Piovono patate
agosto 2, 2013 3 commenti
Magrolino, alto poco, con un periodo piuttosto lungo di tisi alle spalle, ben dipinta in volto, Ismail viaggia in bicicletta verso la sua dimora. Sono due stanze in un’abitazione che ormai non c’è più, in una città che c’è ancora ma che, se vedesse ora, non riconoscerebbe. Dentro ci sono già una donna e tre bambini, due maschi e una femmina e poi Abdul, anche lui un bambino, nonostante il nome da trentenne spacciatore. Sono sua moglie e quattro dei suoi figli. Diventeranno sei, con il tempo.
Siamo in un posto remoto, di quelli che pochi conoscono, in una città dove sono stata più volte e che so essere piena di colori.
Ismail, col suo naso aquilino e molto pronunciato dentro il volto così scarno, con i suoi occhi blu come il mare e il cielo, tanto da fare paura, sta tornando a casa dal lavoro. C’è già un’enorme strada, quella principale, quella che c’è ancora, ma non ci sono macchine, se non quelle dell’esercito o della polizia e qualche camion che trasporta chissà cosa. Le macchine sono così rumorose e la città così silenziosa che del loro arrivo ci si accorge almeno un chilometro prima. Non c’è traffico, dunque, se non di bambini che giocano per strada. Si respira bene. Per un tisico non è facile respirare, e non si dimentica mai quella sensazione che Ismail proverà di nuovo da lì a qualche anno, quando la città si riempirà di macchine e lui sarà chiuso dentro la sua stanza, legato a un letto dalla maschera per l’ossigeno e metà corpo paralizzato. E vedrà solo quello che si vede da una finestra.
Fa il panettiere, lavora nel forno più grande della città. Come dirà il giorno del funerale il commosso Abdul – che ha già più di 50 anni e non è mai stato uno spacciatore trentenne, ma un meccanico trentenne questo sì – “ha dato da mangiare a tutta la città”; non è così, ma è una cosa carina da dire al funerale del proprio padre.
Non essendoci macchine, Ismail viaggia nel mezzo della strada e lo immagino un filino contento, perché ha finito il turno; anche se, da come lo ricordo, non ho visto che tristezza annoiata nei suoi occhi, ma c’era già una maschera di ossigeno a fare da filtro alla nostra conoscenza.
Siamo ad aprile, e come quasi tutti quelli del posto non ha un giubbotto leggero: ha solo un cappotto e fa troppo freddo per uscire con una maglia e troppo caldo per portare il cappotto invernale, ma lui sopporta. Dentro le tasche ha nascosto dei pezzi di pane che è riuscito a rubare a lavoro. È una cosa che fa spesso e questo lo porta ad avere una forma del busto un po’ strana, fino a Maggio almeno.
Molti ancora si interrogano su quale sia stata la vera forma del suo corpo. La leggenda vuole addirittura che in un periodo di magra, ma veramente magra, nonostante il caldo e si fosse a metà luglio, si recasse a lavoro con il suo cappotto.
“Stai bene, Ismail?”
“Sai è per quella storia della tisi, mi devo coprire.”
In bici c’è anche Abdul, fierissimo del mezzo paterno. È stato al forno anche lui. Ismail ha paura che prenda una brutta strada e l’ha preso a lavorare con sé perché non è andato a scuola quel giorno. Voleva insegnargli che il lavoro è fatica e che non cascano patate dal cielo. Proprio così gli ha detto, perché ad Abdul piacevano le patate fritte e i bambini bisogna saperli prendere.
Non so se è stato il fatto di chiamarsi Ismail, che richiama tempismi e interventi di entità molto alte e con uno spiccato senso dell’ironia, ma proprio quel giorno, dalla casa più bella della via dove abitano i pochi ricchi di questo posto remoto di quest’epoca remota piena di poveri, due bambini, un maschio e una femmina, chiusi in casa perché non possono giocare con gli altri per strada, decidono di inventarsi un nuovo gioco: colpire i ciclisti con le patate per farli cadere e poi riderne. Ismail non se lo aspetta e cade, e con lui anche Abdul e il pane. Che vergogna. Da lassù ridono.
Raccolgono il pane velocemente cercando di non farsi vedere, mentre continuano a piovere patate dal cielo. Ismail è arrabbiatissimo. Potevano lanciargli limoni, mele, arance. Perché proprio le patate? Ma è sempre stato uno dal senso pratico piuttosto sviluppato, non si perde e ordina ad Abdul di raccogliere le patate, intanto che inveisce contro i lanciatori, così da farli continuare fino a finire l’intero sacco. E loro continuano e ad Abdul non basta il suo cappotto per metterci dentro tutto.
Ben oltre la soglia dell’assurdo, quindi mi piace. 😀
Non c’è che dire: assurdo è assurdo! Ma proprio per questo perché non posso pensare che sia successo davvero?
Anche perchè nelle nostre strade ormai il massimo che può accadere è che stressati impiegati ti lancino iphone e ipad (i più esagitati banane, ma solo se sei abbronzato, come si suol dire, ma questa è un’ altra triste storia!).
Volevo firmare il mio commento con un sorriso e un ringraziamento, ma wp ha fatto tutto da sé, quindi rimedio così:
“:-) Grazie delle parole, Fatj! Un bacio, OQ”