Carthago delenda est

381367_2648964632597_1414468446_ndi Domenico Caringella

Ceterum censeo Carthaginem esse delendam
(Marco Porcio Catone)

Nello stesso istante in cui la “Zama” ha sciolto gli ormeggi – il profilo di Tunisi che dietro di noi iniziava progressivamente a rimpicciolirsi – ho sentito, tutta insieme e per la prima volta, la parte cartaginese del mio sangue fluirmi sino alla testa e armare il mio braccio. È stato un esordio, perché l’antica nemica di Roma era solo un ricordo sbiadito della mia infanzia, un inverno tiepido in cui mio padre mi aveva accompagnato a vedere e vivere le rovine della città morta, fuori dalla capitale. Quanto parlava mio padre. Ora non parla più, o forse è solo lontano; o sono io che non lo sento. La strada del paradosso, un percorso all’incontrario, ha portato lui che l’archeologia nella sua terra la insegnava, a vendere cianfrusaglie proprio nella zona antistante il Museo di Via Pallavicini a Genova per vivere. È là, a Genova, che sono diretto. Ed è questa porzione di azzurro, che in un tempo scorre sotto di me e mi precede, che mi separa da lui. Procurarsi dei documenti falsi per il viaggio si era rivelato impossibile. Sarebbero costati un anno e mezzo di stipendio. Non il mio peraltro; non ne ho mai avuto uno. E quindi si sarebbe trattato di quello di mio fratello, che ha preferito rischiare altro e mi ha dato il suo passaporto. Soulemain è più vecchio di me, ma se mi facessi crescere la barba saremmo capaci di imbrogliare uno specchio. È quello che ho fatto e così mi sono trasformato in quell’uomo più grande e più saggio di me, e dalla faccia seria che osserva dal quadratino di celluloide sul documento che mi ha permesso di prendere il mare. La droga, l’arresto, l’espulsione, infatti, hanno bruciato me e il mio nome. E mio padre non ha più motivi né soldi per tornare. Questo viaggio è la mia personale guerra punica e la vittoria sarà sbarcare, rivederlo; e sopra ogni cosa piazzare il piccolo fagotto che mi preme sulla schiena, coperto dallo zaino, sotto la casacca, all’altezza del cuore. È diventato quello il mio pensiero fisso, il sacchetto di polvere chiara che mi aderisce alla pelle e che devo, e voglio, portare a tutti i costi dall’altra parte del mare. Nessuno deve trovarlo. Nessuno deve trovarmi. Già un’altra volta è stata polvere bianca a tradirmi, a tagliare i ponti con quello che ormai resta delle mie radici. Per tutto il viaggio l’azzurro e l’astuccio con la preziosa polvere sono state le uniche cose che hanno colonizzato cuore e mente. Una sera il porto, Genova finalmente. Prima si scendere la foto sul passaporto comincia a non sembrarmi più così tanto somigliante. Arrivo a pensare che saranno il carattere, l’indole di chi porta quel documento e lo consegna, a tradirlo. Ma passo oltre. Mi immergo nei carruggi, incontro gli sguardi amici e nemici di gente della mia terra. Sono sicuro che loro sanno con chi hanno a che fare, chi hanno davanti. E sanno che trasporto e nascondo qualcosa. Sanno della polvere, ne sentono l’odore, come cani da caccia. La verità me la leggono negli occhi, che stranamente tengo bassi, incapaci di sostenere lo sguardo altrui. In una tasca della giubba sdrucita ho una mappa della città. Mi servo di quella per cercare Via Balbi. Non voglio chiedere indicazioni a nessuno. Il numero è questo. C’è il citofono. Non lo uso, per una strana forma di pudore; non sento la voce di mio padre da anni, e il filtro del microfono me la getterebbe addosso diversa da quella che mi ricordo, e lontana. Così aspetto che qualcuno della palazzina esca per entrare nel portone, la testa china; e il fagotto, il mio riscatto, incerottato sulla pelle. Busso un delicato cazzotto sul legno scrostato della porta. Papà apre senza chiedere chi è. Gli sono sempre piaciute le sorprese, e anche in questo caso mostra il solito spirito archeologico per le scoperte. È un vecchio adesso. Sono un vecchio anche io, in un certo senso. Pronuncia il mio nome, una volta e senza stupore. Per me è un sollievo; per un attimo avevo pensato che anche lui mi avrebbe preso per Souleiman. Ma è mio padre, non un doganiere qualsiasi. La casa è piccola, stantia, come lui, come il suo passo che mi precede verso la cucina. Ci sediamo. Uno di fronte all’altro. Passo una mano dietro la schiena, entro nella camicia dal colletto allargato e la tiro fuori che stringe il panetto. Mi allungo verso di lui, glielo porgo, e con un lungo sussurro gli dico tutto quel poco che c’è da dire. Soppesa tra le mani e con le pupille il pacchetto, che è avvolto in un panno stinto che una volta doveva aver fiammeggiato di rosso. Svolge la stoffa; tira fuori il coltello dalla pagnotta che si trova sulla tavola accanto a lui e con quello produce un piccolo taglio longitudinale sulla busta di cellophane, quanto basta per avvicinarla al viso e annusare la polvere che contiene. Inala, chiude gli occhi, caccia un lungo sospiro e posa accuratamente la busta. Si alza, esce dalla cucina. Neanche un minuto e torna indietro; in mano ha un vecchio vaso di terracotta; allarga il taglio sulla busta e ci versa la polvere, fino all’ultimo granello. Quella sera, quella in cui mia madre è tornata da suo marito, in una terra lontana ma comunque a casa, è stata l’ultima in cui ho visto mio padre. Ho dormito sul divano e la mattina, presto, ci siamo salutati, due sconfitti in ritirata. Poi ho dato uno sguardo a mia madre, che dormiva ancora, dentro il vaso di terracotta e sono andato via. Chi si fingeva Souleiman ha ripreso il mare, più leggero, qualche ora dopo. . .

(racconto pubblicato sul numero 52 della rivista Prospektiva)

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