Le quattro stelle
febbraio 27, 2014 Lascia un commento
play: http://www.youtube.com/watch?v=ie8Vny4uZ_0
“Sacamos los pesados revólveres (de pronto hubo revólveres en el sueño) y alegremente dimos muerte a los dioses”
“Estraemmo pesanti pistole (a un tratto comparvero delle pistole nel sogno) e allegramente ammazzammo gli dei”
(J.L.Borges, Ragnarok)
La sciabola che pendeva dalla cintura di Fergus Hamilton era irlandese. Era uscita quasi un secolo prima dalla bottega di Seamus Palmore, il maestro di Galway di cui tutti conoscevano il nome e l’abilità ma che nessuno aveva mai visto. Si diceva che Palmore riuscisse a dare alle lame un filo straordinariamente sottile e che per temprarle usasse il whisky e il sangue dei maiali del suo porcile. Una leggenda da taverna pretendeva che avesse forgiato personalmente la spada che l’avrebbe ucciso il giorno dopo in un duello.
E poi erano, o sembravano, incredibilmente leggere, le spade di Seamus. Doveva essere vero, perché Fergus e prima di lui suo padre e suo nonno, quando erano in battaglia si dimenticavano di averne una al fianco. In realtà l’invisibilità ai loro occhi e l’apparente inconsistenza della preziosa arma dipendevano soltanto dalla bandiera: dai tre fiori bianchi, dalle tre stelle a cinque punte su campo rosso del vessillo del clan, di cui i primogeniti della sua famiglia erano i portatori. Non ammainarlo e non cederlo al nemico erano le due uniche preoccupazioni di Fergus. Così anche quel giorno appena nato, il 25 luglio del 1519, mentre infuriava la battaglia e il sangue vecchio e giovane degli Hamilton e dei Ramsay dava un altro colore all’erba e agli scogli della riva e all’acqua di piombo dell’estuario, del Firth of Forth, le mani erano saldate al legno dell’asta, come talee, come innesti su un tronco. L’unica vera arma di Fergus fu ancora la bandiera rossa stellata, e la spada restò il simbolo che ornava il suo coraggio senza domande e senza repliche.
Per lui che era avvezzo al marciare in avanti sempre, ad avanzare e a fermarsi solo quando il ferro aveva smesso di fare rumore, quella mattina fu diversa. Ognuna lo è a suo modo, ma quella lo stava aspettando da molto tempo, pensò Fergus quando si rese conto di avere ormai le spalle al fiordo e vide che la morte si stava facendo strada tra gli uomini del suo clan, tra i suoi amici, i suoi parenti e che lo stava guardando negli occhi. Rimase immobile, le dita avvinghiate all’asta sormontata dalle tre stelle. Morirono suo fratello e Lennox, e Sean con cui era cresciuto, in rapida sequenza. Fu proprio quando cadde Sean che iniziò ad attendere che succedesse. Non aveva paura e nemmeno rabbia. Aspettò che l’onda raggiungesse anche lui. Alla fine, prima che l’uomo dei Ramsay a cavallo e con la spada in pugno – una semplice spada, rozza e pesante, non come la sua che riposava da tre vite nel fodero – gli arrivasse davanti e lo colpisse, Fergus si voltò verso l’estuario, verso Edinbra e verso il castello che non si vedevano ma che erano lì lo stesso, verso Jane che prima o poi avrebbe sconfitto le lacrime e la sua mancanza e che avrebbe continuato a portare il suo anello solo per abitudine, verso il sole che iniziava la sua parabola, l’ennesima, l’ultima per lui. Calcolò con estrema precisione il fendente che giungeva: si servì dell’eco interno che gli zoccoli del cavallo producevano sul terreno e che d’un tratto tacque, e del tempo che immaginava fosse necessario a chi stava per ucciderlo per calare la spada su di lui. Un istante prima che le carni si squarciassero e le ossa andassero in frantumi, Fergus Hamilton tese le braccia in avanti, in direzione del fiordo. Cadde tra la sponda e l’acqua e la bandiera se la prese la corrente, divenne del mare e non dei Ramsay. L’acqua che gli inondava la bocca aveva il sapore della terra la terra quello della torba la torba quello dell’ultimo whisky che aveva bevuto con Sean prima di scendere sul campo e che gli scogli umidi e lucidi sembravano trasudare. Il mare li lambiva indifferente e accarezzava lui in silenzio. L’ultima cosa che Fergus provò non fu dolore, ma il dispiacere di andarsene e l’ultima che i suoi occhi videro nella luce furono le stelle della bandiera che il mare inghiottiva e rigurgitava in superficie, che per uno scherzo senza senso non sembravano più tre ma quattro, perché nel mezzo ne appariva un’altra, dalla forma simile ma diversa, a otto punte. Mentre il giorno anche per lui diventava notte, lo accompagnarono la visione fugace di un’ombra dagli occhi gialli ed una voce lontana e incomprensibile. Poi tutto finì.
Tlaloc si destò di soprassalto. Il cuore che gli batteva in gola lo fece pensare di riflesso al coltello rituale e alla perizia e all’indifferenza con cui ormai lo utilizzava. Teiun dormiva accanto a lui, serena.
Si alzò. Il sudore gli rigava la fronte, gli scivolava sul petto e sulla schiena ancora possente. Si toccò, per accertarsi che non fosse sangue. Solo in quel momento si svegliò davvero, e davvero tornò del tutto in sé. Fuori era buio. Si diresse verso l’altare. Alla luce di una fiaccola, l’acqua scorreva lenta e incessante lungo il condotto ricavato nella pietra e andava a riempire il bacile intagliato a forma di conchiglia ai piedi di Atl, dell’effigie del dio.
Tornò al giaciglio. Si distese supino.
Pronunciò a voce alta il nome della sua compagna, che gli rispose senza aprire gli occhi. Continuò.
“Ho sognato un uomo, uno sconosciuto. Aveva delle vesti variopinte e un bastone con un pezzo di stoffa in cima. Aveva la morte negli occhi, ma non aveva paura, come in un sacrificio. Dietro e davanti a lui c’era la grande acqua. Poi arrivava uno strano essere spaventoso e stupefacente a vedersi: aveva quattro zampe come un grosso animale, il corpo e la testa di un uomo e un’altra testa, grande e lunga, con una criniera. La creatura aveva un’arma e uccideva l’uomo dell’inizio, che nemmeno provava a difendersi. L’uomo cadeva nel mare e il mare si portava via il pezzo di stoffa. Era del colore del sangue e sopra c’erano tre segni bianchi a cinque punte e in mezzo la mia stella”.
Mentre concludeva, Tlaloc si toccò la schiena coperta al centro dal tatuaggio della stella a otto punte che si era meritato il giorno dell’eclisse.
Teiun era sveglia ora e lo ascoltava.
In quel momento sentirono delle voci sulla porta. Il ragazzo che entrò, lo avvertì degli strani uomini, armati e dai cappelli di ferro, che quella notte si erano accampati fuori dalle mura della città e delle strane bestie a quattro zampe a cui erano congiunti alcuni di loro. Il re voleva vederlo subito, aggiunse il messaggero.
“Moriremo tutti” disse l’azteco pronunciando le parole dritte e sincere come un sì.
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