luglio 22, 2009
di scrittoriprecari
L’ambiente, intorno a me, era illuminato appena. Questo faceva sembrare tutto un poco più cupo e misterioso.
Il mio lavoro era semplice.
Si trattava di sgomberare l’intero sotterraneo di un palazzo.
I sei livelli sopra di me erano uffici di una banca.
Per decenni quel sotterraneo era rimasto in disuso, utilizzato solo come magazzino per qualche vecchio mobile, materiale di scarto derivato dalla costruzione dell’edificio stesso e ciarpame vario.
Ma con l’arrivo di un nuovo direttore, si era deciso ad un ampliamento di organico e alla conseguente ristrutturazione di quel gigantesco ambiente da adibire a nuovi uffici.
Queste cose me le aveva spiegate Ennio.
Ennio era il capo.
Un uomo di mezza età che aveva chiamato una decina di disperati per quel lavoro faticoso e mal retribuito.
Stette a guardarci per un paio d’ore.
Quando fu sicuro di aver trovato gli uomini giusti si assentò, ritornando poi a sprazzi per impartire qualche ordine ad ognuno.
Era abbastanza grasso ed unto per fare schifo.
Anche se in realtà non conosceva nessuno di noi si permetteva di mandarci a fanculo e fare battute di bassa lega.
La fede d’oro, che portava sull’anulare sinistro, dimostrava che era sposato ed ipotizzava che quell’uomo fosse stato in grado di riprodursi.
Il sotterraneo era un luogo malsano.
Non c’era pavimentazione ma uno strato spesso di polvere rossastra. Materiale di scarto edile, appunto. Una polvere fine che si sollevava ad ogni passo.
Avevo già fatto lavori del genere in momenti come quello. Cioè quando ero a corto di soldi.
Proprio per via della mia esperienza, avevo pensato bene di portare con me una maschera antigas che avevo avuto in dotazione da un capo molto più affabile di Ennio, una volta che avevo fatto un lavoro simile.
La mia maschera antigas era un attrezzo di gomma e plastica con due filtri sulla parte anteriore che depuravano l’aria che respiravo fermando i vapori e le polveri nocive e dando alla respirazione il rumore sibilante di un soffio costante. Sulle mani avevo dei guanti pesanti di cuoio ma il resto del mio corpo non era protetto e alla pelle tesa e sudata delle mie braccia, si attaccava sporcizia volatile dal colore scuro.
Un paio di altri operai italiani avevano portato con loro delle maschere. Un altro aveva legato un fazzoletto alla la faccia illudendosi così di salvarsi l’apparato respiratorio.
Gli altri operai, probabilmente romeni, non usavano nessuna protezione. Respiravano, lavoravano e sputavano catarro nero di tanto in tanto.
Caricavamo su un camion quello che portavamo fuori. Il tutto poi, sarebbe andato a finire in discarica.
Ero nel lato più buio del locale.
Seguivo con lo sguardo lo svilupparsi sempre più oscuro del luogo dove mi trovavo. Per capire dove mettere i piedi.
Vidi a terra qualcosa.
Due gambette scheletrite e piegate.
L’impressione fu immediata. Un feto.
Mi avvicinai per constatare quella che poteva essere la scoperta più macabra della mia vita.
Era un gatto morto.
Non so dirlo con certezza, naturalmente, ma credo che fosse rimasto lì da più di un decennio.
I vermi avevano terminato il loro lavoro da tempo.
Ciocche di pelo grigie erano rimaste alternate sul corpo che per la maggiore era coperto da una patina bianca abbastanza spessa, forse muffa.
Il pelo era rimasto quasi per intero sulla testa.
Mi colpì come quel muso avesse ancora, nonostante tutto, l’espressione tipica del gatto.
Sembrava, a vederlo, che fosse morto serenamente.
In piccole parti, sul collo, era sopravvissuta una pelle dall’apparenza indurita. Una cotenna di muscoli fibrosi.
Finii il mio lavoro in quel punto, in compagnia di quel micio che mi guardava senza occhi.
Forse non era il caso di lasciarlo lì.
Forse avrei dovuto seppellirlo.
E perché non metterlo in un sacco e buttarlo semplicemente?
Il feto che avevo creduto di vedere. Quello si avrebbe meritato una sepoltura.
Mettersi a scavare per un gatto vissuto chissà quanti anni prima.
Valeva la pena?
Avevo sentito dire che non c’è anima negli animali.
Erano in tanti a sostenerlo. Lo dicevano anche i preti.
Alla luce di ciò quel gatto era degno di andare a finire nella mondezza, insieme al resto.
Era però da un bel po’ di tempo che non credevo più ai preti.
E mi solleticava maggiormente l’idea misericordiosa di porre un semplice rispetto per quel che non era più. Senza distinzione di specie.
Lo lasciai lì.
Avevo ancora molto da fare ed il sudore mi accecava gli occhi.
Passarono le ore e continuai il mio operato, impegnando ancora la testa in ragionamenti che sarebbe meglio lasciar tacere.
Non era facile infilarsi nelle maglie delle domande e dei dubbi e contemporaneamente far bene il proprio lavoro.
Ma vi riuscii.
Tutto il sotterraneo era sgombro.
A terra, rimanevano solo piccoli frammenti di vetro, plastica ed altro.
Ennio era soddisfatto.
Gli chiesi :” E adesso? Come andranno avanti i lavori?”
Mi rispose secco:”Domani arrivano con un paio di bobcat che appiattiranno il suolo, in modo da inglobare in esso quei pezzetti che noi abbiamo lasciato. Poi ci sarà la gettata di cemento che coprirà tutto!”
Dopo le parole di Ennio mi rimisi la maschera, presi una pala e rientrai nel sotterraneo.
Ne riuscii poco dopo con adagiati sul palmo di quella vanga, i resti di un gatto morto.
Poi presi a scavare in un’aiuola.
Era tardi e gli uffici erano chiusi ormai.
Nessuno mi avrebbe visto e avrebbe avuto a protestare su quello che stavo facendo.
Depositai il gatto sul fondo della buca e ricoprii il tutto.
Ennio ed uno dei romeni, mi osservavano parlando e ridacchiando.
Poi presi i soldi che mi spettavano e me ne andai.
Luca Piccolino
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