio e l’autodistruzione sregolata.
Il mito di Garrincha, però, esplode davvero solo quando l’autore riesce a portarne alla luce il chakra lavorando per sottrazione: scarnificando l’ovvio, il visibile, il già visto. Giocando con le ombre cinesi.
Nel suo essere epitome dell’alto che s’incrocia col basso, della poesia che nasce dal ventre nero della favela, della polvere di fango che si confonde con quella di stella, Garrincha si fa metafora e calco di ogni vicenda umana in cui s’incastrino disattesa dei sogni, sconfitta annunciata, spreco di potenziale, riscatto. La storpiatura fisica di Mané, la sua perfetta imperfezione, si presta al gioco delle lettere diventando meraviglioso grimaldello per scardinare la scontatezza e intessere un linguaggio nuovo, fatto di rimandi, dialoghi muti, visioni. In cui anche una bocca serrata riesce a raccontare una storia. Pur rimanendo di spalle, tutt’il tempo, dietro al sipario calato.
In Garrincha, l’azione teatrale di Riccarelli in dieci quadri, si narra la storia di due fratelli – lei badante che sogna una vita da telenovela, lui alla ricerca d’un benessere rapido, poco importa quanto fatuo. Nell’alternarsi dei loro stringati dialoghi si esalta la tristezza d’una povertà alla quale il destino non pone mai fine, ma al contrario intima di perdurare; una povertà sporcata dal crimine e affrontata a muso duro ogni giorno, alla ricerca d’una rivincita che non s’appaleserà mai completamente, e anzi sfocerà nell’inevitabile sconfitta (non è forse il ripetersi della parabola dell’alegria do povo?).
Insomma, le gambe di Manoel Francisco dos Santos, una corta l’altra lunga, sono la più cristallina delle rappresentazioni iconografiche di quel gioco d’ombre cinesi che a Gianni e me sembra essere la letteratura: ogni passo una carezza di bassorilievo sull’ebano, un’ombra che si staglia sul passato e sul futuro: e noi lì che lo guardiamo con odio e commiserazione a un tempo. Un po’ come la ragazza sotto la finestra, un po’ come i calciofili con Mané.
L’incedere traballante di Garrincha, il suo comparire come fantasma sulla fascia, sullo sfondo d’altre vicende, in un letto d’ospedale subito dopo aver esalato l’ultimo respiro e scalfito inesorabile la memoria, somiglia all’alternarsi di diesis e bemolle, di toni maggiori e minori, che Gilberto Gil intesse in Aquarela do Brasil.
Che a cantarsela in testa, poi, Aquarela do Brasil, sembra sia una semplice musica tutta frifrifri da carnevale; ma se ti metti ad ascoltarla meglio,invece, lo scopri da te che è de na tristezza assoluta.
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