Confessioni qualunque extended – 2

[Confessioni qualunque, la rubrica curata dai ragazzi di In Abiti Succinti, si apre anche ai lettori. Questa settimana un racconto di Arturo Dalì. Confessatevi anche voi! E poi inviateci i vostri racconti, le vostre confessioni più nascoste!]

extended #2
Peppino

di Arturo Dalì

Che resti tra noi.
Certe volte non ho scelta.

L’occasione spesso è un attimo, e se ti sfugge, addio. Non è che puoi stare a ragionarci, bisogna farsi trovare pronti. Stamattina ero al supermercato, un euro e trenta in tasca e fame e caldo e debolezza e ho pesato due susine e una banana mentre infilavo nella borsa due banane e una susina. Volevo rubare pure una birra, ma ho notato un tipo che mi seguiva; l’ho osservato meglio, sembrava mettere nel cestino prodotti a casaccio. Era vestito troppo bene, però; quelli della sicurezza non portano la giacca né la catena d’oro al collo, ma era meglio non rischiare e filare. Quello però mi a seguiva a distanza e mi fissava. Così, quando ho poggiato la frutta sul rullo, mentre ricontavo l’euro e trenta, mi si è accostato come per dirmi qualcosa all’orecchio, e vi giuro, allora ho pensato davvero che si trattasse di uno della sicurezza. Già immaginavo le solite rotture, paternali e minacce di quando ti beccano. E invece il tipo Leggi il resto dell’articolo

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Abusi di dovere

[Racconto di Gianluca Liguori pubblicato in precedenza su TerraNullius]

Alle prime luci dell’alba Saverio si leva dal letto dimentico della giovane ragazza bruna che giace nuda al suo fianco. Gliene portano tante, è un viavai di malefemmene, come è solito nominarle. Nemmeno sa se gli piace davvero o lo fa ormai per abitudine. E Saverio, che è un signore, sa che deve, pure quando gliele portano, regalare qualcosa a queste ragazze di cui non ricorda mai i nomi. Questa qui, per esempio, gliel’ha portata ieri sera il dottor Calcepolli, hanno cenato insieme, bevuto due bottiglie di Nero d’Avola, una riserva speciale, un vino che gli rammentava l’odore amaro della sua terra, e poi Calcepolli ha pagato il conto e se ne è andato.

I telefoni di Saverio, da prassi, squillavano di continuo: gli avvocati, chi vuole qualcosa, chi chiede un favore, chi deve dei soldi, chi esige e basta. Appuntamenti su appuntamenti. Persone, incontri. Saverio non usa l’agenda, Saverio tiene tutto a mente. Perché le agende sono pericolose, dice Saverio, le agende sono la prima cosa che prendono i ficcanaso. E Saverio non vuole rogne, Saverio li detesta, i ficcanaso. Saverio fa gli affari, lavora 25 ore al giorno, risolve problemi alla gente, agli amici, agli amici degli amici. Saverio deve dar di conto pure alla famiglia, un altro motivo per cui è meglio tenersi alla larga da rogne e ficcanaso. Saverio è da sempre un gran lavoratore, altrimenti, dice, non sarebbe arrivato così in alto. E gli piace il potere, gli piacciono le cene con gli ospiti che pagano il conto e portano la bella ragazza per la notte. È questa la vita, pensa spesso Saverio, vino, potere e belle donne. Pure che poi la mattina, al risveglio Leggi il resto dell’articolo

Bruci la città #2

[Continua da qui]

Io a volte vedo delle cose che ci rimango male all’idea che le vedo. Che poi, non è che proprio le vedo, più che altro me le immagino, ma me le immagino in maniera così vivida che mi fa paura la mia stessa capacità di immaginarmi cose del genere.
Una volta, per esempio, qualche anno fa stavo assieme a una ragazza che era proprio carina, e non era male nemmeno di testa. Un giorno però, mentre prendevamo una cioccolata calda in un bar, mi venne in mente un modo di dire che si usa dalle mie parti, che sta a significare che c’è un’età in cui le ragazze sono belline, ma poi si sformano. C’è un’età in cui le ragazze hanno la bellezza dell’asino, si dice, che finché regge, regge, ma poi si sgretola e allora si capisce se la ragazza è veramente bella, oppure no. Ricordo che mentre mi pulivo i baffi dalla cioccolata, rimasi un paio di secondi a fissarla e non era più come era sempre stata. La vidi improvvisamente deforme, picassiana. I suoi occhi si tramutarono in Leggi il resto dell’articolo

Carta taglia forbice – 7

[Continua da qui]

Una grande città lontana dall’Europa occidentale

Lui.

Mi chiamo Michael, questo messaggio è per tutti quelli che si sono visti morire. Io conosco la morte e so che ha a che fare con l’amore e con il sesso e con la merda. Io conosco Bataille, ma ultimamente non riesco più a leggerlo. Mi fa cacare.
L’ultimo giorno di due anni fa ho calpestato una manciata di formiche che disegnavano una linea su due mattonelle del pavimento. Le ho calpestate con i piedi nudi e i corpicini minuscoli, quelle carcasse rigide come caccole, mi si sono attaccati alla pianta del piede destro, soprattutto, ma anche a quella del sinistro Leggi il resto dell’articolo

La barba bianca

Io lo sono stato Babbo Natale, moltissime volte. Quasi tutte.

Ma non per questioni economiche, macché: per passione. Pura passione. Non credo che tutti conoscano il vero significato della parola “passione”, ma la passione (scusate se mi ripeto, ma spesso è importante ripetere parole-chiave) è quell’elemento, forse l’unico, che può rendere qualsiasi esistenza significativa e degna di esser vissuta, fino in fondo, dall’inizio alla fine, se mai ci sarà.

Io mi sono sempre accontentato di poche cose, una tra queste è l’interpretare Babbo Natale. Quando divenni più grandicello rimasi colpito nel vedere gli spot della Coca-Cola in televisione. In casa avevo un piccolo televisore dallo scheletro arancione, che in compenso trasmetteva in bianco e nero. Per fortuna i cartelloni pubblicitari in città erano colorati. Il rosso del costume, il bianco della barba, colori che si abbinavano perfettamente anche al mio stile di vita. Rosso come la passione, bianco come il candore. Sfruttai quindi l’ingegno creativo dei talentuosi pubblicitari alle prime armi che inventarono quell’abbinamento, quel costume ormai divenuto un logo da generazioni, come il crocifisso, il presepe, la svirgola della Nike, il coccodrillo della Benetton. Lungi da me far polemica su queste questioni, sia chiaro. Io amo tutto ciò che deforma il pensiero delle masse, quindi è ben inteso che scrivo queste cose con il tono di chi si rallegra di tanta abbondanza di virus necessari.

Ultimamente però le cose sono cambiate parecchio: il ricordo ancora è nitido come fosse stato ieri. Quel bambino che salì sulle mie ginocchia era un occhialuto cicciottello che non avrebbe sfigurato in un film di Fellini. Maglietta aderente a strisce orizzontali chiare e scure, occhiali che affondavano nel viso paffutello, capelli cortissimi, sudore sulla fronte (sebbene sia stato dicembre) e un alito di scarafaggio morto, misto yogurt alla pesca. Secondo me fece pure una puzza per l’emozione, di quelle silenziose e pestilenziali, che ti viene il dubbio che non sia qualcosa di peggio.

Io avrò avuto ventidue anni, lui cinque, ma una volta sulle mie ginocchia capii che pesava molto più di me. Ma non era fastidioso, la sua ciccia era quasi rilassante.

«Ma tu sei un ragazzo, tu non sei Babbo Natale, tu sei il figlio di Babbo Natale,» mi fece lui con aria da saputello.

«Sono il sostituto, cosa credi, che siano veri i babbi Natale che stanno nei supermarket?»

«Lo sapevo,» disse il bambino con aria saccente.

«Cosa vuoi per regalo?»

«La macchina telecomandata senza fili».

«Vedrò cosa posso fare,» e detto ciò gli diedi un colpetto sulle cosce, invitandolo ad andar via.

Ci volle un piccolo sforzo da parte sua per ricadere a terra. Mi salutò dandomi un bacio sulla guancia. Un bacio paffutello come lui, come a scusarsi del tono che aveva avuto. Ci voleva ben altro: rimaneva uno stronzetto cicciottello viziato.

Ai tempi indossavo una barba finta, di quelle spudoratamente false e grottesche, altrimenti non avrebbero riconosciuto le sembianze di Babbo Natale. Ma ora la barba bianca è vera, la lascio crescere da maggio/giugno debitamente per l’occasione, poi, una volta arrivato gennaio, mi rado e mi trasformo in Alfredo, commesso in un discount con contratto che si rinnova ogni sei mesi.

La mia passione con gli anni non si è affatto affievolita, al contrario, è aumentata in maniera esponenziale. Saranno quanti anni da allora? Ho perso il conto.

Questo dicembre ho sei centri commerciali dove potrò esibirmi: vado forte, una vera pacchia. Fino all’anno scorso al massimo ero in due supermercati, anche se sono sempre stato il migliore, è inutile fare i modesti, sono il miglior Babbo Natale che esiste sulla piazza, tutti gli altri sono solo imitazioni riuscite male. Ci sono voluti Dio solo sa quanti stracazzo di anni perché la gente se ne accorgesse.

I miei spettacoli sono veri, non c’è niente da fare: si vede quando uno dentro ha la passione. La maggior parte degli altri babbi Natale fa trasparire la voglia di denaro, la disperazione economica che hanno in corpo e nelle vene, il fattore economico che li spinge a mascherarsi, e tutto questo il bambino lo avverte. Come quando una madre incinta è nervosa ed ansiosa, ricade tutto nel pupetto in grembo. Idem il finto babbo Natale che tenta di fare lo spensierato. Il ragazzino è come un cane, sente cose che noi umani non possiamo sentire. Alcuni pisciano pure sui tronchi degli alberi. Mica sono scemi i ragazzini.

Questo tredici dicembre l’iper Coop è ricolmo di famiglie in preda allo shopping, non vedevo questo fermento da decenni. Il primo bimbo di oggi è un nerd che quasi si vergogna di venire sulle mie ginocchia a chiedermi il dono. Mi osserva in silenzio, avvicina un po’ la testa alla mia, mi scruta, guardo il suo braccio, ha un livido sul pollice, forse vuole tirarmi la barba, ma non lo fa. Probabilmente per via del livido dolorante, penso.

«Ciao piccoletto, guarda che la barba è vera».

Lo ammutolisco con quella frase, ma il suo silenzio dura poco.

«Te la sei fatta crescere apposta per venire a lavorare qui, di’ la verità»

Il nerd mi aveva scoperto, cosa sono diventato? Uno dei tanti babbi Natale vogliosi di denaro che non riesce più a far sognare un bambino nerd moccioso? Cosa sono diventato? Il ragazzino mi ha preso alla sprovvista, ero nell’angolo con un solo montante ad inizio round.

«Ma Babbo Natale non ha sempre la barba, quando fa caldo si rade, mica è scemo».

«Cazzate! Tu sei falso come una copia pirata di Windows Seven».

Ma come parlano i mocciosi di oggi? Ho solo voglia di levarmi dalle palle quello schifosetto occhialuto. Che cosa stracazzo stava dicendo quel rospo con la faccia da rana? Meglio troncare con questo rompipalle: «Allora, come ti chiami?»

«Luca, e tu?»

«Io sono Babbo Natale, cosa vuoi che ti porti?»

Il volto di Luca è di sfida, temo la sua risposta. Cosa mi sta succedendo? Perché questo nerd non mi crede? Sto diventando la copia di me stesso? La copia sbiadita? Probabilmente mi dovrei solo aggiornare sulle nuove tecnologie, tutto qui. La mia credibilità ne risente. Lo sento, lo avverto. Mi chiede in regalo un qualcosa inerente al mondo dei computer, un processore o una cosa del genere, nemmeno ricordo bene. Gli dico che lo avrà, pur di levarmelo dalle scatole.

«Non esiste quello che ti ho chiesto, sei un buffone».

«Levati dalle palle e fatti una partita a calcetto, nerdaccio rompipalle!»

Gli altri bambini della giornata sono stati più clementi e meno pretenziosi di lui, per fortuna.

La sera, terminato il lavoro, mi dirigo al cinema: ho voglia di film. Proiettano un horror coreano, me lo gusto con piacere. Adoro la Corea, dovrei ritornarci prima o poi, forse lì starei meglio. E magari rivedrei pure Uhl aveva i capelli a caschetto neri. Ho paura che siano trascorsi troppi anni da allora. Troppi.

Fatto è che non posso non pensare alle parole di sfida di quel ragazzino. Stavo perdendo credibilità. Ho capito cosa devo fare. E attuerò il piano domani. Andrà meglio, me lo sento.

Al mattino m’incammino alla postazione all’interno del centro commerciale. Già s’intravede la fila di bimbi accompagnati dai genitori, sorrido loro ed invito il primo bambino ad avvicinarsi.

«Ciao Babbo Natale, io mi chiamo Alfredo, vorrei un i-pod per Natale, grazie,» e se ne va via. Brutto stronzetto che non mi fa nemmeno attuare il piano. Meglio. Vada per il secondo. Ecco che si avvicina: bambinetta con le treccine che sembra uscita da un telefilm per ragazzi.

Mi saluta ed abbassa gli occhi imbarazzata, stropiccia gli occhioni chiari e diventa tutta rossa in volto.

«Ostroghi diche a babbinatali regoli?»

La bimba non capisce. Provo a ripetere la frase, tentando di aiutarla con la mimica facciale e dei gesti: «Ornochi dai a babbonatali i regalo vuoi?»

La bimba scoppia in lacrime, terrorizzata, mi bagna la barba con le lacrime ed il moccolo del naso. Provo ad accarezzarla ma il padre se la porta via con tono schifato.

«Che cosa le ha fatto?» mi chiede infuriato.

«Ma che cosa devo averle fatto? Si è emozionata e basta! Cosa si aspettava? Uno dei tanti babbi Natale che parlano la lingua nostra? Ma a quelli non crede più nessuno, cazzo!»

«Ma è solo una bambina,» intona il signore mentre la figlia continua a piangere e abbracciare le gambe del padre.

«La faccia crescere la sua bambina, Cristo santo!» e con la mano faccio un segno come a dire: allontanatevi, fatemi continuare.

Le famigliole che avevano assistito alla scena erano pietrificate, ci volle un po’ prima che si formasse una nuova fila. In fondo ero contento, mi avevano creduto. Almeno quella bambina lo aveva fatto.

Continuai a parlare ai bimbi nella mia lingua incomprensibile, e man mano i bimbi apprezzarono il gesto: forse ero stato troppo burbero con quella piccoletta, ma terminate le festività i ragazzini ridevano di gusto quando gli parlavo in babbonatalese.

Finite le festività natalizie ritornai al mio lavoro al discount, sarebbe stato l’ultimo anno da loro, poi avrei provato con un altro supermarket. Mi ero rotto le scatole di fare il magazziniere, erano già oltre dodici anni che sgobbavo lì dentro, ci vuole un cambiamento ogni tanto. Prima di fare il magazziniere ho lavorato per sei anni come addetto specializzato per una ditta di pulizie in un aeroporto, altri cinque anni li ho trascorsi come pilota di aerei per una compagnia privata: facevo volare industriali, uomini d’affari o semplici benestanti che volevano farsi un giretto in aria per divertimento (solitamente con le loro amanti). Prima ancora sono stato cameriere in alcuni bar, ne avrò fatti circa una dozzina tra Roma, Berlino, Parigi ed un piccolo paesino sperduto in Corea del sud, dove conobbi Uhl. Da giovane ero molto più affascinate di ora, anche se la barba lunga e bianca mi dona parecchio, ma ai tempi di Uhl ero bello davvero, e lei s’innamorò di me, come io di lei del resto.

Lei aveva circa trent’anni, era riuscita a fuggire dalla Corea del nord, passando per la Cina. Aveva la pelle liscia e fresca come quella di una ventenne. Quando la conobbi avevo qualche anno in più di lei, non tantissimi, ma lei badava molto a questo aspetto; nonostante ciò non le ho mai rivelato la mia vera età, non mi avrebbe creduto. Mi sussurrava sempre: «Ti voglio bene, vecchio uomo». Era come una bambina. I primi tempi capivo poco la sua lingua, ma già dopo qualche mese imparai molto da lei. Alle volte ci penso ancora a quegli anni, ma temo che se mi vedesse ora avrebbe un sussulto, vecchio e barbuto come sono, con la pelle secca come una mela secca. Per fortuna non può farlo. Meglio non pensarci adesso, è una vecchia storia, sapevo già come sarebbe andata a finire.

La notte è insonne questa notte. Il febbraio più freddo che io ricordi.

Al mattino qui albeggia alle cinque, il lago fuori la baita è ancora ghiacciato, avrei potuto pattinarci con Uhl, o almeno vederla pattinare. Anche le renne sono stanche, molto più di me, riposano nel loro spazio di natura bianca, la neve ricopre tutto l’esterno. Dalla finestra della stanza posso vedere le montagne dalle cime innevate, sembra veramente di stare in uno dei vecchi spot della Coca-Cola.

Credo proprio che Terry abbia bisogno di un veterinario, si regge a stento, troppa fatica per la sua età. Mi dirigo nel recinto e la sento soffrire, latra come a chiedere pietà. Non posso ucciderla, sarebbe la prima, non ne avrei il coraggio ora. Me ne rimangono sempre altre cinque, questo è vero, ma qualcosa sta cambiando: Terry smette di respirare. Mi siedo affianco a lei e non l’accarezzo, mi limito a sorriderle, steso sulla neve bianca, penso che forse allora un giorno verrà anche il mio turno. Quanto cazzo campa un Babbo Natale?

E dopo essermi domandato questo, decisi che il giorno successivo sarei partito con le altre cinque renne verso la tomba di Uhl, in Corea del sud. Forse lì avrei avuto il coraggio di incontrare la figlia di nostra nipote, non l’ho ancora mai vista, non so nemmeno com’è fatta, ma forse un giorno somiglierà a Uhl.

Chissà magari mi prenderanno come magazziniere in qualche supermercato. Uno ci prova.

Angelo Zabaglio e Andrea Coffami

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 15

[continua da qui]

Della serata milanese non si parlò da nessuna parte, niente di niente, neanche un poco di cicaleccio per strada o fuori dei bar. Non ne parlarono i giornali, tacquero le radio, non si videro le televisioni. Insomma, della missione dei cinque nessuno doveva saperne niente; quanto alla loro arte è ormai chiaro che importava ben poco alla pubblica opinione, ad eccezione di qualche curioso, a dire il vero pochi, che passarono ad ascoltarli nell’ora dell’abbondante aperitivo.

Si narra infatti che la performance venne snobbata dai più, soprattutto dai pezzi grossi del settore editoriale, quelli che i nostri speravano di veder comparire col contratto alla mano, e forse fu proprio questa la scintilla che accese una miccia già pronta da tempo. Essi blaterarono le loro parole nel bel mezzo della caciara, nell’andirivieni di consumatori insensibili a quel loro verbo trascinato per mezza penisola, tra astanti ben più interessati al ventaglio di tartine colorate, pizzette, salumi e formaggi. Insomma, i nostri eroi, proprio sul più bello, capitarono in una serata ricca di un pubblico ben più interessato ai contenuti dello stomaco che a quelli dell’anima – sempre che gli scribacchini fossero davvero in grado di arrivare tanto in là con il loro lavoro.

Certo, è indubbio ch’essi fecero orecchio da mercante, ché insomma portarono fino in fondo il loro bel compitino e poi andarono a mescolarsi con la folla che usava le ganasce più per alimentare i succhi gastrici che i versi poetici. Cercarono di unirsi a qualche gruppetto ben indirizzato, appizzarono le orecchie per carpire qualche aggancio su cui tuffarsi in doppio carpiato, ma alla fine rimediarono soltanto un po’ di spumante per via di un compleanno che lì si festeggiava, e al quale si mormora che vennero invitati più che altro per curiosità. Quella gente voleva sapere che ci fossero venuti a fare quegl’individui fino a Milano, perché non ci credevano affatto che tutto quell’ambaradam fosse stato scatenato soltanto per via dell’amore per la letteratura.

“Ma dai”, insistevano, “ci sarà qualcos’altro sotto!”.

Eccolo lì, il pubblico sempre tanto bistrattato, dipinto come ignorante e carogna, che aveva afferrato in men che non si dica il nocciolo della questione: se la letteratura non ha mai cambiato il mondo, perché tanti sacrifici nel nome della letteratura?

Forse che quel pubblico era un poco facilitato dalla conoscenza del fatidico quinto elemento, che nella capitale ambrosiana aveva vissuto diversi anni, e che a detta di alcuni testimoni non verbalizzati – nelle questioni di terrorismo si sa, come in quelle di mafia, la gente ha paura a prendere la parola – si trovava in città già da due giorni, per preparare il grande evento?

Ma adesso mi chiedo, e vi chiedo: se la serata fu un buco nell’acqua, almeno per quanto riguarda l’attenzione mediatica, che cosa era venuto a preparare davvero questo losco personaggio?

Non era l’evento mondano e letterario il vero scopo di quell’incursione nelle strade un po’ annebbiate di Milano, ormai dovrebbe esser chiaro, bensì l’aggressione nei confronti del nostro Presidente, seppur solo verbale, ma questo non lo potremo mai sapere, visto che i cinque furono bloccati prima che potessero sviluppare la loro azione in qualsiasi altra direzione.

Simone Ghelli