Confessioni qualunque – 12

[Ricordiamo ai lettori che Confessioni qualunque, la rubrica curata dai ragazzi di In Abiti Succinti, è aperta a chi voglia scrivere una confessione. Fatelo anche voi! Svisceratevi! E poi inviate i vostri racconti.]

#12 – Nino

di Nicola Feninno

Che resti tra noi.
I miei nonni erano fascisti, i miei genitori democristiani. Io faccio il pescatore e so che nessun partito ha mai moltiplicato il pesce.

Mio figlio questo deve ancora capirlo: vive a Roma, studia scienze politiche, non ha mai saputo nulla del mare; da piccolo gli veniva la nausea soltanto a stare al largo sul pedalò.

Frequentai le scuole a Praiano – elementari e medie – perché ad Arienzo le scuole non c’erano. Prendevamo la stessa corriera alle sette, io, Giggino, Daniele e Giulio, eravamo tutti e quattro di Arienzo, tutti e quattro figli di pescatori; ad Arienzo praticamente tutti gli uomini facevano i pescatori, tranne don Agostino e Pino, lu ricchione, che faceva il barbiere, che poi anche a quello – come diceva mio padre – ci piaceva comunque lu pesce. Alle medie ci siamo scelti un nome per il nostro gruppo: gli Scassacazz. L’ispirazione ce la diede il padre di Giggino: tornavamo dal cinema di Praiano, un sabato pomeriggio; viaggiavamo sulla sua Diana bianco panna – panna sporca – al cinema avevano dato Easy Rider. Leggi il resto dell’articolo

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Le vestigia degli avi

Non che possa funzionare altrimenti, ci si conosce sempre su un transatlantico, a cena al tavolo del Capitano: le ragazze di quindici anni che per sposarsi si va in America, tipo Olave; i ragazzetti di terza classe che per morire si va alle Americhe, italiani gallegos fascisti comunisti anarchici mafiosi, tipo; gli eroi di guerra che per promuovere il movimento degli scout si va a Nuova York, tipo il Baden-Powell.
Olave è un nome discretamente scivoloso, di baffi rossi e birra e stucco sulle pareti, è il femminile di Olaf: le vestigia degli avi, significa.
Vestigia si bacia con battigia, Baden-Powell attende che l’Arcadia attracchi sui dock della Grande Mela e poi la bacia, le dà un morso, un morso sulle labbra attraenti. Mica alla mela: a Olave, Olave Soames, che da quel giorno, anche se non lo sa ancora, è gia la Signora Baden-Powell, la futura moglie dell’inventore dello scautismo.

Olave e Robert, i Baden-Powell, c’era una ròba che li rendeva diversi da tutti: si amavano come s’erano già amati e si sarebbero amati altri, è vero, però loro, ecco, erano nati lo stesso giorno: il 22 febbraio.
Le Guide e gli Scout gli vogliono ancora del gran bene, ai Baden-Powell, anche se sono ormai terra pei ceci, tanto che ogni anno, il 22 febbraio, celebrano il Thinking Day, il giorno della riflessione, per ricordarli, per immaginarseli ancora un po’ col cappello la piuma i nastrini e le coccarde. Leggi il resto dell’articolo

L’ultimo testamento della Sacra Bibbia

L’ultimo testamento della Sacra Bibbia (Guanda, 2011)

di James Frey

È tornato James Frey.

Il controverso autore di Un milione di piccoli pezzi – che lasciò scandalizzati gli americani all’ Oprah Show, confermando le voci che volevano la sua biografia sui suoi primi vent’anni di droghe e disintossicazione come un libro molto “rimaneggiato”, diciamo “truccato” da qualche esagerazione qui e là – dopo aver colpito duro con Buongiorno Los Angeles (affresco corale della città degli angeli) torna con un nuovo best seller: L’ultimo testamento della Sacra Bibbia.

Un libro nato nella testa dell’autore nel 1994, che si concretizzò soltanto nel 2009.

Come nel precedente, sono molte le voci che in questo romanzo raccontano il loro punto di vista, la loro storia. Sono voci che ricordano gli evangelisti, ognuna con il proprio tono, la propria esperienza.

Ruth, Jeremiah, Adam, Mariaangeles, Alexis, Charles, di fatto sono la storia di Ben. Scrivono le righe dell’Ultimo Testamento del Messia, del Cristo Ritornato, che hanno incontrato e che ha cambiato loro la vita.

Un nuovo redentore affatto banale nella sua assoluta concretezza umana, nella sua nuova veste terrena, che ricalca l’uomo come è e come sarebbe vissuto da un’entità divina che si ritrovasse sulla nostra palla di fango. Leggi il resto dell’articolo

Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro

SERVI. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro (Feltrinelli, 2009)

di Marco Rovelli

Poi mi accompagni alla macchina e mi dici: “Mi piacerebbe sapere meglio l’italiano, sai la lingua è un problema, non capisci mai fino in fondo, e nelle cose il gusto è in fondo”, e già è il primo regalo che mi porto dietro nel viaggio, e poi mi lasci dicendo: “In patria ormai sono straniero, quando torno al paese non mi piace più andare a rubare la frutta sugli alberi”, e questa immagine perfetta del tuo sradicamento la porto con me, in questo viaggio, che mi fa fare un passo sotto, nel paese sommerso. (p. 106)

Vi ricordate degli “italiani brava gente”? Quelli che hanno permesso il boom economico del dopoguerra e che sono conosciuti in tutto il mondo per il loro estro e la loro fantasia? Quegli stessi che sono emigrati in massa a cercar lavoro, in America o nel resto d’Europa, e che in materia di discriminazioni dovrebbero saperla lunga?

Forse no, perché il popolo italiano pare avere la memoria corta, o forse fa finta di non averla affatto, grazie a quella stessa capacità istrionica di saper ribaltare la realtà dei fatti che lo contraddistingue da sempre. Anni e anni di trucchi e sberleffi ci hanno ormai abituati a identificare ciò che conviene con la realtà dei fatti, che poi è un altro modo per dire che chiudiamo volentieri gli occhi dinanzi a ciò che non ci piace vedere. Anzi, per non dover neanche sostenere lo sforzo di abbassare le palpebre, ciò che è sconveniente lo rendiamo direttamente invisibile, relegandolo in uno spazio cieco, per poi illuminarlo solo quando ci torna utile.

È quanto più o meno succede da anni nei confronti dei clandestini, ché riconoscere una massa di nuovi servi nel paese del Rinascimento sarebbe poco meno che bestemmiare, o giù di lì.

Marco Rovelli, in quello che la quarta di copertina definisce un “reportage narrativo”, gli occhi non li chiude, anzi, ci restituisce con la sua scrittura il viaggio allucinante nel mondo della clandestinità made in Italy, di cui la legge (e quindi lo Stato) è diretta produttrice. L’autore fa quest’opera di scavo – nella lingua, nella vita – necessaria a gettare una luce sui vasti coni d’ombra di un’economia italiana fatta ancora di braccianti e di subappalti che moltiplicano i cantieri di lavoro nero.

Come non capire, leggendo le storie qui riportate, a chi convenga mantenere gli immigrati in situazioni d’irregolarità per sfruttarli a condizioni lavorative inumane? Forse molti di noi già lo sanno, o intuiscono come vanno certe cose, ma conviene far finta di non saperlo. Conviene a noi italiani, soprattutto. E allora è necessario un libro – ebbene sì, anche loro, a volte, sono ancora necessari – per andarci a sbattere contro queste verità: un libro che restituisca la parola e un volto, o dei gesti, a chi solitamente non ne ha.

Rovelli riesce magistralmente in questo lavoro, assieme geografico e geologico, che è sì un reportage (la geografia di un’Italia sconosciuta), ma al tempo stesso anche un romanzo in cui la voce narrante è il prodotto dell’incontro tra l’autore e i propri temporanei compagni di viaggio. Un libro, soprattutto, in cui ci si rivolge in seconda persona nei confronti di chi non viene mai interpellato, di chi spesso non ha neanche un nome. Difatti, in più d’una di queste storie si riscontra questo stupore dell’altro – il clandestino – davanti alla disponibilità all’ascolto . Non si tratta di compassione, bensì di rispetto, quello a cui dovrebbe avere diritto ogni essere umano, ma che sembra roba da marziani in un paese che non conosce più il rispetto neanche per se stesso; in un paese che perde volentieri la memoria, come ci ricorda Maloud, che non si capacita di come gl’italiani non si rivedano nella situazione che investe oggi i nuovi emigrati, bloccati in questa terra di nessuno e stranieri in ogni luogo. Prigionieri in Italia, dove non gli vengono riconosciuti i propri diritti; prigionieri nel proprio paese, dove non possono rientrare sia per motivi politici (possibili ritorsioni o persecuzioni), sia a causa di una legge kafkiana che li mette in condizioni di irregolarità perenne. E lo dice uno come Maloud, che è fortunato, perché per via della pelle chiara, il capello biondastro e gli occhi chiari non lo prendono per maghrebino. Eppure anche per lui l’integrazione resta un sogno, perché quando gira con i suoi amici marocchini vede la gente che c’ha paura, che si stringe la borsa al corpo. E se lo dice uno come Maloud, che forse l’Italia non è quell’America che tutti si credono prima di partire, c’è da credergli, perché all’interno di questo libro la sua storia sembra la più normale, o forse è soltanto perché sono le altre ad essere allucinanti oltre ogni immaginazione. Proprio come in quest’Italia, dove la realtà sembra ogni giorno di più uno sceneggiato girato male, ma dove chi viene costretto a pagare, alla fine, paga davvero.

Simone Ghelli