Atomic Kiss 2/3

Qui di seguito la seconda parte del prologo di Atomic Kiss, del giovane Iacopo Barison.
Qui trovate, accompagnata da due righe introduttive, la prima parte. La terza e ultima parte venerdì 18 ottobre.
Buona lettura.

Finita la cena, mi alzo e vado a pagare il conto. Prendendo la carta di credito, realizzo di non aver mai accennato al problema. Usciamo dal ristorante e lei si ferma sul marciapiede antistante. La guardo fumare mentre lei guarda il cielo e la pioggia si accumula in fiumi e laghi in miniatura e un cartellone pubblicitario immola una coppia giovane in cerca di emozioni stabili – sono sdraiati in spiaggia e indicano la luna piena e una scritta dice VACANZE DA SOGNO A PREZZI IMBATTIBILI. La guardo avvolgersi nel cappotto e sparire fra cuciture e lana pregiata. La sigaretta si accorcia e finisce in un rigagnolo d’acqua. Lei soppesa il mio stato d’animo con la solita espressione turbata, rimandante a problemi più grandi e astratti, fuori portata perfino per noi.
“Vuoi prenderti una pausa?”, mi chiede.
Sussulto e per un attimo immagino che stia parlando di me e di lei, della nostra relazione.
“Be’”.
“Sei stanco? Vuoi smettere di lavorare?”
“No, non ho detto questo”.
“Nessuno smette di lavorare a trentadue anni. Hai troppo talento per…”
Lei cerca con gli occhi la mia automobile ed esprime in silenzio il desiderio di andarsene. Prendo le chiavi e faccio scattare l’apertura a distanza e un suono breve e impersonale si propaga nel parcheggio all’aperto.
“Sei venuta in autobus?”
“Mi hanno dato un passaggio”.
“Ok. Dove vuoi…”
“Andiamo da te. Voglio riposarmi un po’”.
Mi sfugge un pensiero ad alta voce. “Riposarti da cosa? Oh, scusa, non volevo…”
Finge di arrabbiarsi. Enuclea la sua giornata arricchendola di dettagli sfiancanti. Al culmine di una digressione su una nuova lavanderia a gettoni, prendo coraggio e la interrompo di netto, con l’intenzione di esporre il problema.
“Una nuova lavanderia a gettoni…”
“Già”.
“Dove hai detto che l’hanno aperta?”
“Non l’ho detto. Comunque è vicino a casa tua. Esattamente tra…”
Vorrei dirle che la cosa va avanti da troppo tempo. Sta diventando un rapporto ingestibile, squilibrato, tuttavia seguo la strada illuminata da file di lampioni e dai pochi negozi rimasti aperti (supermercati minuscoli gestiti da pakistani, perlopiù) e lei accavalla le gambe ed è giovane e mozzafiato e io vorrei stringerla in un tempo alieno, al di fuori dei minuti e delle ore e dei giorni, e poi chissà.
“Sei strano”, mi dice. “Non parli, guardi la strada”.
“Sto guidando. È normale che guardi la strada”.
“Stai pensando a qualcosa”. Accende un’altra sigaretta e abbassa il finestrino.
“Pensavo ai supermercati dei pakistani. La frutta e la verdura che espongono, accatastata sul marciapiede e alla portata di tutti – dello smog, dei senzatetto ubriachi – non so, però non è igienico. Tu la compreresti mai?”
“Nessuno la compra. Dio, perché non riusciamo a parlare? Dobbiamo per forza…”
“Hai ragione”.
“…”
“Sei arrabbiata?”
“No, non ancora”.
Entriamo in casa e ci baciamo nell’open space semibuio, illuminato soltanto dai led degli elettrodomestici e dalle luci riflesse dell’hotel di fronte. Baciandola, penso all’acqua norvegese e al plenilunio del cartellone pubblicitario. Seduti sul divano, ascoltiamo musica e chiacchieriamo di un libro che fingo di avere letto, anche se non l’ho mai sentito e dubito del suo valore. Lei si alza e curiosa in giro, si avvicina alla scrivania caotica e cerca il suo manoscritto.
“Dove l’hai messo?”
“Controlla bene. Non l’ho spostato”.
Impila buste e soggetti inviati dal mio agente e sbuffa nell’aria deumidificata, quindi guarda il portatile e poi il mouse e infine trova il suo manoscritto. Lo prende in mano, lo lancia contro di me. Appare divertita e irritata al contempo.
“Non l’hai nemmeno iniziato a leggere. Lo usavi come appoggio, come base per far scorrere il mouse”.
“Sarà la donna delle pulizie. Sposta sempre tutto”.
“Da quando hai una donna delle pulizie?”
Si ferma a metà strada fra il divano e la scrivania. Accende l’ennesima sigaretta. Sfila i jeans a vita alta e resta solo con gli slip e un maglioncino unicolor. Sento un principio di confusione crescere nello stomaco. Controllo che le tende siano chiuse, perché i clienti dell’hotel potrebbero vederci.
“Senti, penso che dovremmo…”
“Aspetta”, mi dice. “Aspetta un attimo”.
Getta il maglioncino per terra, poi si volta e controlla anche lei le tende. È abituata.
“Sono stufa di lui. Passa tutto il suo tempo in giro. Non c’è mai, lavora sempre. Adesso andrà a Tokyo a fotografare una pizza”.
“La pizza più chic della storia dell’uomo. Me l’hai detto”.
“Sono stufa. Voglio lasciarlo, venire a vivere qua”.
“Quella pizza costa un sacco di soldi”.
Mi bacia sul collo, mi dà un morso leggero e sorride.
“Il corso finisce domani. Non dovremo più fingere. Potremo…”
“…”
Spegne la sigaretta, mi bacia vicino al labbro inferiore. “C’è qualche problema?”

[continua]

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