Il frattale di P.

di Sergio Peter

Viktor Jacobi, Il frattale di P., Adelphi, Milano 1983, pp. 71

Siamo nel 2019, in un’Ungheria desolata. P., bibliofilo accanito, parte per la Polonia alla ricerca di un manoscritto del 1980, apparentemente disperso, che conterrebbe le tracce di un libro che parla di sé, e soltanto di sé (Un libro-frattale, che cioè dovrebbe possedere due proprietà: auto-similarità e dimensione frattale). O meglio: la ricerca del protagonista P. è un vero e proprio tentativo di autoconvincersi dell’esistenza di quel testo, quando invece sa bene che non è mai esistito. Il suo obiettivo è pertanto rintracciare e quindi creare (perché dove mai troverebbe ciò che non è mai esistito?) nel poco tempo concessogli dal suo Governo, le prove dell’esistenza del manoscritto. A P. interessa non tanto la fattualità o la presenza fisica di quelle pagine-frattali nel mondo, quanto la mera possibilità logico-matematica della loro esistenza, la loro ipotetica origine algoritmica. Ma la ricaduta del paese nel magma caotico di dionisiaci riti propiziatori (il Re e giovani concubine mostrano i propri corpi nudi nelle periferie delle città, nei tramonti che precedono le lune piene, proprio mentre ai clochard viene vietato di mangiare il grano e i suoi derivati) gli impedisce di far capire al Governo che la sua tesi, avendo un fondamento puramente logico, è perciò attendibile. Allo Stato cui appartiene interessa esclusivamente la carnalità della dimostrazione. In sintesi, P. dovrà, in caso di fallimento, autoelidersi (e quindi morire) oppure, in alternativa – come opterà – fare in modo che la possibilità del libro si sprigioni nel mondo, e quindi che il libro esista (Via della Profezia che si Autoadempie). Da appassionato lettore qual è P. non ha difficoltà a fabbricare il più grosso falso della sua epoca (ma che falso non è, perché P. proprio realizzandolo finisce per dare alla luce il libro-frattale che sognava). Così torna in patria sicuro del successo: i Gerarchi ungheresi gli credono, ma vogliono altre prove, vogliono i personaggi reali, e che costoro ballino. Perciò P. va di nuovo a Varsavia, ma viene scoperto dalla polizia polacca e accusato Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

Manganelli e il viaggio: il sogno e la massa

È diffusa usanza dei popoli occidentali organizzare e/o partecipare a viaggi organizzati – catastrofiche gite, famigerati eventi fantozziani che raggruppano una decina una ventina una quindicina di infelici e li sbattono in qualche città d’arte (che, possibilmente, sia irraggiungibile con mezzi più comodi d’un autobus privo di ammortizzatori e sedili) dove dovranno fare una maratona per vedere ogni dettaglio possibile di altari secenteschi, di ciabatte corinzie o sospensori atzechi. Sempre che, costoro, in vena di elargizione, non si siano svenati per venir sistemati su navi da crociera lussureggianti di profferte lubriche e quasi puntualmente disattese. Leggi il resto dell’articolo

La società dello spettacaaargh! – 10

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9]

Caro Jacopo,

mi pare che dopo un lungo, faticoso e complesso ragionare, bello nella sua autenticità, si sia arrivati in uno di quei punti in cui a scacchi si propone la patta. Non perché la posizione raggiunta renda in sé la partita un matematico pareggio, ma perché si è arrivati prossimi a una situazione di equilibrio, e la stanchezza fa pensare “mi conviene, ora, perturbare questo equilibrio? Sono in grado di farmi carico delle conseguenze, dei problemi che scaturirebbero?”. Questo perché la risposta ai quesiti che sollevi, in sostanza, io non la possiedo. Io dispongo, al massimo, di una mia risposta, di una scheggia di autocoscienza levigata dal tempo, dal dolore e da qualche scintilla di grazia. Quindi ciò che scriverò ora attende una valida e preziosa confutazione; è il punto cui sono arrivato nel labirinto, e non la «formula che mondi possa aprirti». Leggi il resto dell’articolo

Editoria precaria

[Rilanciamo questo pezzo di Alessandra Amitrano, precedentemente pubblicato su Scrittori In Causa]

Non sono precaria come scrittrice perché fare la scrittrice non è il mio lavoro, nonostante sia la mia passione più grande, necessaria. Non è il mio lavoro perché in quello che scrivo metto cose che vanno aldilà dell’immediato, della spendibilità. Scrivere mi prende tempo, impegno, silenzio. Scrivo di giorno ma scrivere mi chiede quello che possiede la notte, un tempo statico, dilatato, sollevato da terra.

Sono precaria perché scrivo. Forse, considerando i tempi e la mia indole, sarei precaria anche se non scrivessi. Sono precaria perché per vivere e far vivere mio figlio, il mio compagno e io dobbiamo costantemente proporci, imporci, convincere, spiegare. Dobbiamo chiedere di essere pagati, dobbiamo chiedere di essere equamente pagati, dobbiamo ricordare di essere pagati. Dobbiamo inventare, ideare, pensare, camminare, correre, parlare e rispondere.

No, non mi sento precaria come scrittrice, e penso che, come mi ha fatto osservare Carolina, scrittura e precariato siano due cose che non hanno senso di coesistere, ma se gli editori, e non parlo del fortunato caso del mio esordio, investissero di più su libri preziosi, forse gli scrittori potrebbero permettersi di fare meno i precari in altre circostanze. Fare i precari, e non essere precari, perché il precariato si è spinto così a oltranza che da modalità è diventato norma, da approccio è diventato condizione.

San Precario a Torino mi ha fatto scoprire chi sono i veri precari dell’editoria: Adelphi: 7 redattori assunti e 12 collaboratori, di cui 6 a partita IVA. Mondadori (Oscar): 6 redattori assunti, 9 cocopro con fisso mensile, 10 cocopro pagati a cottimo (cioè a cartella) e 1 collaboratore con partita IVA. Rcs (Rizzoli-Bur): 19 redattori assunti, 17 cocopro, 2 interinali, 4 stagisti e 1 partita IVA. DeAgostini Scuola: 18 redattori assunti e 13 a progetto (ma con obbligo di presenza quotidiana in azienda). Mondadori Education: 31 redattori assunti e 31 atipici nelle sedi di Milano e Firenze. Piemme: 56 dipendenti assunti, 27 collaboratori e 2 interinali.

Poi c’è un mio amico. Ha lavorato instancabilmente in una casa editrice che è cresciuta anche grazie alla sua bravura. Da più di un anno non lavora più lì, devono ancora pagargli sei stipendi.

Poi c’è uno scrittore, che da poco tempo è morto di cancro. Avanzava ancora i soldi del suo ultimo libro.

E poi c’è la vergogna.

Alessandra Amitrano

Il futuro della scrittura collettiva

Vorrei partire dicendo che lo spunto per queste considerazioni nasce dalla conoscenza del progetto SIC di Magini e Santoni. In base a quanto m’è sembrato di capire di quel che ho potuto leggere, ho avuto l’impressione che il SIC si regga sui propositi di due (o chissà quante) persone preparate e appassionate: a differenza di molti altri progetti di scrittura collettiva attualmente in circolazione (spesso solo sussiegosi, tirannici o confusionari: decisamente scrittura truffaldina), Magini e Santoni hanno messo a punto un sistema logico, trasparente e – dote rara e preziosa – ragionevole. Posso non condividere i loro scopi e i loro presupposti, ma non posso non apprezzare la “gentilezza” con cui il SIC è strutturato: ognuno può, seriamente, contribuire grazie alla oggettività della “scheda”. E questo a me pare un contributo genuino alla scrittura. Trovo altresì che la presenza di un Direttore Artistico che esoneri l’autore dalla “integrabilità” sia salutare e azzeccata come soluzione organizzativa, mi preoccupa solo la sua importanza nodale: da lui dipendono davvero troppe cose, è lui che decide se un’idea è buona o no, quindi c’è da sperare solo che sia capace e intelligente. Infine è ottimo che ogni scrittore possa trovare il proprio utilizzo in base alle sue peculiarità. Stupendo. Detto ciò proverò a occuparmi, nei limiti di spazio e capacità, di questo argomento più in generale. O, meglio, a fare delle domande a cui non ho trovato una risposta. Leggi il resto dell’articolo