Sentieri di notte – #TUS3

-Per i testi del reading Torino Una Sega 3 spazio a Giovanni Agnoloni, che al Caffè Notte ha letto un brano da Non lasciar mai che ti vedano piangere, di Amir Valle (Edizioni Anordest) e un estratto dal suo romanzo Sentieri di notte.

Il magazzino era vuoto. Le pareti, che una volta dovevano essere state bianche, erano coperte da una patina grigiastra; il pavimento invece era di colore scuro, quasi nero. Il soffitto bucherellato lasciava indovinare ampi spazi, velati di ragnatele vecchie decenni. Se avessi avuto una chiara idea della parte della città in cui mi trovavo, forse avrei capito di quale edificio si trattava. Ma ero quasi certo di non avere mai visto niente del genere.
Mi accorsi che non si udivano suoni né rumori. Tutto era avvolto in un silenzio pneumatico. Non mi sentivo agitato, ma esposto. La mia pelle era come volata via, i miei nervi erano scoperti, le memorie del mio terzo occhio focalizzate su qualcosa che non riuscivo a identificare.
Improvvisamente mi resi conto che la mia luce-guida non pulsava più. Era scomparsa, dissolta nel silenzio, forse perché me ne accorgessi quando ormai era troppo tardi. Quando dovevo per forza procedere, e c’era un’unica direzione possibile.
Una porta, in fondo. Metallica, grigio-chiara.
Un ascensore.
Non appena lo visualizzai, iniziai a percepire un cicalìo lontano, simile al suono di migliaia di insetti. Erano diecimila aghi che pungevano ripetutamente la mia sfera percettiva con messaggi incomprensibili. Sotto, premeva ritmicamente un palpito grave, con l’insistenza di bassi da discoteca. La vibrazione di base mi risucchiava verso la porta, costringendomi a muovermi in quella direzione.
Giunto davanti all’ascensore, con la punta delle dita sfiorai le porte metalliche, che si aprirono immediatamente. Esitai, trattenendo il fiato, accompagnato solo dalla luce balbettante del neon sul soffitto. Avevo il cuore in pezzi, come già era accaduto in un altro momento della mia vita, benché non riuscissi più a focalizzarlo.
Quando iniziai a scendere, seppi in modo inequivocabile che stavo andando lì.
Provai terrore puro.
Un bruciore vivo ardeva all’altezza del mio sterno, fino alla bocca dello stomaco, mentre l’ascensore continuava a scendere con lievi sussulti. Anche la vista si stava annebbiando, come se fossi a un’enorme profondità sotto il mare, soggetto a una pressione insostenibile.
Gli aghi si erano indeboliti e i bassi erano cresciuti di frequenza, fino a diventare un rombo uniforme. Il panico restò un attimo sospeso, e mi si aprì una breccia di speranza, inspiegabile ma reale.
Il neon si ristabilizzò e la porta si aprì. Mi trovai davanti a un’aula antica e tetra, piena di giovani in abito da sacerdote che ascoltavano un alto prelato con l’aria da docente. Non ne ero sicuro, ma qualcosa nella mente e nel cuore mi diceva che avevo già avuto a che fare con quell’uomo. Sì, ci eravamo già incontrati, in passato, e più guardavo il suo volto, più quel pensiero si faceva certezza. I suoi lineamenti mi erano familiari, ma al tempo stesso era come se avessi cercato con tutto me stesso di dimenticarli. Non era una sensazione piacevole. Era un incubo che diventava reale.
Fu solo a quel punto che l’infravisore si riaccese.
La luce pulsò forte a destra, verso un’altra sala, piena di gente che ballava. Era una discoteca, o un locale universitario dove era in corso una festa. La musica che faceva muovere tutti quei corpi non era udibile. I bassi, prima così vivi, si erano dissolti nelle parole incomprensibili del sacerdote, per poi trasformarsi nel moto ondoso di un’intera massa umana.
Tutto era nero e denso, al di là di un vetro che mi separava da quello scenario.
Poi la luce si spostò in un altro punto, illuminando un volto che avevo dimenticato, tanto il dolore e il tempo l’avevano cambiato.
Così bello e radioso da sconvolgermi la vita.
Leyla mi sorrise come nel giorno in cui l’avevo conosciuta.
Allora ricordai.

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