Cinque immagini cinesi

di Francesco Terzago

Guangzhou. Circa 12.000.000 di abitanti. Un’ora di battello la separa da Hong Kong, il campus universitario è raccolto in un’isola a venti minuti di taxi dal centro cittadino, sono poco più di 400.000 le persone che ci vivono, tra studenti, docenti, personale amministrativo, polizia e abitanti dei villaggi; quasi due volte la città di Padova. Siamo nel distretto del Guangdong, siamo nella Fabbrica del Mondo.

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Le undici e un quarto. Da alcuni secondi il motivo degli zufoli2 non sta più risuonando. Al terzo piano la coda per prendere l’ascensore è lunga una decina di metri. Stanno tutti scendendo, arrivano da ogni ballatoio e aspettano di entrare nella cabina d’acciaio, così anche i ballatoi stessi si riempiono. Quando prendo le scale scopro che sono vuote, sono ampie e ventilate, quelle di un’edilizia pubblica di un clima sub-tropicale. Una volta uscito dalla struttura la fiumana di persone è qualcosa a cui non si può resistere: stanno tutti andando nella stessa direzione che per fortuna è anche la mia. Dopo una ventina di metri vedo sulla mia sinistra l’accesso a uno dei cortili interni, riesco a raggiungerlo e a entrarvi; ora sembra di stare fuori da un acquario dove fino a pochi secondi prima si era in sospensione, in balia degli altri corpi; qui i pescivendoli tengono tutte le bestie vive schiacciate le une sulle altre, intorpidite dall’ipossia. Procedo in mezzo a questi palazzi azzurro cenere, tra giardinetti e ficus continuo a fiancheggiare la strada dove fino a poco prima mi trovavo: sono giovani tra i diciotto e i vent’anni, le ragazze si proteggono dal sole sotto a piccoli ombrelli bianchi. Raggiunta la piazza mi dirigo al giardino che la taglia in due come un ponte verde posto tra il complesso di palazzi dove mi trovo a quello dove devo andare. A pochi metri da me, sulla destra, la strada è ora più ampia, adesso è una folla a gonfiarla, a colorarla, zainetti verde elettrico, maglie da basket che ritraggono gli eroi NBA degli anni ’90, leggings rosa shocking. Solo a questo punto si fa vivo in me il pensiero che Leggi il resto dell’articolo

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REPETITAHITI IUVANT *

Paul, quel Paul, s’era trasferito a Mataiea, piena Polinesia Francese, al termine d’una carriera costellata di successi, se te la racconto non ci credi: l’attacchino sterratore diventato uno dei più ricercati pittori di frànza, grande tra i più grandi, stronzo tra i più stronzi. Uno che ti faceva perdere le staffe con un nonnulla, Paul, ròba da rincorrerlo per la strada con un rasoio in mano, Paul falla finita non farmelo ripetere, e poi tornarsene a casa in catalessi, guardarsi allo specchio e riconoscere che sì, è forte, Paul, ma che nervi, prima di tranciarti di netto l’orecchio, uno dei due, non importa quale, Vinz.

Paul e Piripi, il suo omologo tahitiano, sono mica troppo diversi: guardali col pareo legato in vita, non gliela leggi negli occhi la voglia di vita, di sole, di carne fresca? Siate felici! Siate innamorate! I più ambiti di Mataiea tutta, Paul e Piripi, le ragazzine carne di vulcano e capelli di pece li rimirano con gl’occhi di perla nera, e sospirano, col fuoco dentro.

Tehura, tredici anni e pelle tesa come quella dei tamburi rituali, lessa di Paul; Kiri, corteccia di palma sinuosa, di Piripi. Delle gran risate, nèvvero? Kiripirìpi, Kiripirìpi, Kiripirìpi, ripetilo più volte, fa bene al cuore ed aiuta a ricordarseli come una comunione di tropicali innesti. A Paul, Paul Gauguin, piacevano tanto, gli innesti. Anche quelli con le palme sinuose. Ma a Piripi, a Piripi non ditelo.

Per dipingere Tahiti aveva capito che l’avrebbe dovuta conoscere a fondo, Tahiti. I suoi riti, i suoi miti. I suoi fuochi, i suoi giochi. Le danze, le panze.

(Paul Gauguin, Miraculous Source, 1894)

Chiese a Piripi: insegnami. E Piripi gl’insegnò.

Gl’insegnò ad apprezzare la danza otea, gl’ancheggiamenti ed i colpi di remo mimati. Financo ad interpretarla. Erano gran sgamuffloni ad ogni errore: le mani, non così. Riprova. I piedi dritti. Riprova. Riprova. Fa bene al cuore.

Gl’insegnò a correre con ananassi del peso d’un uomo legati su un bastone di bambù, quattro volte la spiaggia avanti e poi indietro, caduto un ananas? Da capo, riprova. Male non fa.

Gli spiegò le regole astruse di quel giuoco importato da malaticci marinai inglesi, che arrivavano con lo scorbuto e se ne tornavano con la sifilide, che gl’indigeni avevano digerito col nome di fubò e consisteva nel calciare una palla di pelle di capra nell’interstizio tra due banani, passandola l’un l’altro come veniva, pennellando arcoidali traiettorie nei cieli ocra al tramonto. Piripi, da gran cerimoniere, si muoveva tra i contendenti fermando il gioco quando ai bordi del campo si creava un drappello di dodicenni incuriosite. Siate felici! Siate innamorati! era il rompete le righe. Nelle capanne nessuno più pensava al fubò.

Piripi Ariiotima, il lungagnone amico di Gauguin, dicevan tutti avesse dei poteri straordinari. Il fecondatore celeste, lo chiamavano. Otto figli, stirpe che sventolò alto il vessillo, ognuno di loro altrettanti, otto per otto sessantaquattro e la metà avvocati, giudici, sacerdoti, santoni, gente abituata a soppesare la bilancia della giustizia. L’ultimo, Charles, arbitro di fubò.

Perché poi la corsa cogl’ananassi c’è diventata mica, disciplina olimpica, e neppure l’innesto di palma, men che meno l’inseminazione di polinesiana, mentr’invece il fubò sì, ed un bel giorno han chiamato a partecipare all’orgia olimpionica, come arbitro s’intende, anche Charlie Ariiotima da Tahiti, potete crederci?, uno che agl’esordi non sapeva neppure come s’usasse, il fischietto. Lo portava alle labbra, e insufflava aria. Niente. Riprova. Niente. Riprova. Niente. Riprova. Niente. Riprova, che repetita a Tahiti iuvant (imparò prima lo scioglilingua, che a fischiare).

Ora: succede che a Charlie Ariiotima affidino la conduzione di Serbia-Tunisia, o Tunisia-Serbia, fa lo stesso, tanto si gioca in Grecia, sotto l’ala protettiva di motti decoubertiniani.

Lui si presenta in giallo, come il cristo in croce di Gauguin, tutto bello pettinato. Passa quasi tutto il primo tempo senza un sussulto, poi Clayton, un brasiliano che s’è votato alla mezzaluna, porta in vantaggio i maghrebini. Charlie indica il cerchio del centrocampo. Sembra quasi bravo. Finisce il primo tempo, c’è un caldo boia, sembra di essere a Tahiti, al centro del fuoco intorno al quale si balla la otea. Inizia la seconda frazione di gioco, Serbia agguerrita e Montenegro di più, Milos Krasic, il biondo caschetto di Milos Krasic pareggia, la Tunisia in vantaggio con Clayton e la Serbia che pareggia con Krasic, l’ho già detto? Repetita etcetera, etcetera.

Poi, all’ottantaduesimo minuto, l’ala sinistra dei rossi cade a corpo morto all’interno dell’area serba, vedi tu se non ha in serbo una sorpresa, Ariiotima: calcio di rigore. A dieci minuti dal termine, calcio di rigore. Come gli arbitri veri.

Va sul dischetto, a dieci minuti dal termine, quando Ariiotima assegna un calcio di rigore, Jedidi.

Tahiti. Jedidi. I segni del destino. Le assonanze. Jedidi. Tahiti.

Rete. Le corse, i festeggiamenti. Charlie dice no. Qualcuno è entrato in area, spiega. Ritenta.

Rete. La gioia, il giubilo. Charlie dice no. Qualcuno è entrato in area, argomenta. Ritenta.

Rete. I sospiri, il sollievo. Charlie dice no. Qualcuno è entrato in area, mormora. Ritenta.

Parata. Il portiere si esalta, gran pacche sulle spalle. Charlie dice no. Qualcuno è entrato in area, sbraita. Dei nostri? chiedono i tunisini increduli. Dei loro, risponde Ariiotimi.

Parata. Charlie dice no.

Non ve lo dico, come è andata a finire.

Per quel che ne so io, Jedidi potrebbe essere ancora là a tirar rigori.

E Charlie a dire No, ritenta.

Ripetere, dopotutto, male non ha mai fatto a nessuno.

 Fabrizio Gabrielli

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