La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 1

Banda di scrittori fermata al confine, volevano rubare le parole al Presidente!

Così titolarono tutti i quotidiani di quel venerdì 2 ottobre 2009.

La grande manifestazione nazionale per la libertà di stampa era attesa per il giorno seguente. Si sarebbero riuniti a Roma i più importanti giornalisti, opinionisti, scrittori e intellettuali del nostro paese, che sentivano il dovere civico di denunciare una situazione diventata ormai inaccettabile.

La maggioranza degli italiani stava dalla parte del Presidente, anche se alcuni di loro se ne vergognavano un poco. Gli è che nel resto d’Europa non eravamo proprio ben visti. Insomma, a dirla tutta ci consideravano proprio dei pagliacci, sempre lì pronti a fare battutacce e a buttarla in vacca per qualsiasi cosa. La cosa bella è che anche quella che si definiva opposizione aveva finito col tempo con l’accettare lo stesso gioco, e così l’informazione era diventata piuttosto un esercizio alla diffamazione continua. Chi non accettava di stare al gioco veniva ignorato. Era questa una forma di censura assolutamente all’avanguardia, che non sprecava neanche più tempo a sporcarsi le mani con tagli o bip.

Fu per questi e altri motivi che la banda di scrittori di cui sopra decise d’intraprendere un lungo e rischioso viaggio per portare a termine un’ancor più rischiosa missione.

In verità, tutta questa storia era cominciata per un motivo apparentemente stupido.

I cinque individui, poiché tale era il numero di questi condottieri di penna, erano piuttosto squattrinati. Facevano parte di quella generazione di precari di cui tutti parlavano a mo’ di slogan, ma delle cui storie nessuno o quasi s’interessava. La loro visione del mondo era piuttosto stramba, poiché non s’erano adeguati al nuovo digitale terrestre – non si sa se per motivi ideologici o per necessità economiche – e di conseguenza si procacciavano le informazioni soprattutto in rete, quando non addirittura per strada, visto che il dono della favella non doveva certo mancargli. Pare che queste buone abitudini avessero contribuito a salvaguardare in parte le loro facoltà di discernimento, e che, spinti da un’eccessiva fiducia nello spirito di solidarietà dei loro connazionali, si fossero messi in testa di perseguire un obiettivo degno della penna del Bianciardi.

Si erano conosciuti in un quartiere romano molto alla moda tra gli artisti e gli intellettuali, dove si respirava ancora qualche refolo di quell’aria di borgata che tanto aveva ispirato Pier Paolo Pasolini. I detrattori del giorno dopo puntarono subito il dito contro questa sorta d’intossicamento culturale che ancora spingeva una minoranza a protestare, e che aveva conseguito il bel risultato di produrre un non ben noto gruppuscolo di sedicenti scrittori decisi a usare la penna a mo’ di arma. C’era chi propose di chiudere certi ambienti, fossero semplici locali o centri sociali, e chi addirittura avanzò l’ipotesi di militarizzare l’intero quartiere. Questi erano i più ingegnosi, poiché vollero far credere che in quella strada di ritrovo – detta l’isola per via della sua natura pedonale, ma anche perché circondata dalla fiumana d’auto che scorreva tutt’intorno – si fosse verificato un accumulo di cattivi pensieri, una sorta di nuvola pregna che gravava minacciosa sulle teste dei cinque. Respira oggi che respira domani, quel veleno aveva finito con l’intaccare la materia grigia degli scrittori – o scribacchini, come li appellarono alcuni – sommandosi così all’altro veleno rosso che gradivano assai. A ben vedere si trattava di una lettura piuttosto originale della teoria di Epicuro sull’aggregazione degli atomi, che influenzerebbero le nostre azioni in base al loro movimento – di cui noi saremmo dunque effetto – ma anche a vederla così non ci sarebbe stata materia di che condannarli. Insomma, questa banda di letterati aveva fatto né più né meno di quello che dovrebbero fare tutti quelli della loro specie: aveva respirato l’aria di un dissenso mormorato e se n’era fatta portavoce.

Nonostante tutto, quel sabato di ottobre sul palco di Piazza del Popolo non ci fu chi salì a parlare in difesa di questi cinque cavalieri erranti tra le righe della sintassi. Ognuno fu prodigo d’interessi per la propria parrocchia, com’è uso e costume di questo paese che impara a memoria Foscolo e Manzoni, ma che poi si perde nelle dispute sulle ricette regionali.

Le bandiere sventolarono e i microfoni fischiarono, ma non fischiò il vento né urlò la bufera mentre il Presidente reclamava le sue parole con l’uso delle tenaglie.

Simone Ghelli

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Diario di bordo – Casa del Cuculo

Grazie. Grazie. Grazie.

Non ho dormito abbastanza, ma questo malditesta è il più bello di tutto settembre. Il reading degli Scrittori Precari nel salone del Cuculo, il salone in cui suono e dormo e Gianluca impara a camminare e alle pareti le facce e i piedi e i culi dei quadri di Marcello, Marcello babbo di Gianluca pittore violinista muratore elettricista, capomastro che mi manda a prendere mattoni con la carriola per costruire panche con le travi di legno avanzate, e poi le lampadine che pendono dagli alberi e Finzioni che pende dagli alberi e il vino e la pasta al forno, Roberto Bartoli che a un certo punto azzoppa il contrabbasso e Giacomo Toni che mannaggia a lui si conferma il più grande cantautore che Forlimpopoli abbia mai partorito. Forlimpopoli sembra Paperopoli. “Da Forlimpopoli a Frigolandia” sarebbe un titolo bellissimo, dice Simone Ghelli. Anche I nudi del cuculo è un titolo bellissimo.

I vicini dicono che alla Casa del Cuculo facciamo le orge. Mia mamma dice che alla Casa del Cuculo se non c’era il babbo della Sara col cavolo che finivamo di costruire la stanza della Sara e di Bicio, la stanza che in questi giorni è un bar. I baristi non li paghiamo, i parcheggiatori nemmeno, abbiamo una rete di volontari che si accontenta di un piatto di pasta al forno. Gli artisti li paghiamo. Poco, ma li paghiamo. Perché alla Casa del Cuculo diciamo che siamo artisti, ma non ci crede nessuno. Non ci paga nessuno, soprattutto. Andate a lavorare. Fosse un lavoro, organizzare festival in cui la gente dorme in salone e scopre Giacomo Toni e gli Scrittori Precari e Fuochi e Roberto Bartoli, io mi farei assumere abbastanza subito. Ci piange il cuore a farvi pagare 10 euro, ci piange il cuore a parlare di soldi, ci piange il cuore a finire nel mirino del fucile del vicino. Poi parte la musica, e la smettiamo di parlare.

Gli altri, non lo so. Io ho fatto questo festival perché volevo – adesso uso un verbo evangelico – condividere. Ecco, l’ho detto. Condividere. Gianluca e Angelo e Simone e Luca, e poi Roberto e Giacomo e un altro Roberto e Daniele e Giuseppe e Alexa e Thea e Michele ed Enrica, Alice e Camilla e Jacopo e Charlie, io vi metterei tutti intorno a un tavolo, poi toglierei il tavolo e vi abbraccerei. Poi chiamerei tutta la gente che posso e direi:  Sentite come suonano i miei amici, guardate cosa fanno e rendetevi conto di quanto talento c’è nei loro corpi, vorrei spogliarli per farveli vedere meglio, e allora nudi, al Cuculo, I Nudi del Cuculo. Una mia amica esce dal concerto di Giacomo Toni e mi dice che ha appena scoperto il suo cantautore preferito. Ecco.

C’è il solito Tom Waits: ovunque appoggerò la testa/quella è casa mia. Casa mia è un posto dove i piedi si induriscono e un piatto di pasta si trova sempre, rimanere soli è un’impresa, nascondersi è impossibile e  sono rimaste due dita di caffè nella moka. Casa mia è casa nostra, e a casa nostra questo fine settimana c’è tanta di quella gente che non sappiamo dove metterla, e io sto davvero bene. E’ per questo che scrivo cazzate. Lunedì mattina scenderò dal letto e sarà terribile, sicuro che piove e i mattoni mi tocca rimetterli a posto nel fango. Poi dovrò inventarmi un articolo plausibile per il giornale, e scrivere di Addis Abeba per Finzioni e recensire un libro per Finzioni e il libro non solo non l’ho letto, non l’ho proprio scelto. Di cosa parlerà la prossima puntata della mia rubrica su Finzioni? Ecco, magari non ve ne frega nulla, son problemi miei. E infatti la smetto.

E’ mezzogiorno e mezza, tra dieci ore un mio amico leggerà l’Odissea in mezzo agli alberi, gli alberi che vedo tutte le mattine da due mesi, e questa mi sembra proprio una fortuna. Verrà mia mamma stasera, e mio babbo, e i miei zii, vedranno Angolo T e non capiranno nulla, mi chiederanno di andare in bagno e io dovrò a spiegare a mia zia – 60 anni, milanese, professoressa di Scienze in pensione – che il bagno del Cuculo, ecco, è meglio di no. Vai tra gli alberi, zia. Laggiù, dietro la lampadina. Se è un bisognino lungo, puoi leggerti nel frattempo una copia di Finzioni. Ecco, mia zia che si pulisce il culo con Finzioni è una di quelle turbe para-edipiche che non mi faranno dormire stanotte, e avrò malditesta pure domattina.

E’ mezzogiorno e trentacinque e gli Scrittori Precari sono di sotto ad aspettare il mio contributo alla faccenda, perché poi partono per Frigolandia. Dal Cuculo a Frigolandia. Un bel titolo. L’ho già detto Grazie? Sì, all’inizio. Tre volte. Lo dico anche alla fine. Grazie.

Simone Rossi

Casa del Cuculo, 25 settembre

Le metropoli alle spalle, ci si rigenera e si prende un po’ d’aria buona nei polmoni. Il paesaggio intorno è bellissimo e noi siamo stanchi ed esauriti, ma carichi. Sono troppi giorni che stiamo insieme, a stretto contatto. Avremmo tutti bisogno di un po’ di solitudine, di un po’ di spazio e di tempo. Mancano le ultime due serate da fare, ma possiamo cominciare a tirare le somme.

Il nostro tour è andato benissimo, un gran successo. Abbiamo portato in giro il nostro progetto, la nostra letteratura. È stata proprio una bella avventura, e non è ancora finita.

Arriviamo con un po’ di fatica alla Casa del Cuculo, tra il tom tom impazzito e Luca Piccolino che credono di conoscere la strada ma ci portano ad attraversare decine di rotonde, senza mai farci trovare la nostra. Fortunatamente chiedendo in giro alle persone, riusciamo a raggiungere la strada giusta, dove per caso incontriamo Enrica in macchina che ci scorta fino in casa dove ritrovo il mio caro amico Simone Rossi. Baci e abbracci quando ci rincontriamo. Ci raccontiamo un po’ di cose, ci organizziamo, si mangia, si beve vino e poi finalmente giù nella sala del reading. Pubblico numeroso, una quarantina di persone, attentissime. Zab non è in forma, sembra preoccupato, non legge come al solito, ma conquista come sempre il pubblico. La serata continua con un doppio concerto, Roberto Bartoli, un contrabbassista eccezionale, e lo spettacolare cantautore Giacomo Toni. Una splendida serata.

Dopo il concerto, una decina di musici improvvisano una jam session. Ma io avevo bevuto troppo vino, che accumulato alla stanchezza ed al freddo, mi avevano fatto addormentare. E sono andato a letto. Contento. Contentissimo.

Prossima tappa, l’ultima, a Frigolandia, da Vincenzo Sparagna, uno degli ultimi intellettuali italiani veri che ci sono rimasti.

Curiosità, abbiamo conosciuto una ragazza che era sia qui che a Bologna, allo Zammù. Una fan? Ma che! Non è purtroppo riuscita a sentirci nemmanco una volta…

Gianluca Liguori

La provincia e i piccoli centri in genere mi hanno sempre dato migliori emozioni.

La mia esperienza letteraria si è sempre svolta per la maggiore nella mia città e, al massimo, in altre città, come quelle che abbiamo visitato in questo nostro primo tour insieme. Ma, a volte, i grandi agglomerati urbani disperdono l’interesse delle persone ed è normale. Ci sono tante di quelle cose in giro che è anche difficile sapere che ci sono, chiedo venia per il miserevole gioco di parole.

Penultima data dunque.

Il posto dove leggeremo si chiama Casa del Cuculo e non è un locale. E’ uno splendido casale nel cuore della Romagna, dove un gruppo di operosi promuove iniziative e progetti.

Siamo accolti da volti sorridenti e modi gentili. Da lasagne e Sangiovese

Il luogo del reading è uno stanzone grande con tappeti a terra e uno splendido camino. L’acustica è perfetta così, non occorre microfono.

C’è un bel po’ di gente. Iniziamo a leggere. Il buon Simone Rossi ci accompagna con la sua chitarra e quello che vien fuori, a parer mio, è una bella lettura. Mi è sembrato di capire che i presenti fossero dello stesso avviso.

Poi, dentro e intorno al casale, ancora musica, spettacoli, ancora un po’ di vino e chiacchiere.
Il subcomandante Liguori, mentre eravamo in viaggio aveva detto: “Sono troppi giorni che stiamo insieme, siamo scrittori e succede che ci manca quell’isolamento che ci è necessario!”. Aveva parlato così perché io e il Ghelli continuavamo litigare (chiaramente non sul serio).

Però quelle sue parole un fondo di verità lo avevano.

Stiamo da dio insieme. Non solo ci divertiamo, cresciamo giorno dopo giorno come collettivo. Ci uniscono gli intenti, l’attitudine, il cuore e l’amicizia. Le idee vengon fuori naturali e non vediamo l’ora di condividerle e migliorarle insieme. Questo per dire che non fa discutere il desiderio di isolamento che a volte prende uno di noi.

Questo è il posto adatto. Il luogo che serve a riordinare quel che ci frulla in testa.

Così il Ghelli sparisce, Zabaglio e Liguori mi dicono che non hanno idea di dove sia. Poi anch’io mi allontano da loro per disperdermi a mia volta.

Luca Piccolino

E’ la terra del bianconiglio. Io non ho la testa per scrivere il diario. Non li ho mai scritti. La fantasia mi ha sempre salvato dalla realtà. Non troviamo la strada per il “Nudo del cuculo”. Chiediamo indicazioni ad un tronco di “generico albero”. Il buon uomo di legno utilizza i rami come fossero braccia e dita. Siamo in auto ancora quando una Punto cade dal cielo con dentro gli organizzatori del festival che ci ospiterà, due ammortizzatori schizzano via colpendo il vetro della nostra macchina. Arriviamo all’enorme casale sulle montagne, un’aria che mi rigenera. Gli atomi verdi e gialli penetrano come formichine nei pori delle pelle. Il frikkettonismo avanza. È un aquilone colorato che rimane in cielo anche senza vento. Nel locale c’è una grande scimmia con uno spazzolino tra le mani che continua a fissarmi. Il suo pelo è immobile e marrone. I suoi occhi sorridono. Rivedo la Tostoini che di solito leggo solo su msn ed ora sta parlando ad una vespa dicendole: “Vai via, non mi piaci, vai via”. Qui il verde è accogliente, le anime buone sorridono e mi trovo stranamente a mio agio nella mia svogliata non voglia di sorridere. Entriamo nella grande stanza dove dovremo leggere, la gente si siede, noi iniziamo le letture, le mie parole si fondono con le note di Simone Rossi alla chitarra. Il pubblico ci ascolta e sorride. I loro sorrisi mi danno gioia per qualche minuto. Ridere è sovversivo. Ma oggi mi sento un reazionario.

Andrea Coffami

Stamani mi son svegliato col culo di traverso, come si dice dalle mì parti, perché gli altri dormono come orsi e io mi rompo ad aspettare. Piccolino se la prende con me perché ho lasciato la finestra aperta e gli s’è incriccato il collo, poi attacca un pippone sulla storia della musica. Anch’io son d’accordo che a toglie Springsteen non si farebbe torto a nessuno, ma gli faccio notare che col suo metodo rischiamo di tenerci solo i Beatles.

Ci lasciamo il cielo grigio di Milano alle spalle che è già ora di pranzo, e così al primo autogrill mi ritrovo con Zab a riempire una baguette coi salamini in saldo proprio come all’andata.

La Casa del Cuculo è un posto splendido in mezzo alle colline romagnole, ma prima di arrivarci giriamo decine di rotatorie, alla ricerca di quella di Forlimpopoli col busto di non so chi, e finiamo in una strada sterrata tra cani incazzati e vigneti deserti e col Liguori che fa il pilota di rally suo malgrado. L’accoglienza ci ripara però abbondantemente di tutti i chilometri fatti: si mangia e si beve in una cornice da Decameron, poi scendiamo in un salone allestito appositamente per noi, dove leggiamo tra un pubblico attento seduto in mezzo a tappeti ed arazzi. All’uscita ci attendono altri spettacoli, così mi lascio cullare dalle note di un contrabbassista che si dimena sotto al cielo stellato, e poi da quelle di un bravo cantautore che cita anche Piero Ciampi in una canzone dedicata al nord est: Andare, camminare, lavorare, ma stasera ci fermiamo un po’, che stasera ci sentiamo veramente a casa….

Simone Ghelli

Precari all’erta! – Resistere o reagire?

L’intervento della settimana scorsa ha dato vita a una serie di risposte che si sono sviluppate su facebook e su alcuni blog, ad esempio su Clobosfera e su Vaghe stelle dell’Orsa .

Si tratta di un effetto di non poco conto, che dimostra l’importanza e l’impellenza del problema sollevato, ma che ha generato tutta una serie di riflessioni ad esso collegate che in alcuni casi rischiano di creare un po’ di confusione.

Si è parlato di fuga di cervelli all’estero, di artisti e intellettuali incompresi, della nostra tradizione di migranti, ma un punto mi ha colpito più di tutti: la mancata reazione da parte di un paio di generazioni (tra cui la mia) alle quali le ultime classi dirigenti hanno praticamente rubato il futuro. E’ la generazione che usiamo definire dei precari, di chi si è ritrovato con la laurea in tasca (e a volte anche il dottorato) a dover scegliere tra la fuga verso un paese migliore e la prospettiva di rimanere in Italia a fare il primo lavoro che capita, che spesso non ha niente a che vedere con l’istruzione acquisita e le esperienze precedentemente maturate.

Ciò che balza subito agli occhi è un senso diffuso d’insoddisfazione, che però molto raramente produce prese di posizione o azioni atte a modificare la situazione esistente.

Tanto per fare un esempio, chiunque può andare sui siti delle varie università italiane e constatare che continuano a fioccare i cosiddetti insegnamenti a contratto, molto spesso gratuiti o con un corrispettivo di poche centinaia di euro. Bisognerebbe avere la forza di dire di no a simili proposte, che sono dei veri e propri ricatti propinati con l’illusione di poter costituire un accesso privilegiato ad altre posizione. Bisognerebbe poter dire di no, ma i più accettano perché non ci sono alternative, e per qualcuno pronto a dire di no ci sarà sempre una nutrita fila di altri pronti ad accettare, così come ormai accettiamo la prassi del master e dello stage dopo la laurea, con la conseguente prospettiva di non entrare effettivamente nel mondo del lavoro (quello che ti paga e ti permette di costruirti qualcosa di tuo) prima dei 30 anni.

Eppure, a ben vedere, di questa generazione precaria se ne è parlato e se ne parla non solo in internet, ma anche tra le pagine dei libri o nelle immagini di alcuni film e documentari nostrani. Insomma, non è certo l’informazione a mancare, quanto piuttosto una presa di coscienza collettiva, una reazione che non si limiti all’indignazione individuale. Ciò che appare anomalo è l’anaffettività generalizzata che caratterizza il nostro paese da almeno un ventennio, e che è il frutto di più cause convergenti che hanno avuto l’effetto di allontanare le nuove generazioni dalla sfera del politico. Un allontanamento che si è tradotto da un lato in totale insofferenza e disaffezione verso la politica, dall’altro in un’adesione passiva al sistema della delega (sistema rafforzato dalla complicità di gran parte degli organi d’informazione). Il risultato è che l’Italia è diventata oggi un “paese per vecchi”, e di conseguenza disinteressata a coltivare un qualsivoglia interesse per la ricerca, l’istruzione o la cultura.

Una minoranza, quella dei precari, che per resistere deve trovare nuovi modi di organizzazione e di trasmissione del sapere e delle competenze acquisite nel corso degli anni. Il dibattito in rete può essere un buon inizio, ma è necessario che esso prenda corpo nelle azioni di tutti i giorni, che non si fermi insomma allo sproloquio.

E’ soltanto attraverso l’individuazione di un terreno comune che la resistenza (di chi ha deciso di rimanere) può trasformarsi in reazione, nella creazione di un’alternativa a un sistema in cui, nel migliore dei casi, possiamo sperare di sopravvivere tra mille rimpianti.

Simone Ghelli

Precari all’erta! – Me ne vado da quest’Italia…

Ecco che anche il Ghelli si mette a scrivere di vacanze estive e pettegolezzi annessi, penserete voi, allo stesso modo di tutti i tg nostrani, che soprattutto di questi tempi riempiono mezzo telegiornale di notizie utili solo a non parlare d’altro.

E invece vi sbagliate, perché voglio qui riprendere un’intervista rilasciata da Francesco Bianconi, cantante dei Baustelle, e che rilancia il tema dell’esilio volontario, già cantato nella nota Mamma Roma addio del poeta Remo Remotti.

Quanti di noi non c’avranno pensato almeno una volta a mandare a quel paese il bel paese, che di tanti sforzi sembra non curarsi affatto, che della cultura guarda solo il tornaconto economico e il lato spettacolare, che parla sempre dei soliti noti, che si tratti di cinema, musica o letteratura? Io ci ho pensato tante volte, e a volte ancora ci penso, ma ciò che puntualmente mi fotte è uno sorta di malsana testardaggine che m’impedisce di arrendermi all’idea che questo paese non lo si possa cambiare. A pensarla così c’è da ingoiare tanti bocconi amari, da farsi un fegato grosso come un cocomero insomma, ma non va per questo commesso l’errore di considerarsi dei martiri. In fondo, chi l’ha detto che le persone abbiano bisogno dell’arte, della cultura o del pensiero degli intellettuali per vivere felici e contenti? Spetta semmai agli artisti e agli intellettuali il compito di far sentire questa necessità, e l’unico modo per farlo è il duro lavoro, l’ostinazione di una vita, la voglia di votare il proprio sé all’idea utopistica di una comunità che possa cambiare anche attraverso il proprio fare.

Con questo non voglio dire che la scelta di andarsene via sia in sé più facile o più comoda, ma la trovo una scelta pericolosa per il futuro di chi ci succederà, perché un domani potrebbe sempre peggiorare anche il nuovo posto che avremo trovato, e poi tutti gli altri, finché non ve ne sarà più neanche uno. Quello che penso, e che ritrovo in qualche modo rappresentato dal progetto Scrittori Precari, è che oggi sia necessario più che mai ripensare i modi della partecipazione – a cominciare dalle possibilità che ci offre la rete – e, insieme a questi, i modi di sentirsi riconosciuti.

Io non mi riconosco in quest’Italia di nani e ballerine, di truffatori, di corrotti, di puttanieri, di razzisti, di analfabeti, ma proprio per questo non me ne voglio andare, anche se ci sono tanti posti migliori, oggi, dove poter vivere.

È una forma di rispetto verso chi ci ha preceduto che mi costringe a resistere, a non adeguarmi, ma se un giorno dovessi rendermi conto di parlare al vento, allora quello sarebbe il giorno in cui prenderei le mie cose e me ne andrei.

Oppure no, perché magari ci sarà da ascoltare il pensiero di chi è rimasto, che avrà senz’altro da dire cose più intelligenti del sottoscritto.

Ecco perché vi chiedo di non andarvene.

Simone Ghelli