Tre poesie di Bernardo Pacini

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la fortezza

«[…] la forteresse Da Basso ou château Saint-Jean Baptiste.
C’est un pentagone régulier avec des bons fossés et un chemin couvert.
Il faut voir l’arsenal et la fonderie de canons»
(Donatien-Alphonse-François de Sade, Voyage d’Italie)

la fortezza è uno scatolone chiquita

«Le città invisibili di Calvino?
Mai sentito, non è mai stato ristampato…»
– mi risponde, ma pensa a sua madre morta,
l’anima lasciata ad asciugare sul filo
a Napoli –
(E intanto la Fortezza è uno scatolone chiquita:
un ossuto titillare di polpastrelli
su una balena di ceramica
o su una maschera Bwa
intarsiata da Olaitan o da suo nonno Sou
ma destinata all’avv. dott. Arena
I venditori di poche parole
attori bugiardi
riparati dietro paraventi rabberciati
commerciano pezzi minimi del loro corpo
tempestati di chiodi storti di armadi,
foto di “donne-fidanzati-fiori-donne-donne-fidan­zati”,
una forchetta, l’unica nella miriade di miriadi
con ancora una crosta di pomodoro,
il dattiloscritto quello originale famoso,
che recita All work and no play makes Jack a dull boy,
una pipa che non fuma più, Bodini spiegazzato,
Plutotostapane, lo scialle della regina Elisabetta)
«… però ne ho molti altri di Calvino
tutti a prezzo economico, non andartene ti prego
non lasciarmi qua da solo…»

.

giuda a pitti uomo (inedito)

Faccio una corsetta
intorno a Pitti Uomo
spruzzo di sudore
(nell’ordine:)
cinesi di pessimo umore
autorità con troie di ogni età
checche e miss in mise caki
giornalisti pivelli con gli obbiettivi
come piselli ritti di fronte ai modelli di
Massimo Dutti

[Ho dato un’occhiata
ai prezzi all’ingresso
c’è una tassa, un sovrapprezzo
per la gente grassa o in sovrappeso]

Per questo vado a correre,
per invidia penis o forse pittis
per potere un giorno indossare
una giacca rosa e marrone
senza per forza sembrare
un coglione
per non sembrare per forza
un idiota
col gilet chic, una garza sul pube
e due sandalacci à la giuda iscariota

.

off-bar (inedito)

Seduti di fronte a questo tavolino si può chiedere finalmente un cocktail: «Un cazzo caudale, grazie». Alle nostre ironie risponde mugghiando una travolta d’acqua, quieta, qui accanto: è il lago dove stagna l’elettronica, tastato dalla luce scarsa di un lampione che di notte è persino inutile. Di giorno, invece, riscalda un piattino di adolescenze nello stomaco di chi ricorda che, ai giardini della Fortezza, si montava su un triciclo insolito e si girava intorno. Il tizio che spillava soldi alle nostre nonne lo aveva chiamato “grillo”.
L’unica forma reale che riconosciamo ora, seduti di fronte a questo tavolino, è quella di un papero che pedalando distrattamente sul pelo dell’acqua guarda qualcosa in profondità: è un carrello della Coop sdraiato sul fondale. Il suo modo di non aspettare una spiegazione è quello di chi guarda il passato come un fratello che muore nell’utero: consapevole dell’andante diradarsi della pelle intorno all’osso, ne culla il senso antico dentro il blocco degli occhi.

.

Bernardo Pacini (Firenze, 1987) è poeta. Nel 2013 ha pubblicato “Cos’è il rosso” con le Edizioni della Meridiana (Premio Antica Badia di San Savino, Premio Beppe Manfredi Opera Prima). Un anno prima ha vinto il Premio De Palchi-Raiziss. Appare su riviste web e cartacee e collabora con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna, con Heket, con Valigie Rosse e con l’Accademia Pistoiese del Ceppo.

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2 Responses to Tre poesie di Bernardo Pacini

  1. tobiass12 says:

    Belle belle.

  2. gabriele marchetti says:

    Cosa dire? Pacini si fonda a padre padrone del nulla dire, nulla significare, spezzandosi il suo ”raccontare”, come fa, a specchiare il nulla comune e quotidiano. E’ la sua maledizione, aver scelto come oggetti le cose inutili con cui tutti abbiamo a che fare ogni giorno; l’idea fetale, che pure sarebbe buona, sfocia poi in situazioni inimmaginabili che purtroppo, invece che risultare universali, capitano solo a lui. E quindi già staremmo a guardare una poetica che non merita nessuna lettura, che non ci migliora, che non ci salva.
    In questa poesia che vorrebbe trattare della realtà manca proprio (che paradosso…) la realtà dell’esperienza di troppi. Pacini è poeta per sé (che oggi assume la nomea di qualità): sicuramente interessante, degno di comparire sveltamente su Atelier, Estroverso e Nuovi Argomenti, come una lingua infilata di straforo in ogni buco; ma mai per un qualsiasi altro che non condivida e viva la sua minuta realtà, troppo tritata nelle occasioni del suo scrivere. I premi (…?…) che ha nel palmares contano poco, nel volerlo giudicare sul serio: assomiglia al Dino Campana dei ”Canti orfici”, specie per quella prosa che resta rinchiusa nei propri limiti e non sboccia mai più. Leggetelo. Qualcosa ne guadagnerete, ci credo anch’io; ma se poi ci pensate…ahi ahi ahi…

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