L’arte dell’approfondimento tra new wave e calzature boeme

di Gabriele Merlini

1. New wave.
Di Simone Arcagni.
Contributi di Riccardo Bertoncelli e Federico Guglielmi.
Atlanti musicali Giunti 2001.

Echo and the Bunnymen prendono cinque pallini per il loro Crocodiles del millenovecentoottanta. Idem Bauhaus per In that flat field. Gli Wire di Pink flag altrettanti pallini (aboliamo queste stelle irritanti negli standard di giudizio) mentre scivola verso la scomoda definizione di «passo falso» il Prince charming di Adam and the Ants.
Premessa scontata: colui che stia perdendosi in queste poche righe lasci stare la presente recensione e viri su qualche stralcio di esordio narrativo rivoluzionario. Il 2.0 abbonda di tesori e non sarà complicato scovarlo. Poiché l’idea è proseguire il più possibile con un linguaggio criptico di nomi, date e suoni âgée. Senza recinzioni, pietà o scrupoli.
New wave di Giunti – collana Atlanti Musicali. Anno duemilauno – vanta un magnetico Robert Smith in copertina e sarebbe offensivo spalancare le porte alla chiarezza. Agile manualetto sul movimento che non fu «scuola espressiva ben definita» (pagina cinque: l’onda anomala™) ma eterogeneo manipolo di individui i quali, avviata la risacca del punk, scelsero di dedicarsi alle più disparate ricerche sonore ed estetiche (domanda: «come ordinare con la dovuta razionalità una materia così vasta, complessa e policroma»?).
Per dire: cosa hanno da spartire i Devo con gli Einstürzende Neubauten? E i Killing Joke con gli Ultravox? I Tuxedomoon con Cabaret Voltaire? PIL con Cocteau Twins? L’eleganza postbeatlesiana degli XTC di Alan Partridge con i Birthday Party del primo Nick Cave? Gli elegantissimi Japan con i Ludus? Ma anche la New York capitale del neonato art-rock (Television, Blonde, Talking Heads: «ragazzi che spesso vengono dalle scuole d’arte, laddove il punk era stato più un fenomeno di strada») con la cupa operaia Manchester dei Joy Division. Toronto dei Martha and the Muffins con la Düsseldorf dei Deutsch-Amerikanische Freundschaft detti D.A.F. (quelli di Der Mussolini: «…und tanz den Kommunismus. Und jetzt den Mussolini. Und jetz Nach rechts. Und jetz nach links.») Sia davvero la new wave il primo fenomeno postmoderno del rock, come arditamente sostenuto a pagina nove? Boh. Oppure il frutto del fortunato connubio tra istinto creativo di una generazione -sete di conoscenza e rielaborazione del passato- mischiata a disponibilità nel confronto delle nuove tecnologie? Estetismo ricercato (storiche alcune copertine di label tipo 4AD o Factory) e prima spinta della televisione?
Comunque la vogliamo mettere, al netto di paragrafi con titoli ridondanti tipo «per un soddisfacente metodo di trattazione», ci troviamo anni luce dalla ipnotica completezza di Post punk del sommo Reynolds e d’altronde l’oggetto ha diversa natura. Qui infatti si sfoderano centoventisette pagine buone per farsi un’idea tendenzialmente superficiale ma pragmaticamente comoda del panorama e, in tempi di facile fruizione audio, mettersi a scaricare musica interessante la sera. In alternativa, sia mai capitasse alla lettura qualche anima pia con denari da investire, recarsi dentro un negozio di dischi (a scovarlo) e inquietare il neo-venditore di telefonini al banco con richieste preistoriche ma chic come: «avete The Fall? Avete The Monochrome Set? Avete Dark Continent dei Wall of Voodoo? Avete Only Ones degli Only Ones?» Nient’altro. Il puntiglio e la totale copertura dell’argomento alloggiano altrove eppure va benissimo. Gli Scritti Politti (band a pagina novantadue il cui nome è mix tra il Gramsci degli Scritti Politici e l’Elvis di Tutti i frutti) sarebbero lo stesso fieri della spinta naif successiva alla lettura e ciò determina il giudizio finale sul testo che fu: quattro pallini per l’utile servizio concesso sia alla comunità di appassionati (perdersi un titolo è sempre possibile) sia agli smaniosi neofiti. The sky’s gone out, se lo trovate. Non poco.

2. Gottland
Di Mariusz Szczygieł
Pagine 318
Nottetempo 2010

Mariusz Szczygieł non si è concesso una metodologia di approccio innovativa, tuttavia l’operazione brilla anche alla distanza (il libro ha già tre anni: il sottoscritto può dormire lunghissimi periodi.) Ovverosia raccontare la storia di un luogo – che poi diviene storia condivisa da tutti attraverso il dramma principale del novecento – partendo dalle vicende personali di individui ricchi, poveri, decrepiti e giovanissimi. Operai e artisti. Mischiando registri e voci e spunti e finalità. Così la saga degli industriali cecoslovacchi Bata si fa tramite per sviscerare le dinamiche più intime di una terra energica, agile ma umiliata e un popolo al tempo stesso innovatore ma tradizionalista. Comico ma nerissimo. Sbatacchiato eppure stabile. Le intuizioni del figlio di un calzolaio capace di trasformare la piccola ditta familiare nel colosso mondiale del settore, quindi plasmare a propria immagine e tornaconto una cittadina (Zlín, aka Gottwaldov in onore di Klement Gottwald), una nazione poi (potendo) l’intero pianeta. E come un polipo inglobare l’urbanistica costruendosi attorno paesi identici, case e strade identiche. L’arte («ma che sia a sostegno dei lavoratori») e precedere Orwell vivendo nel sogno di esportare il modello produttivo ceco in Sud America: d’altronde a fronte di tanto ingegno perché restare limitati in questo cortile centro-europeo da dieci milioni di anime quando potremo colonizzare l’intera Amazzonia?
Gottland è la storia dei Bata (correttamente Bat’a: il testo lo sottolinea in nota con apprezzabile puntiglio) ma assieme dell’Europa Centrale a cavallo e dopo le guerre nella botola comunista. La storia della Boemia, della Moravia, Slovacchia e Germania interconnesse dall’orrore della conquista, l’ideologia e l’alienazione di decadi trascorse nel pericolo e nel sospetto. La storia di Lìda Baarovà attrice vivacissima sebbene non particolarmente acuta che si trasferisce a Berlino con la strepitosa idea di diventare l’amante di Goebbels, o la nipote di Kafka miscelata alla cantante Marta Kubišová ricattata poiché ebbe a esibirsi durante la Primavera di Praga (onta indelebile secondo i grigi burocrati spediti da Mosca: cantò questo struggente inno) e Jan Procházka grande accusatore dei servizi segreti locali. Ma soprattutto Gottland è una lezione di stile per coloro che intendano partire da argomenti reali, attestati e documentali, costruendo un testo che sia anche e soprattutto fruibile narrativa. Un plot unico e magnetico al netto dei mille tasti sfiorati. Ciò lo dobbiamo alla lingua asciutta, diretta e spietatamente ironica usata da Szczygieł, affascinante esempio di reporter polacco che scrive di Repubblica Ceca sbarcato in Italia grazie a Nottetempo, editrice pure dell’altrettanto meritevole Fatti il tuo paradiso. Szczygieł a manipolare l’umorismo, la profondità e le mille facce della cultura boemo-morava tra soggiorni, lunghi studi e radicata passione. Beato lui. Ci torneremo.

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One Response to L’arte dell’approfondimento tra new wave e calzature boeme

  1. Catoblepa says:

    Dio mio, la critica musicale mi fa venire l’orticaria. Si sono accorti della new wave, e continuano a rifarsi ad essa come unico baluardo o quasi, solo dalla metà degli anni ’90. Si sono accorti del post-rock solo una manciata di anni fa, non più di un lustro.
    Mi chiedo quando si renderanno conto che gli anni 2000 non sono stati solo freak-folk e hipsterismo.

    Al di là di questo, a mio parere è il rock’n’roll in toto ad essere un movimento postmoderno. Anzi, neanche un movimento, ma un elemento fondante della postmodernità. Il rock tutto, già abbondantemente dalla nascita e poi definitivamente dalla metà degli anni ’60 (diciamo in maniera arbitraria ma non del tutto dal ’66) si nutre della postmodernità. Ed è stupefacente come poco al riguardo sia stato detto in ambito critico.
    Mi si perdoni se cito dalla mia tesi di laurea (da cui espungo le note per rendere scorrevole la lettura):
    “Già agli albori del rock’n’roll, nella prima metà degli anni ’50 […], viene sottolineata una forte tendenza verso alcune dinamiche tipicamente postmoderne, dinamiche che diverranno cruciali a partire da quel biennio 1965-66 generalmente considerato come alba della nuova era all’interno della musica rock. Da quel periodo in poi, difatti, sotto la spinta propulsiva delle avanguardie rock, tutta la popular music si è evoluta verso queste dinamiche, che prevedono un fortissimo uso del citazionismo, del metalinguaggio e del pastiche (soprattutto come unione di linguaggi aulici e linguaggi volgari); la presenza fondamentale dei mezzi di comunicazione, che dopotutto non sono semplicemente una delle tematiche (come accade in letteratura) ma tornano anche alla loro origine di mezzo (ovvero, la popular music sarebbe impossibile senza i mass media); l’estrema frammentarietà dell’opera d’arte, che d’altronde è quasi sempre strutturata in brevi canzoni tra loro apparentemente non correlate eppure destinate a formare quel tutt’uno che è l’album; la feroce critica alla società dei consumi; l’isteria, di cui i moti vocali del cantante sono spesso rappresentazione. Mancano solo i tramonti chimici alla DeLillo.
    Se consideriamo il momento storico in cui è nato e si è sviluppato e la sua natura che non può trascendere dagli elementi sopra elencati, si potrebbe anche arrivare a dire che la musica rock è la forma artistica postmoderna per eccellenza, l’unica forma artistica che non può essere pensata al di fuori dalla postmodernità e che forse più l’ha caratterizzata.”

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