Il turbante rosso
gennaio 16, 2014 Lascia un commento
di Ennio Canallegri
L’altra notte ho sognato che io e il mio amico William Kessel Pacinotti ci incontravamo a Kensington Park. Avevamo tutti e due i capelli rossi ma eravamo proprio noi. Ci incrociavamo per puro caso, anche se io subito gli consegnavo una busta sigillata con la ceralacca e il timbro postale del mese prima, con dentro un foglio con in calce la mia firma autenticata da Guido Pancaldi in cui prevedevo con estrema esattezza l’ora e il luogo dell’incontro, gli abiti che avremmo indossato e soprattutto la cosa dei capelli rossi (nda, con questo coup de theatre mi portavo definitivamente a casa il primo premio della gara di telepatia di quell’anno). Will prendeva la cosa con filosofia e precisamente con filosofia razionalista, perché riconosceva finalmente di aver sempre sbagliato l’approccio, che l’empirismo era una boiata e che la conoscenza umana non deriva dall’esperienza.
Guardandoci attorno notavamo che anche il giardino dava da pensare: nel laghetto nuotava un caimano e gruppi di pecari dal collare e di fennec (tra i nostri animali preferiti) scorrazzavano tra le siepi in libertà, ma era Kensington Park, senza dubbio. Comunicavamo attraverso delle lavagnette dove scrivevamo in una lingua se non proprio morta moribonda, dato che c’era un momento in cui appariva Sonny Rollins (nella sua versione del ’57 o del ’58 all’incirca) e con la sua lavagna personale interveniva con frasi salaci ma pertinenti nel dialogo tra me e WKP, usando in maniera grammaticalmente ineccepibile lo stesso idioma. Nei sogni è così, sai tutto, tutto è facile e il tempo è un’opinione; un minuto è un secolo, e un secolo… beh un secolo è uguale, è un secolo.
Ok, andiamo avanti. Dopo aver pianificato a colpi di gessetto un futuro viaggio in Wisconsin, William in uno dei suoi improvvisi e proverbiali cambi di corsia eseguiti senza mettere la freccia (e senza nemmeno segnalare la svolta con il braccino), tirava fuori dal taschino della sua fantasmagorica giacca di tweed verde brughiera una scacchiera componibile di legno di hickory formato 1 metro x 1 metro che tra i pezzi annoverava come pedoni i sette nani più l’ottavo, un nano meccanico affetto da evidente priapismo che canticchiava con accento tedesco Sex dwarf dei Soft Cell. I bianchi toccavano a me, ma per dispetto non mi decidevo ad aprire la partita e fischiettavo un insulso motivetto. William a questo punto mostrava chiari segni di impazienza e rinunciando alla lavagnetta iniziava a dirmi “Move. Move! Mooove!”. Non tollerando la sua voce, che nel sogno era un falsetto vagamente beegeeseggiante, avevo appena posato la mano sul pedone di re (che per un crudele gioco del destino era il nano canterino), e ecco che un tipo che faceva jogging nel parco, con una lunga barba bianca e un turbante rosso si fermava e si metteva a cantare Move Your Hand).
“Cazzo, ho sognato Lonnie Smith” sono state le prime 5 parole che ho pronunziato appena mi sono svegliato.
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