Pentalogo estemporaneo sulla morte – #TUS3
novembre 26, 2013 1 commento
In attesa del numero di Riot Van dedicato alle Letture terminali del reading Torino Una Sega 3, vi proponiamo il testo di Daniele Pasquini, che ha letto anche da Il giorno che diventammo umani di Paolo Zardi. Torino Una Sega 3: quel reading là che si è tenuto al Caffè Notte una sera di Ottobre, dove si leggeva dieci minuti a testa e ci stava un sacco di gente. E ora, buona lettura con “Pentalogo estemporaneo sulla morte – Ovvero come tentare di orientarsi nella vita riflettendo su storie (ed ipotesi) di decesso”.
Uno
Vi sono molti scrittori viventi, molti scrittori morti, molti scrittori morti suicidi, molti scrittori mezzo e mezzo, molti scrittori che sono vivi ma che non si vedono mai, neppure in occasioni come Torino Una Sega. Io vado spesso in fissa con gli americani, e mi interrogo più spesso di quanto sia decente fare su chi di loro sarebbe venuto qua, se solo ne avesse avuto l’opportunità. Mi convinco che uno come J. D. Salinger sarebbe venuto al Caffè Notte ma senza farsi riconoscere, e pure D. F. Wallace, anche se solo per un po’ e senza intrattenersi in chiacchiere. Bukowksi sarebbe stato troppo concio, mentre Hemingway e Kerouac si sarebbero divertiti come dei pazzi, avrebbero rimorchiato un sacco e poi sarebbero andati a fare casino di fronte a qualche bar. Non sarebbe mai venuto Carver, e neppure Yates. Sono possibilista su Fitzgerald e su Faulkner. Cormac McCarthy avrebbe fatto un trucinio assurdo aprendo il fuoco verso il bancone.
Dico questo perché ho svolto questa importante considerazione con un’amica di nome Giulia, la quale senza apparente logica ha commentato facendo presente che Baricco è il classico tipo che avrebbe sforato i dieci minuti. Non ho obiettato sulla nonamericanità di Baricco, ma le ho fatto solo notare che non sapevo che Baricco fosse morto. E ti sbagli, mi ha detto. Poi ha tirato fuori una copia di Castelli di rabbia e con un ferro da calza ha iniziato a colpirlo e a bucarlo e a ferirlo, colta da un improvviso raptus. Ha infine concluso il proprio rito sospirando, esausta: “l’ho sistemato”.
Due
Stato dell’Ohio, 1871. Un tale, accusato di aver ucciso un uomo in un bar, si era trovato come avvocato difensore un certo Clement Vallandigham, politico democratico e antimilitarista. L’avvocato durante il processo cercò di dimostrare che il defunto si era in realtà maldestramente suicidato, nel tentativo di tirar fuori la pistola di tasca per uccidere il suo assistito. Clement Vallandigham, tentando di ricreare la scena di fronte alla giuria, interpretò talmente bene la propria tesi difensiva che si ammazzò in aula sparandosi in fronte.
Ma questa storia ci potrebbe insegnare oggi talmente tante cose che è inutile stare a elencarle. Vale comunque la pena ricordare che l’imputato fu assolto.
Tre
Vincent Zigas a metà degli anni ’50 si cimentò nell’impresa di studiare il caso di un allarmante incremento di malattie neurologiche che andavano diffondendosi tra certe tribù della Nuova Guinea. Scelse i Fore, un clan della Papuasia. La patologia in questione, detta kuru, consisteva sostanzialmente nella comparsa di brividi e scosse, una progressiva perdita dell’equilibrio e la perdita di controllo dei bulbi oculari che attaccano a roteare in modo innaturale. L’insieme dei sintomi annunciava la morte imminente dell’individuo. Zigas analizzò campioni di sangue e tessuti di alcuni cadaveri provenienti dalla tribù dei Fore ed osservò attentamente i costumi del popolo. Dopo un anno di ricerche scoprì infine che la malattia era portata dall’usanza cannibalistica di mangiare il cervello delle salme durante i riti funebri. Emersa l’origine della patologia, nel ’57, il cannibalismo venne messo al bando.
Ma tu, terrorizzato dalla storia letta per caso su un numero di Focus trovato nella sala d’attesa del dentista, hai comunque assunto la decisione di licenziarti, dopo che il tuo capo, a seguito della scomparsa della madre, ha denunciato il manifestarsi di una strana e rara forma di epilessia.
Quattro
Se la morte di questa esistenza è la fine, ti convinci sempre più che abbracciarla glorificandola non possa che esserne anche il fine. Questa certezza finisce talvolta col diventare un’ossessione, e ti elenchi i mille modi in cui vorresti morire e quelli che ti piacerebbe evitare accuratamente. Immagini incidenti atroci, malattie, te afflitto da kuru, vecchiaia, te che volgi gli occhi al cielo su una qualche catena montuosa scossa da una tempesta di neve, te combusto nel deserto, te collassato di infarto durante l’amplesso, te che muori con la corrente di casa per colpa del phone e del pavimento molle, te che muori assassinato per aver avuto troppo potere o troppi soldi, o tu morto di stenti per averne avuti troppo pochi. Queste ipotesi ti balenano in capo sempre più spesso, tanto che vorresti arrivare al momento pronto e consapevole, sebbene sia chiaro che non ti è dato sapere, sennò, davvero, il giochino sarebbe troppo facile. Ma tu ugualmente smani, ché daresti davvero la vita per sapere della tua morte.
Poi in effetti ti accorgi che ti interessa non solo il come, ma anche e soprattutto il quando. E dai per scontato che quel quando sia molto lontano.
Cinque
Tra le varie congetture comunque non avresti mai considerata veritiera l’ipotesi che vuole protagonista quella svedese di un metro e ottanta tacchi esclusi. Quella che ti saluta nella pioggerella del precario rientro notturno dopo una serata di letture in Santo Spirito, bella perfetta, bella quasi da cliché, bella che dopo il saluto ti invita all’ennesima bevuta, e sbronza ti chiede di accompagnarla a casa, dove una volta denudatasi sulla fredda pietra delle scale del palazzo si stende sconclusionata ed ingenua poggiata agli spigoli. Ti invita a fare altrettanto, e anche tu eccitato rimani nudo, finché lei cavando fuori da una pochette piena di strass un paio di forbici, affronta con inaspettata decisione il tuo basso ventre, ghignando nella sua incomprensibile lingua una formula magica, una maledizione o una preghiera per la compiuta evirazione.
Pezzo sontuoso! Grande Daniele!