Sradicamenti 3: Serena Maffia

Dopo aver letto i loro bei romanzi, ho deciso di porre alcune domande a quattro giovani scrittrici (Simona Dolce, Antonella Lattanzi, Serena Maffia e Rosella Postorino), accomunate sia dalla scelta di trasferirsi a Roma dal sud Italia, che dall’aver pubblicato recentemente dei romanzi che, seppur nella loro diversità stilistica e nella varietà delle tematiche affrontate, mi sono sembrati capaci di dialogare a distanza su alcune questioni importanti.


Simone Ghelli: Da un po’ di tempo si parla dei tanti italiani, soprattutto giovani appena laureati e in cerca di lavoro o di una possibilità di continuare la propria carriera universitaria, che emigrano all’estero. Voi, in un certo senso, avete invece compiuto una migrazione interna, dal sud verso la capitale. Come vivete questa doppia situazione: da una parte lo sradicamento dalla vostra realtà e dall’altra la scelta di rimanere in un paese sempre più sfilacciato, che perde ogni giorno pezzi della propria memoria?

Serena Maffia: Da poco ho avuto il piacere di conoscere lo scienziato Thomas Brown, uno di quei preziosi cervelli che l’Italia cerca di non farsi scappare attraverso il Progetto Rientro dei cervelli del MIUR. Perché vi parlo di lui anziché di me? Perché da quando lo conosco non passa giorno che mi domandi: ma l’Italia è in grado di non farsi scappare un uomo del genere? Ma per comprendermi meglio, voglio che capiate bene chi è. Thomas M. Brown si è laureato in Fisica con lode all’Università “La Sapienza” di Roma nel 1996 con una Tesi sul silicio amorfo, di interesse per dispositivi fotovoltaici. Dal 1996 al 1997 si è occupato di transistor a film sottile in silicio poli-cristallino come Research Assistant al Cambridge University Engineering Department in cooperazione con la Seiko Epson Corp. Ha poi completato un PhD, e un periodo come Research Associate, su diodi emettitori di luce a polimeri (OLEDs) nel gruppo del Prof. Sir. Richard Friend al Cavendish Laboratory (Cambridge University), collaborando con l’impresa leader nel campo, la Cambridge Display Technology Ltd. Nel 2001 è entrato a far parte, già nel primo anno della sua fondazione, della Plastic Logic Ltd, azienda nata con lo scopo di commercializzare le invenzioni che permettono di adoperare le tecnologie della stampa usando polimeri solubili per la fabbricazione di circuiti elettronici in plastica (OTFTs) e del E-Paper (carta elettronica). È diventato Senior Engineer responsabile per la ricerca e lo sviluppo dei materiali dielettrici e per la deposizione su grandi aree e autore di 9 brevetti. Alla fine del 2005 è rientrato in Italia come vincitore di un contratto del “Rientro dei Cervelli” del MIUR per realizzare il progetto di ricerca di sviluppo di celle fotovoltaiche organiche o ibride attraverso tecniche di fabbricazione di stampa a basso costo presso il Dipartimento d’Ingegneria Elettronica, Università degli Studi di Roma – Tor Vergata.

Pazzesco, che l’Italia oggi debba recuperare i suoi cervelli quando un tempo fu il centro di tutto. Hitler cercò di fare della Germania un nuovo impero romano, e un paese “senza storia”, come l’America, dominò il pianeta. La chiave sta proprio nelle radici. È come l’allievo che supera il maestro, le radici ti tengono ben saldo alla terra ma il cervello ha bisogno di volare. Non so perché Thomas Brown abbia deciso di restare in Italia e non so nemmeno perché l’abbia deciso anch’io. Ogni anno mi dico: «Basta è ora di andare», e ogni anno ricomincio da qui. È come se la fiducia nel passato alimentasse le mie speranze nel futuro. Mi dico: «Se da così in alto si è arrivati così in basso, è tempo di risalire». E invece è solo tempo di delusioni e mortificazioni. Non valgo un unghia di questo Thomas Brown (ho sempre dato il giusto peso alle cose e la scienza ne ha uno, l’arte un altro), però sono convinta che tutte le passioni e le devozioni si trovino allo stesso livello nell’etere, fluttuino tra la terra e le nuvole come una sorta di melassa appiccicosa che impiastriccia ma protegge in qualche modo l’umanità. Non so perché io continui a restare in questo Paese torbido e disorganizzato, forse resto in attesa che torni il sereno appesa al timone della nave in balia delle onde e della tempesta, forse affonderò o forse no, certo è che qualcosa di bello quest’Italia disastrata ce l’ha, altrimenti non continuerebbe ad avere il primato sul turismo.

La Calabria. Devo confessare di aver scoperto da poco di non essere calabrese, cioè di esserlo di nascita ma di non appartenerle veramente. Allora ti chiederai: «Perché dunque ne parli nei tuoi romanzi, nei tuoi racconti?»Probabilmente perché ho voluto conoscerla così come si vuole conoscere il proprio padre genetico, per poi comprendere che il vero padre è quello adottivo. C’è il bisogno in ognuno di noi di conoscersi, di comprendersi e di perdonarci anche, e crediamo che nelle radici ci sia il perché delle nostre colpe. In realtà nelle radici si può trovare solo il perché di un tratto fisionomico, come in me si vede bene che sono calabrese, la pelle olivastra, gli occhi e i capelli castani, il mento sporgente, ma calabrese lo sono solo fuori. I miei libri sono lo specchio proprio di questo disagio d’appartenenza. Così come in Sveva va veloce ricerco il perché di situazioni e modi di pensare che non mi appartengono, nel mio romanzo Stalking e talking con Antonella Clerici in libreria a gennaio per Edilet, parlo di usi e costumi meridionali, come il maschilismo e la sottomissione della donna in ambito familiare e sociale, per me totalmente incomprensibili e inaccettabili.

 

S.G.: In che modo la scrittura rappresenta per voi un modo di riappropriarvi di quella memoria che rischiavate di lasciarvi alle spalle durante il viaggio? Ve lo chiedo perché mi sembra che questo aspetto emerga, secondo tonalità e modalità diverse, nei vostri ultimi romanzi.

S.M.: Ciò che appartiene o è appartenuto non si dimentica, ma la scrittura aiuta a “digerire”. Figlia di un uomo maschilista che la cultura non ha ammorbidito nel suo modo di vivere e considerare la donna nemmeno sulla carta, mi ritrovo a contestare ciò che disapprovo in mio padre attraverso la scrittura. Nei suoi romanzi appaiono esclusivamente donne asservite e sottomesse che sanno stare al proprio posto, o donne che si comportano normalmente e vengono tacciate per pazze o prostitute, cosa questa che mi fa arrabbiare moltissimo e mi fa domandare se sia possibile che un uomo del genere sia veramente mio padre. Questo perché? Perché comunque sia, io sono cresciuta in una realtà completamente diversa dalla sua, che è quella di una città caotica e vorticosa come Roma. Solo attraverso i miei personaggi sono riuscita a comprenderlo e a ritrovare in lui le mie radici, come nella Calabria la mia paternità. Le mie donne sono di carne e di quella sensibilità esasperata prettamente femminile che implica comunque una maggiore intelligenza, se non logica, creativa. Donne che ho immerso in un paesaggio meridionale scoprendole vittime e insoddisfatte di un’esistenza intellettuale troppo stretta. Stalking e talking con Antonella Clerici in libreria a gennaio per Edilet e con la prefazione della stessa Antonella Clerici è per l’appunto il diario di una artista costretta dal marito a vivere da casalinga brava moglie tutta casa e chiesa in una realtà completamente diversa dalla quale era abituata a esistere. La donna dopo il matrimonio è costretta dal marito maniacalmente geloso ad abbandonare la Città e a trasferirsi in un paesino sconosciuto del sud, dove si ritrova sola a subire le angherie della suocera e le violenze psicologiche del marito che invece di dimostrarsi suo amico e complice si rivela suo aguzzino. A farle compagnia non resta che la televisione e Antonella Clerici diventa la sua unica amica. Durante i momenti di sconforto invocherà e chiederà aiuto ad Antonella, finendo con l’interpretare liberamente ogni suo sorriso o gesto televisivo. La depressione e la disperazione aumenteranno con l’inoltrarsi della gravidanza della donna e l’ultima sera di San Remo, dietro suggerimento di Antonella che le strizza l’occhio mangiando una granita siciliana, ucciderà il marito aggiungendo del veleno per topi nella sua granita. Lui muore e lei ha le doglie, San Remo finisce e nasce una bambina che prende il nome di Antonella.

Il romanzo oltre che di stalking tra marito e moglie, che solo da qualche anno è querelabile, tratta anche della malasanità negli ospedali del sud. In particolar modo io descrivo un ospedale, lo chiamo genericamente “Jonio Hospital”, che è lo stesso in cui purtroppo sono morte negli ultimi tempi mamme e neonati. Ne descrivo la sporcizia, l’incapacità del personale infermieristico e medico e l’incompetenza delle strutture. Questo capitolo è già uscito in anteprima nella raccolta “Terra” pubblicata dalla Città del Sole di Reggio Calabria suscitando clamore già nello scorso Salone del libro di Torino, e sui quotidiani. Non era mia intenzione parlare male della Calabria, come tu ben sai mi limito da scrittrice a narrare dei fatti per me rilevanti. Ma eccomi purtroppo a parlare negativamente della mia terra d’origine che mi riempie di sole d’acqua gli occhi, ma che purtroppo vorrei fosse diversa sotto tanti aspetti. I paesi però sono fatti dalle persone e finché noi italiani non decideremo di cambiare, continueremo ad “inquinare” la nostra penisola, perché che se ne dica in Padania, possiamo pure amputarci una gamba, ma resteremmo comunque menomati.

 

S.G.: La memoria è anche la propria lingua, quella che ci si va costruendo. Avete mai pensato di correre il rischio di perdere la vostra lingua durante il processo che vi ha portato non tanto alla scrittura, quanto alla pubblicazione di un libro (mi riferisco da una parte al dialetto, di cui rimangono tracce nei vostri libri, e dall’altra del rapporto che s’instaura tra chi scrive e chi compie l’editing del libro)?

S.M.: Non bisogna avere paura, credo, di essere compresi da tutti. Il fatto che dei termini vengano sostituiti con altri italiani e non dialettali, penso sia un bene. È bene però che lo scrittore si esprima liberamente, perché è proprio nella libertà narrativa che si riesce a creare l’altra vita, quella romanzata, in grado di regalare emozioni reali e punti di vista differenti dal proprio.

S.G.: Un altro punto in comune tra i vostri libri mi sembra il tentativo di rendere un’immagine non stereotipata di quest’Italia sempre più ostaggio della televisione. Durante la sua permanenza all’Isola dei Famosi Aldo Busi, tra le varie cose, dichiarò che in questo paese “non c’è più racconto”. Pensate che la letteratura possa ancora costituire un’alternativa a questa deriva?

S.M.: Perché un’alternativa? Si può avere un’alternativa ad internet? Non credo. Ritengo che bisogna aprire gli occhi e la mente al presente. Se oggi le persone vivono di televisione, rimbocchiamoci le maniche e scriviamo per tutti, magari con una certe ironia, o con la “lupara” in mano, ma facciamoci rapire dalla realtà. A volte può essere più affascinate dei sogni.

 

“Sveva va veloce” (Azimut, 2009) è l’ultima opera letteraria di Serena Maffia, un romanzo ambientato in una Calabria vitalistica, eppure segnata da due tragiche morti su cui pesa l’ombra dell’omertà.

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I gendarmi del Buon Governo Vecchio – Parte uno (“Dì tre”; “Tre”)

In un futuro imprecisato…

Ero in cucina che con la mano destra sorseggiavo del brodo di piede e con la sinistra mi masturbavo le tempie – come sottofondo il tg1 ricordava la figura di Andreotti e del suo libro edito dalla Castelvecchi – quando bussano alla porta di casa. È il cavallo della mia vicina di casa. La mia vicina di casa è una donna ninfomane di Orvieto che utilizza le melanzane per pulirsi il culo dopo aver cagato, e poi le mangia, senza nemmeno cucinarle, robba che uno gli viene il mal di pancia. La mia vicina di casa si chiama Ernesta, ha quasi cinquant’anni ma ha un seno prosperoso e liscio come quello di una ventottenne che sta allattando il figlio della sorella, l’altro invece è una prima scarsa. La lascio entrare in casa (il cavallo rimane fuori). Una volta in cucina mi versa del latte nel caffè direttamente dal capezzolo e mi allarma sul fatto che entro fine mese verranno i guardiani del Buon Governo Vecchio ad ispezionare casa. La soffiata l’ha avuta dal suo ex marito che ora lavora al ministero del Buon Governo Vecchio.

Il Buon Governo Vecchio s’insediò ufficialmente nel 1998 dopo anni di terrore democratico, populista e demagogo. Primo decreto emanato dal nuovo governo fu la riduzione in schiavitù dei datori di lavoro nero, stipendiati ufficialmente dalle libere associazioni di cittadini. Queste associazioni si formarono lentamente all’inizio degli anni ’90 nel quartiere Pigneto di Roma. Dai cinque o sei membri che erano, crebbero a dismisura fino a diventare dodici/tredici mila membri. Tutti perfetti stronzi con matricola e con tendenze nazi-fasciste-gay. Erano vere e proprie logge massoniche dove il rituale d’iniziazione consisteva nel praticare sesso orale al Gran Maestro vestito in tenuta nazista e con braccio teso in saluto romano. Nel mentre il discepolo inginocchiato e con le braghe calate doveva riuscire a sciogliere una candela di cera con il retto. Capirete bene che si faceva la fila per entrare nella loggia. Il Gran Maestro ha 135 anni, portati male ma pur sempre 135. Il segreto della sua giovinezza pare sia il fatto che dorma su reti ortopediche Permaflex ed abbia una foto in salone che invecchia al posto suo. Il secondo passaggio per diventare membro eletto e discepolo ufficiale della setta consiste nella fatidica prova del cuoco, ovvero nel creare una ricetta mai sperimentata, cucinarla e mangiarla senza però mai far cadere l’occhio sulle tette di Antonella Clerici che per l’occasione viene stipendiata per condurre la prova che risulta quindi faticosa ed altamente rischiosa.

Io, come tanti miei amici, non faccio parte della loggia e sono di conseguenza perseguibile civilmente dal Buon Governo Vecchio. Ringrazio Ernesta per la soffiata, l’accompagno all’uscio della porta, le sfioro le natiche e chiudo la porta d’ingresso per poi portare le dita al naso come fosse dell’etere intriso in un fazzoletto. I miei polmoni esultano di gioia bianca e tronfia, come una palla di neve che diventa valanga. La sento galoppare ed allontanarsi dal palazzo.

Terminato il mio brodino di piede, i dubbi mi assalirono e mi spaventai all’idea dei gendarmi del Buon Governo Vecchio in casa mia che frugavano nei miei cassetti in cerca di Dio solo sa cosa. Ma non parlando con Dio da parecchio, presi a costruirmi un piccolo rifugio scavando un buco di 30 cm x 30 cm proprio sotto la scrivania. Un cubo interno al muro, una cassaforte murata che ricoprii con della carta da parati rossa. Dovetti riaprire il nascondiglio perché dimenticai di metterci dentro la robba da nascondere: diari, erba, cd illegali ed i miei hard disk contenenti materiale scabroso e tecniche per costruire bombe carta utilizzando biglietti della metro e banconote da cinque euro.

Ma quella notte qualcosa turbò il mio già travagliato sonno instabile…

Andrea Coffami feat. Angelo Zabaglio

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LA FICTION LETTERARIA

Leggo la rivista SATISFICTION sempre con interesse finché un bel giorno (tipo il 15 febbraio) apro la pagina del loro sito e vedo che Vasco Rossi ha pubblicato una poesia “civile” (Auauhauahuauauha! Oddio nun jela fo’ a continuare oddio vengo meno Auauhauahuahauuauhauahuahauuauaauauha!) dicevo… apro la pagina del loro sito e vedo che Vasco Rossi ha pubblicato una poesiauauhauahau hauuauauaauauhauauhauauaaahuahuahauhauuauauaauauhavabene vabene ora mi calmo… insomma comunicati su comunicati per avvisare il mondo della cultura che Satisfiction ha l’esclusiva di una poesia “civile” di Vasco Rossi (cioè: poesie civili erano quelle di Pasolini per intenderci). Incuriosito da tale evento, che paragonerei straordinario almeno quanto la morte di Tremonti, vado sul loro sito e leggo il poema del nostro Vascolone Nazionale. Ma che è? A mio avviso è una cosa di una retorica e di uno squallore che chiamarla poesia Montale uscirebbe dalla tomba e prenderebbe a cocci di vetro in testa chi gestisce la rivista. Un concentrato di retorica, banalità, qualunquismo di pseudo-sinistra che nemmeno nelle pagine di diario di un liceo scientifico di Latina! Allora bel bello lascio un commento all’articolo esprimendo tutto il mio schifo per tale poema. Il commento era un po’ lunghetto, ironico, acido e forse cinico. Ora non lo ricordo esattamente perché lo scrissi di getto e direttamente nello spazio apposito del sito da compilare. Fatto è che dopo meno di un minuto il commento sparisce. Forse Mozilla fa le bizze, forze Opera non connette, forse ci hanno staccato la Telecom, forse questo forse quello, insomma mi viene detto dal gestore del sito che il mio commento/monologo era “offensivo” e potevo passar guai perché offendevo il Vasco Rossi inteso come uomo (e che lo dovevo intendere come cavallo?).

“Il VOSTRO COMMENTO E’ STATO TOLTO perchè non è una vostra opinione su ciò che è stata pubblicato: non sui contenuti sulla “poesia” o non poesia di VASCO ROSSI (ognuno ha le proprie opinioni) ma CON I SOLITI LUOGHI COMUNI e I SOLITI PREGIUDIZI avete scritto una frase sull’uomo Vasco Rossi che non solo non siete in grado di comprovare ma che va OLTRE LA DIFFAMAZIONE. Abbiamo quindi cancellato perchè non solo lesiva, soprattutto per Voi, ma perchè è la solita logica, questa sì fascista, di attaccare gli uomini e non le loro opere”

Avevo immaginato nella mia testolina il Vasco intento a concepire tale opera, immerso nelle carte della sua scrivania, mentre sorseggiava una birra e tirava di coca in cerca di ispirazione, e che poi, preso dallo stimolo e dall’estro, si fosse recato in bagno con carta e penna per creare tale “emozionante opera”. Ed è offensivo? Ma lui è una rock star, cazzo! Se non lo fa lui chi deve farlo? Antonella Clerici prima di andare all’Ariston? Ma pare che scrivendo questo io poi vada a finir male, che Vasco ci rimane male e mi manda gli avvocati a casa. A me? Che arrivo a malapena a pagare l’affitto della stanza?

Beh certo le regole del sito sono chiare e scritte nero su bianco qui:  al punto 3. Poi mi sorge il dubbio e leggo i commenti degli altri utenti al servizio: plausi a Vasco e al suo testo, per fortuna qualche accenno di dissenso c’è ma poca roba, come se si avesse paura di dire che il testo è una cagata assoluta. Sono libere opinioni o sbaglio? Io credo che scrivere semplicemente “Non mi piace, puzza di demagogia” serva a ben poco, o almeno a me non soddisfa come commento, non mi svuota da quel che penso, perché qui non si tratta di commentare la poesia di uno sconosciuto come potrei essere io, qui si tratta di scrivere e dire quel che si pensa di un “simbolo” (Vasco Rossi). Qui si commenta la “cultura ufficiale”, quella che ci facciamo iniettare ogni giorno (e badate, non dico “che ci iniettano” perchè sinceramente se stiamo nella merda è perché ci piace tanto sguazzarci dentro). E allora penso che magari ce ne sono stati commenti negativi pesanti (è inevitabile) ma chissà che fine hanno fatto. La discussione continua su facebook dove il titolare del blog mi scrive: “…è come se tu scrivessi una poesia su un sito e io intervenissi sottolineando che il tuo scritto fa schifo perchè tua madre è una “xxxx”. Non ci rimarresti male? Io sì. Non esistono le rockstar, esistono gli uomini…”

Anche questo non è calzante, mica ho detto qualcosa di male alla madre di Vascolone? E poi le rockstar esistono eccome! Le creano gli uomini che vogliono fare le rockstar! E poi perché? Se io scrivo qualcosa che ti fa schifo, tu sei liberissimo di dire che mia madre è una “xxxx” (Pera? Cana? Tana? Boh!) poi saranno problemi tuoi che dovrai vedertela con mia madre ed il suo amante palestrato.

Il fatto è che secondo me ai tipi di Satisfiction ha dato fastidio che io abbia criticato in maniera surreale e cinica quell’articolo che tanto era stato spinto in rete tramite comunicati. Che poi non è che avevo scritto solo quello, ma loro sono stati gentili ed hanno cancellato il commento perchè sennò finiva che Vasco Rossi mi denunciava per diffamazione. Auhauahuahuahuah! Ma sai che je frega a lui? Ma io mi domando e dico: Tu, caro Satisfiction, mentre leggevi quella boiata di testo (che per me è una boiata) ti sei reso conto che era una cagata, vero? Perché se ritieni che è un testo denso e pregno di poesia allora io non ci ho capito un cazzo di letteratura e della vita in generale.

Ma del resto viviamo in un paese dove la cara e buona Fernanda Pivano (considerata madrina e portavoce della verità assoluta riguardo poesia, letteratura e fattanza) prima di tirare le cuoia affermò che Vasco Rossi e Ligabue erano gli ultimi poeti italiani rimasti (o una cosa del genere, se non disse testuali parole poco ci mancava). La Pivano-beat insomma mise quasi al pari la vecchia generazione di veri scrittori con i mercenari della pseudo-musica pubblicizzata dal Mollicone al Tg1 (Mollica è quel critico di “Do Re Ciak Gulp” dove tutto quello che promuove è bellissimo, emozionantissimo, stupendissimo e vale la penissima di comprarissimo). Cioè, se la Fernanda fosse vissuta altri cinque o sei anni e si fosse continuata a fare di roba buona magari rivalutava pure Nek, Ramazzotti e Piero Pelù ed oggi stormi di intellettuali avrebbero studiato, analizzato e discusso i testi di “Laura non c’è, è andata via, Laura non è più cosa mia”, magari evidenziando analogie con la metrica martelliana o la profonda angoscia esistenziale dell’amore perduto al pari di Prévert.

In finale (e concludo il pistolotto): Vasco Reds può scrivere quel cacchio che vuole (non sono di certo io a dovergli dire qualcosa e non è certo questo lo scopo ultimo del mio post) ma quello che più mi dispiace è che chi promuova la cultura in Italia diffonda, elogi e fomenti un livello “artistico” a mio avviso di bassissimo spessore, dal quale traspare il reazionario e non la stimolazione, dove la rivolta si finge moderazione, dove si macina il trito ed il ritrito e non di certo un “nuovo” che porterebbe alla crescita intellettuale del fruitore, il tutto in un contesto artistico/culturale dove la sperimentazione è schiacciata volutamente e fatica ad emergere, in quanto lo sviluppo di pensiero critico di un individuo può risultare pericoloso ai fini commerciali. Ben venga la commercializzazione delle opere, ma che almeno siano di qualità. Questo è ciò che penso. La messa è finita, andate in pace e soprattutto andate a fare l’amore con il sapone. Ora scusate ma vado a finirmi di vedere “Saw V” che devo capire chi è l’assassino.

Andrea Coffami