La sopravvivenza delle immagini nel cinema

La_sopravvivenza_51adc55ef290c_220x335Francesco Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità (Mimesis, 2013)

«Dai meandri di un archivio,
gli spettri di un passato ridotto a frammenti
guardano il presente, lo interpellano,
sembrano dargli del tu.»
(p. 86)

Caro Zucconi,

le nostre strade si sono divise che ancora dovevi laurearti, e ti ritrovo improvvisamente così, con uno sguardo che accoglie un’eredità pesante, che a Siena è stata purtroppo dolorosa, e non soltanto una volta. Non può infatti sfuggire la passione che anima questo tuo libro, dove la cura e l’attenzione, lo scrupolo dello studioso, si vedono in ogni dettaglio.
A volte la vita ci porta in direzioni diverse, ma per fortuna possiamo poi ritrovarci nei libri che scriviamo, nelle storie che raccontiamo, nella testimonianza che è il nostro lavoro.
E così, a leggere questo tuo libro, un po’ mi sono inorgoglito anch’io: perché c’ho sentito dentro anche un po’ della mia passione, delle ore passate sui libri, sui film, delle infinite discussioni dopo il cinema in facoltà. Un orgoglio che è anche rivincita, e riappacificazione: verso un destino che è andato diversamente, un traguardo non raggiunto, che adesso auspico per te.
A leggere questo tuo libro, caro Zucconi, m’è persino tornata la voglia di studiare, di riprendere in mano quel progetto di un romanzo sul cinema. È come se tu avessi fatto la teoria di ciò che sto trovando con la scrittura, pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno; di ciò che affiora in superficie mentre porto avanti la mia opera, e che m’interroga su ciò che sto facendo. Tu lo scrivi chiaramente, a pagina 90 del tuo saggio:

La domanda non è più a che cosa rimandano queste immagini e questi suoni del passato, ma quale orizzonte di senso e quali forme di vita hanno contribuito, in modi e in ambiti diversi, a creare?

Tu questa interrogazione la proietti sul presente, indicandoci le tracce di un lavoro portato avanti, in vario modo, da diversi autori: Sokurov, Godard, Van Sant, Haneke, Herzog, Nanni Moretti e via dicendo. La tua è una scelta chiara, che continua nella scia di una tradizione che affonda le proprie radici nella cattedra di cinema dell’Università di Siena, dove, da Maurizio Grande in poi, non si è mai smesso di guardare al cinema come «luogo di produzione, condivisione ed elaborazione critica dei discorsi sociali» (p. 11).
Lontano da ogni teoria apocalittica sulla fine di (del cinema, della letteratura, delle arti), con il tuo libro hai cercato l’inquadratura giusta, proprio come un grande regista, dove il cinema trova ancora una volta il proprio posto, anche in uno scenario in cui i nuovi media ci promettono di poter disporre facilmente di qualsiasi immagine.

Il fatto è che le immagini si riproducono, al di là di parentele di genere e stile, molto spesso indipendentemente dalla volontà dei loro autori. Qualcosa passa da un’immagine all’altra, da un’epoca all’altra, da un apparato all’altro, fino a smarginare i cardini della rappresentazione mediatica e condizionare le posture individuali, le pratiche sociali, le forme dello stare al mondo. (…) Dietro l’evento rappresentato occorre analizzare le forme dell’espressione dell’immagine che lo prende in carico e dietro ogni immagine bisogna saper riconoscere una molteplicità di possibili modelli, nonché la ragione, il senso della loro riattivazione.
(p. 21)

In questo libro c’è insomma la nostra storia, la storia di un’epoca senza bussola, in un mare d’immagini. E poi c’è il cinema, che come un faro sta lì a tracciare qualche rotta. Sembra facile, ma tra tutti questi abbagli non si riconosce mica al volo! Ogni tanto ci vogliono dei libri così, anche per chi non vuol fare lo studioso di cinema, perché il tuo è un libro che ci dà delle indicazioni su come stare al mondo.

Ridere oppure infuriarsi per le forme del contenuto dei messaggi diffusi dalle comunicazioni di massa – come talvolta sembra avvenire nei primi casi di montaggio intermediale nel cinema di Moretti – non significa affatto essere in grado di affrancarsi dalla forma dell’espressione corrispondente, quella che lavora tacitamente nella composizione del reale in immagini e che costruisce lo spettatore, contribuisce a riconfigurare l’ordine del discorso nel quale si inquadra la sua presa di parola, presa di consapevolezza nella società. Al personaggio-regista, al regista in quanto figura di cornice, spetta piuttosto il compito di demistificare le strategie retoriche e l’organizzazione discorsiva stessa delle citazioni che incorpora, proporre allo spettatore un metodo critico, un’alfabetizzazione audiovisiva e un diverso trattamento, una diversa cura della rappresentazione come risposta alla pervasività e all’indifferenza mediatica.
(p. 161)

Il che, se non capisco male, significa letteralmente sporcarsi le mani, stare sul campo, nell’inquadratura, come fa ad esempio Werner Herzog, che chiama in causa lo spettatore per istruire quella che tu definisci un’ecologia dello sguardo. Mi vengono qua in mente certe sfuriate, certe crociate portate avanti per anni da alcuni critici e studiosi nostrani contro il web, colpevole di confondere tutto, di assemblare materiali senza criterio. Anziché spendersi in questo lavoro di alfabetizzazione, entrando nell’ordine del discorso, essi hanno preferito tenersene fuori, salvo poi gridare, a un certo punto, che era già troppo tardi per fare qualcosa (ecco cosa intendo per essere apocalittici).
Anziché ascoltare questo loro grido, quest’urlo di chi si scandalizza per la perdita di una postura (poiché anche la posizione migliore diventa tale quando non si riconoscono i cambiamenti morfologici del terreno su cui ci muoviamo), io consiglio di leggere in silenzio questo tuo libro, caro Zucconi, dentro e fuori delle università. E spero che ci sia un posto per te, da qualche parte, tra quelle aule che hanno tanto bisogno di studenti curiosi, pronti ad ascoltare, dove tu possa continuare a scrivere e lavorare, a dialogare con questo cinema che ci riguarda e che fortunatamente non smetterà di produrre opere (qualsiasi sia la loro forma) in grado di mostrarci il nostro essere al mondo.

 Simone Ghelli

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