Strade bianche

Strade bianche (Marsilio, 2010)

di Enrico Remmert

Non leggeremo l’orologio, decideremo noi le ore, le rotaie finiranno ma noi non saliremo mai lì sopra, andremo al museo e toccheremo il sedere alle statue, cammineremo sulle palpebre del mondo, aspetteremo al crepuscolo gli uccelli che gridano sillabe, ci vestiremo come due sacerdoti insaziabilmente belli, decifreremo le cose, e se non ci piacerà ci tapperemo le orecchie con il chewing gum, vedremo Dio in tv, scriveremo poesie indelebili, ci metteremo il sale sulle ciglia per rimanere sempre marinai, saremo assetati ed esultanti, per sempre, e ogni notte – le notti avranno un cielo bianchissimo con piccoli puntini blu – prima di addormentarmi mi sussurrerai: tu sei di tutti il migliore e di tutti il peggiore.

Manu, Vittorio e Francesca: sono tre i protagonisti di questo romanzo picaresco e “on the road” di Enrico Remmert. Il loro viaggio – che è un viaggio non solo puramente fisico ma anche dell’anima – parte da Torino e termina a Bari. Sono a bordo di una Fiat Punto dai doppi comandi detta “la Baronessa” – Manu insegna presso la scuola guida di suo padre – con un violoncello, un dipinto di Keith Haring sottratto al violento partner di Manu (il dj Ivan, pronto a fare di tutto per recuperarlo) e pochissimi soldi in tasca. Vittorio torna a Bari: lo fa solo per lavoro. Ha un contratto a tempo determinato per riuscire a realizzare i suoi desideri: lavorare come violoncellista. Manu sta scappando dalla sua vita torinese. Non le importa la meta. Le importa mettere distanza tra se stessa e tutti i suoi problemi. Eppure – per quanto ci si possa mettere spazio – i problemi non l’abbandoneranno, anzi, la seguiranno durante tutto il viaggio. Francesca parte per accompagnare Vittorio. È la sua compagna. La sua intenzione è utilizzare il viaggio per interrompere la loro relazione, per comunicare a Vittorio che lei non sa più se lo ama e – anche se lo amasse – che ha una nuova relazione con Luca, il veterinario per cui lavora.

La narrazione è round robin. Come Remmert anticipa «di ogni racconto ci sono tre versioni: la tua, la mia e la verità». Ognuno ha il suo punto di vista sul mondo, sulle situazioni rocambolesche che affrontano lungo la strada. Vittorio è totalmente immerso nella sua fobia quasi ipocondriaca, Francesca continua a tormentarsi perché lo ha tradito e non sa come comunicarglielo, Manu è l’emblema stesso della vitalità: è vulcanica, impulsiva e innesca complesse reazioni a catena che si ripercuoteranno sul gruppo.

Dopo un lungo periodo di silenzio Enrico Remmert torna felicemente con un romanzo armonioso, corale, intenso, un romanzo che ci spinge al viaggio, al sogno, alla ricerca della giusta traiettoria da percorrere per vivere la nostra vita. Non è importante la meta (le mete sono mobili come l’orizzonte), è il viaggio quello che conta. Il presente è imprevedibile e ogni attimo va assaporato con cura. Il futuro è tutto completamente da inventare.

Ripensi alla notte scorsa, ma non ti ricordi quasi più nulla, pensi che tua madre ripeteva sempre che uno dei tre segreti per essere felici è avere la memoria corta, pensi che gli altri due li hai dimenticati.

Serena Adesso

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Vicolo dell’acciaio

Vicolo dell’acciaio (Fandango, 2010)

di Cosimo Argentina

 

Via Calabria 75, un condominio dove il novanta per cento delle famiglie ha il capo che se la spassa nel siderurgico. Dal primo al settimo piano siamo tutti incrostazioni del grande tubo madre e la nostra pelle profuma del ferro zecchino delle acciaierie. Via Calabria 75 dunque, un pezzo di cemento con il tetto incatramato ficcato tra un parcheggio asfaltato e un incrocio dove le ambulanze vanno e vengono a tutte le ore del giorno e della notte”.

 

Quando si giunge a Taranto quello che ci colpisce – esattamente come uno schiaffo in pieno viso – è il paesaggio. Già dall’autostrada, per chi ci giunge da Bari, l’Ilva è chiaramente visibile: l’impianto siderurgico più grande d’Europa, quello che avrebbe dovuto portare il Meridione verso il progresso industriale, verso le magnifiche sorti e progressive. Che ci ha regalato l’Ilva? Qual è il prezzo che i tarantini, i pugliesi tutti, hanno dovuto pagare? Basterebbe leggere uno dei mille rapporti sul tasso di mortalità per causa di tumori in quella parte di territorio per capire esattamente quanto, in termini di sofferenze, abbiamo dovuto pagare come dazio perché lo sviluppo tanto desiderato (e chissà se poi realmente raggiunto) abbia avuto atto. Eppure ancora oggi la maggior parte dei tarantini ha un parente che lavora nell’impianto. E non solo i tarantini. Partono bus da tutta la Puglia perché giungano gli operai al lavoro.

 

Cosimo Argentina, tarantino trasferito in Brianza, ambienta nella sua città natale questo romanzo doloroso, lacerante. Ma sempre più necessario. Protagonista è un diciannovenne che cresce in uno dei quartieri che fornisce maggior manovalanza all’Ilva. Ci abitano quelli della “prima linea”, che trascorrono la loro vita tra l’Ilva e una birra Raffo – un must per i tarantini – bevuta in compagnia nel bar sotto casa. Sono loro i duri, quelli orgogliosi di lavorare per mantenere la famiglia. Quelli che – ad uno ad uno – dall’Ilva verranno progressivamente uccisi. Mino, il protagonista, cerca di liberarsi da un destino già scritto per lui. Si iscrive all’Università, frequenta Giurisprudenza…eppure…sembra quasi che sia quasi impossibile rompere con le proprie radici, crearsi un futuro diverso. Allo stabilimento dell’Ilva si deve ancora una volta l’ennesimo tributo di sangue, come lo si deve ad una divinità maligna e misteriosa. Non c’è nessuna redenzione possibile. Non qui ed ora. Non per i “fottuti”, per gli abitanti del “Vicolo dell’acciaio” – gente umile, con gli occhi rossi e le mani callose, lontani anni luce dallo stereotipo dell’operaio “fighetto”, tutto coca e festini.

 

Niente lacrime per favore. Non si deve sprecare così la sofferenza. (Hellraiser)

 

Serena Adesso