Senti che idea
febbraio 11, 2014 Lascia un commento
“Scrivi dello specchio”, mi dice lui, siamo in macchina, le scarpe bagnate, uscire di corsa da casa col magone nauseante nella gola, il bruciore vivo dello sterno dopo un ultimo saluto, l’ennesimo abbraccio che si allenta tra i morsi, “io però sono già in pigiama”, magari serve a dimenticare, questa sera non si può stare da soli, “dai che mi accompagni”, mi dice lui, una gomma da masticare per scrivere un racconto su commissione, salgo sul sedile passeggeri, apro lo sportello posteriore, scatta l’allarme, non pensavo facesse tanto caldo qua fuori, sono digiuna, partono le prime inutili comunicazioni di servizio, il finestrino a manovella non lo vedevo da un po’, “prendi un pasticcino”, la musica dance viene direttamente dall’altra corsia, dentro gira un lento, lei ha i capelli biondi, lisci, tanti chioschi spalancati all’alba sulla sabbia umida dopo un temporale, ho bevuto giusto un bicchiere di vino rosso e già grondo di sudore, “scrivi dello specchio”, mi dice lui, non pensavo si potessero indossare calze così spesse in questa stagione, è appena finito ottobre e piove a soffi, “grazie”, non mi piacciono i pasticcini, “ma dove abiti”, precisamente? Sono sempre in pigiama, era iniziato tutto con un bacio a schiocco, i passi forti in corridoio, senza bussare, le cose che ritornano a galla sono quelle essenziali, leggo su una rivista di genere, in altri contesti, dio, come odio le banalità, mi perdo spesso, anche sulla Cristoforo Colombo, ripenso a un concerto, allora, le Direzioni Diverse, a com’è facile scambiare il senso di marcia, sento un prurito diffuso nel cervello, e se ci fanno la multa, davanti all’ospedale, c’è la corsia preferenziale e questo non è un taxi, ridatemi il libero accesso, ma che succede? “Senti che idea”, tanti racconti di sole donne, mi dice lui, lo specchio come tema, c’è anche lei, seduta, capelli biondi, calze di lana, dice per me va bene, ma adesso “ciao, domani ho un esame”, fatemi l’in bocca al lupo, e intanto ripenso a un fumetto, nelle case spoglie degli anziani, i pomeriggi lunghi che ho passato da sola dopo la scuola, il balletto classico, la lacca calcata in testa con le forcine, il rossetto sterile al gusto amaro del lampone, Liszt e Schubert dei viandanti nel grammofono, la torta rustica servita in tavola dopo le cinque, c’era questa bambina che esprimeva un desiderio e si trasformava di continuo, usava una formula magica e diventava un uccello, un fiume, un gatto, l’amica di amici, un’ostrica, c’erano le streghe nere, l’accademia della crusca, lei pronunciava il suo rito apocrifo in perfetto giapponese, aveva un compagno di giochi, un diamante, uno specchio, diventava senza peso, lei, composta di un’altra forma e sostanza, l’inconcepibile intermezzo delle cose, quanto mi sarebbe piaciuto, nei mesi scorsi, trasformare anche noi due, ridefinire i ruoli, buttare dalla finestra quei tanti cassetti da rimettere in sesto, “bisogna scegliere le priorità”, m’ama o non m’ama, mi sarebbe piaciuto, sì, smetterla per sempre col silenzio petulante, col taglio squadrato dei capelli, quei baffi ruvidi che mi ricordano la famiglia, i piccoli traumi del pesce rosso che s’ingozza senza posa nella sua boccia sporca di melma, e pensare che a lei bastava guardarsi nello specchio, ripetere ancora poche parole magiche, quella bambina fatata, con la voce alta si sentiva un riflesso, quanto avrei voluto, nel pomeriggio, tenerti ancora a letto, per un altro anno solamente, non avremmo mai più niente di simile, un amore finito troppo presto, il nostro, mai cominciato davvero, e adesso prenota le tue partenze intelligenti, controlla con pudore quell’insana classifica ministeriale, “però almeno impegnati”, continuavi a ripetere, e io non lo volevo capire, più, ma ormai mi bruciano forti le orecchie, sento le tempie che si slabbrano, pulsano d’incenso insieme alle sopracciglia, e allora prendo carta e forbici, plasmo un ottagono irregolare, i pennarelli coi tappi smozzicati, l’azzurro cielo che si fa di vetro, tengo le gambe strette, accavallate bene, riscriviamo una tastiera portatile, i fili d’amianto li metto in tasca, unisco i pezzi del discorso, ricaccio i refoli nella memoria, le pasticche antidepressive te le ha prescritte il medico, stai attento ai disturbi senili dell’impotenza, prendo dal ripostiglio la colla stick, soffio sul bordo disegnato dal compasso, recupero le puntine arrotondate, ricostruisco il mio specchio personale, scelgo la magia bianca, dico la formula ad alta voce, divento aquila, divento cincillà, divento mucca da asporto, un toupè, divento l’amico degli amici che ti telefona a prima mattina, “ti offro un lavoro”, divento il cane da segugio, una tartarre in brodo, divento lucciola di quartiere e mi ritrovo sulla Cristoforo Colombo, non so ancora da quale lato, ma fa freddo, inverto il senso di marcia, aborro il rituale scambio delle corsie, “perché non scrivi un racconto sullo specchio”, mi dice lui, i pasticcini li portiamo a casa, vuoi favorire? È avanzata la brodaglia truce del vino rosso, galleggia squallida nel bicchiere, pulisco svelta le impronte digitali e cancelliamo qualunque traccia di noi, la ventola è rimasta ancora accesa, per fortuna non c’è stato furto d’auto nel parcheggio dell’autogrill, gli interessi in comune sono molti, non lo sapevi? Salgo su un treno che va troppo veloce, ogni giorno, le chiavi di casa le perdo a comando, per inventarmi una fuga opaca nel cortile, nascondersi svelti dietro ai cancelli, dove finiscono le zucche, lei ha le calze grigie, i capelli biondi e lisci, l’odore forte della lana addosso, di sicuro conserva anche uno specchio di carta nella borsetta, l’altra magia per sole donne.
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