La grande stanchezza

-di Marco Montanaro

[Questo post continua evidentemente da QUI e da QUI, ma può essere letto in totale autonomia rispetto ai pezzi indicati.]

Un vecchio maestro mi ha detto che nell’Ottocento, coi romanzi, era la stessa cosa. La gente ci finiva dentro, ci restava attaccata, assumeva pose e si rappresentava come nel libro che stava leggendo. I libri erano in grado di permeare le nostre vite fino al midollo. Erano pervasivi.

Adesso tutto si misura sulla pervasività della rete. Il modo in cui ci rappresentiamo, in cui diamo indicazioni di noi stessi (la musica che ascoltiamo, le foto in cui siamo felici o solo ridicoli, i posti in cui andiamo, ecc.). La narrazione delle merci, su cui hanno costruito la loro fortuna molti scrittori americani e anche qualcuno nostrano (mi viene in mente Aldo Nove, ma potrei sbagliarmi), ha fatto il suo tempo. Bisognerebbe raccontare di come le merci siano divenute un corollario, di come le vere merci siano le sensazioni, i sentimenti, le esperienze, tutto ciò che costruisce una persona. Tutto questo accade mentre là fuori c’è una spaventosa crisi economica mondiale. Da queste parti la sensazione è sempre quella del Titanic, dell’affondare cantando.

Registro in questi giorni che alcune cose funzionano con dinamiche molto simili: si sta progressivamente espungendo il fatto letterario dalla letteratura (sempre più simile alle sceneggiature dei film o alle guide turistiche) e la vita dalla vita. Quest’ultima cosa mi pare molto preoccupante. Si sta eliminando dalla vita l’idea della fatica fisica, della disperazione, della morte reale, fuori da ogni rappresentazione – non certo perché le tre cose non esistano (più), è appunto l’idea che esistano che viene fatta fuori. Per dire, nessun tossico mostra il cucchiaio e la siringa su un social network, però posta musica da tossico.
Sarebbe sano, e molto più semplice, accettare la fatica, la disperazione, la morte.

Perché leggere? Ammesso che sia vero che la gente non legge, bisognerebbe specificare che non legge libri. I social network rappresentano una forma di autonarrazione implacabile. Perché accontentarsi dell’immedesimazione col personaggio di un libro, quando possiamo costruire noi stessi il personaggio che vorremmo essere? Ed ecco allora il collage di noi stessi, gli indizi che lasciamo in giro per rappresentarci agli altri, per sedurre ed essere sedotti. Ecco la nuova merce con le sue dinamiche di mercato. Chiaramente il collage, per definizione, non reggerà all’impatto con l’incontro, che presuppone una visione intera, d’insieme, complessa. Siamo ben oltre l’interattività di chi si interessa di editoria digitale o di mondi altri come nei videogiochi, che, in quanto tali, pongono la finzione del gioco come premessa.
Stare su un social network, ad oggi, rappresenta la vera possibilità di scrivere un romanzo di se stessi e interpretarlo. Dentro puoi metterci di tutto: ambizione, felicità, sesso, amore, amicizia, bugie, tradimenti, marchette.
Non puoi farci figli, ma questo potrebbe essere un bene per la nostra specie.
Mi viene in mente Jorge Luis Borges, che diceva che ogni strumento che moltiplica gli umani, che sia uno specchio o una cinepresa, è diabolico.
O anche Kurt Vonnegut, che spiegava che bisogna stare molto attenti a quel che si finge di essere, perché è a quel che fingiamo di essere che la gente è disposta a credere.

Allora cos’è che conta, per chi scrive? Forse la verità anche attraverso la rappresentazione.
Mi chiamo Marco Montanaro, ho 31 anni, e questo post è il primo che scrivo sulla scrivania della mia nuova casa, in cui abito da solo, e che per la prima volta sono in grado di pagare coi miei soldi. Ho scelto di lavorare per avere una casa tutta mia e di non darmi completamente in pasto alla scrittura perché pensavo che non era più il caso di scrivere dal chiuso della stanza dei miei genitori, o in giro per l’Italia coi soldi dei miei genitori. Ho pensato che la mia scrittura avrebbe preso forza non più dalla rappresentazione del me stesso autore di tre libri, ma dalla vita che avrei saputo costruire, coi miei strumenti, con tutto quello che avrebbe comportato. Sono ovviamente andato incontro a molti fallimenti come uomo e come scrittore, ammesso che le due cose siano scindibili, e credo che siano sotto gli occhi di tutti quelli che mi conoscono oltre le righe che scrivo qui o nei libri.

A oggi soffro molto il caldo perché qualcosa mi ha fatto dimagrire in maniera orribile, e questo è un paradosso perché tutto desidero, adesso, fuorché la scomparsa del mio corpo; e penso che ci sia una correlazione orribile tra i corpi magri e quello che ho scritto sopra, ovvero l’espulsione del fatto letterario dai libri e della vita dalla vita. Oltre al caldo, soffro gli aerei, che non ho mai preso, e che devo assolutamente prendere perché voglio vedere il Portogallo, la Grecia e New York.

Se per chi scrive conta la verità, allora per chi vive conta la bellezza, che qualcuno chiama poesia, qualcun altro senso del sacro, e qualcun altro ancora grazia. E conta soprattutto esser capaci di farne scorta per l’inverno, trattenerne abbastanza negli occhi per sopravvivere quando non c’è ombra di bellezza intorno, perché anche questo accade ed è un fatto normale, che sarebbe sano accettare.

Saper fare come gli orsi in letargo, essere orsi di bellezza, dopo esser sopravvissuti alla notte infame.

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4 Responses to La grande stanchezza

  1. Silvia says:

    C’è della bellezza, sai Marco, anche nell’inverno. Soprattutto in una casa nuova, tua. 🙂

  2. Nella pervasività dei social network io vedo soprattutto una inspiegabile preferenza a fare la cronaca della propria vita piuttosto che viverla.
    Chissà?, forse perché si fa prima. Perché anche se non sembra vivere è ben più complesso che raccontare la propria vita.

    Preziosa quella tua citazione da Borges.
    Anche qui, ci vorrebbe un po’ di sana ecologia: l’eccesso (di umani) è spreco (di umanità).

  3. Canallegri says:

    Bellissimo pezzo

  4. carmela barbato says:

    ammirata

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