La società dello spettacaaargh! – 22

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Caro Jacopo,

beato te che non devi mettere il punto dopo una settimana come quella che abbiamo passato. Ma va bene, tu hai iniziato, io metterò una “FINE”. Non la FINE: quella la mette il caso, o Dio, o la BCE. Spero non risulti una patetica e debole fine: è che in tasca pure io non ho molto, se non questa fine, di cui sto per scrivere.

Nei momenti in cui guardando avanti c’era per me solo buio, o nebbia, o deserto, o quando mi sono sentito cadere addosso le stelle, come a te nel sogno che racconti, ho sempre cercato di guardare dentro, e indietro. Ché nei momenti di crisi, ho imparato, si vive uno strano, atavico terrore di separazione (come da etimo), ci si sente chiamati a prendere una scelta, o si ha questa urgenza che preme senza che si vedano possibilità Leggi il resto dell’articolo

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 18

[continua da qui]

Purtroppo dovremo accontentarci di un processo alle intenzioni, che sarà senz’altro sommario, ma che conterrà comunque le sue indubbie verità.

Ad esempio, che i sedicenti scrittori, una volta concluso il fallimentare reading, non si recarono a casa della cugina in dolce attesa, bensì girovagarono in auto per la città e per giunta in condizioni fisiche non del tutto adeguate. Insomma, pare proprio che in mancanza di pecunia essi approfittassero soventemente della gentilezza dei baristi, ovvero che alzassero il gomito con facilità, così come accadde quella notte all’ombra delle guglie del Duomo – per quanto fosse notte.

Così conciati essi si ubriacarono d’aria per le vie del Biscione, assetati e furenti come dei discendenti di quel principe Saraceno che fu battuto a duello da Ottone Visconti*. In queste condizioni, finirono a tarda notte dalle parti degli studi televisivi, dove la biscia non ha un moro in bocca, bensì, più poeticamente, un fiore.

I cinque – che si fossero riuniti o meno non ha più importanza – pare che rimasero di stucco dinanzi a quell’enorme margherita di grigio metallo, tanto che in uno dei taccuini compare un passaggio piuttosto esplicativo in proposito:

Mai visto cotanto simbolo di sole asservito al colore che più si confà all’alienazione; il gigantesco fiore secco si libra in aria, al di sopra dei miei occhi, insensibile come un ingranaggio e pronto a schiacciare l’uomo ancora dedito al sogno…

Adesso penserete che di vera poesia si tratti, e che tutto questo resoconto sia stato un tentativo poco felice di sminuire un’arte che invece merita plausi e allori, ma posso assicurarvi che la precedente citazione è un’eccezione alquanto rara all’interno di un’accozzaglia di retorica assai poco cesellata.

Gli è che, a mio modesto parere – per carità, son giornalista, mica poeta! –, quel simbolo di un potere tanto visibile quanto occulto, fu senz’altro una ricca fonte d’ispirazione, tanto che ingravidò le loro bocche di belle parole e le loro teste di cattivi pensieri. Insomma, quella stessa forza contro cui si battevano – che loro definivano populista – finì con l’offrirgli i semi per i loro miglior frutti, e questo ci basti per affermare che non sempre l’arte nasce dal bello e dal buono, anzi, ché a ben vedere pare proprio che prenda forma per il verso contrario.

Per certo si era di notte, nell’ora popolata dai mostri, per quanto gli studi fossero illuminati a giorno, poiché la scatola dei sogni in technicolor non si addormenta mai, e di conseguenza non dorme chi vi sta dietro a dipanarne i fili. Di spiriti i nostri scrittori dovevano vederne assai, e di fantasmi pure, annebbiati com’erano dalla loro ideologia e da tutto quell’alcool: mostri che con le loro fauci inghiottivano il paese e lo sprofondavano nella melma della barbarie. Ed era proprio per combattere contro queste terribili creature ch’essi erano arrivati ai piedi del tempio a cristalli liquidi, del totem degl’imbonitori che abbagliavano gli spettatori di bianchi sorrisi e di sguardi invitanti, mentre zompavano da un’inquadratura all’altra senza perder mai il centro dell’immagine.

Immaginateveli davanti a quell’enorme blocco di vetro e cemento, finalmente giunti alla loro meta, con gli occhi tremolanti e la gambe molli, ma soprattutto orfani del dono della parola; perché così dovettero sentirsi quando si udì il cigolio di stivali in pelle in avvicinamento sull’asfalto, mentre la voce di una guardia urlava il chi va là…

Simone Ghelli

* Si narra che nel 1187 Ottone Visconti sconfisse in duello un principe Saraceno che portava sul proprio elmo una grossa serpe che ingoiava un infante. Dopo aver schiacciato l’esercito saraceno come si schiacciano i serpenti, quelle insegne strappate al nemico furono donate dal Visconti alla Cattedrale di Milano

Coincidenze – Il sarto

La chiesa strideva tutta per il temporale, come una gigantesca lavagna abbandonata a un branco di bambini dispettosi. Il feretro era lì, al centro della navata, somigliantissimo a un animale che dormiva senza respirare.

«Fermo, sorridi»: una coppia di sposi in luna di miele era in una piccola sala da the poco distante dal grande portale della chiesa e si stava facendo buffe fotoricordo. Erano belli come una vaga reminiscenza addolcita dal tempo per una memoria infedele.

Sono così strani i casi della vita…

L’uomo alla prima panca vestiva con sobrietà e bene. Lo si sarebbe detto un sarto: era benvestito, ma senza volerlo. Piangeva, ma composto e sommesso, identico a una canzone un po’ datata, anche se dimostrava appena una trentina d’anni.

Era un giovane attraente e antiquato: in questo stava il suo fascino. Piangeva composto e disperato, nessuno ci badava, anche perché nessuno lo conosceva. Solo qualcuno si chiedeva chi fosse quel giovanotto così bello che pareva uscito da un rotocalco del ’50, ma per una manciata di secondi. A nessuno importava veramente: la donna nella bara aveva avuto molti affezionati clienti, e qualsiasi degli uomini lì presenti poteva esserlo stato.

Anche il ragazzo, in effetti, era stato un suo intimo. Ma di tutt’altra specie. Intimo come un sarto fedele. E affezionato.

«Un cioccolato» chiese lei perché il temporale l’aveva infreddolita. Il marito le sorrideva. Ancora non le veniva naturale dire “mio marito”. Pazienza pensava verrà col tempo. «Sei felice?»

«Sì, ti amo».

La donna della bara l’aveva detto solo una volta al giovane sarto. Solo una volta: “Sono felice”, ma quasi bisbigliato, mentre teneva il volto mezzo sepolto nella federa del cuscino. Il ragazzo lo ricordava distintamente come se fosse stato un’ora prima. Anzi, lo ricordava man mano meglio col passare del tempo, come se invece di una ferita rimarginata fosse stata una frattura ricomposta che doleva a ogni sbalzo di umidità e temperatura. E quel giorno pioveva.

Piangeva mordendosi il labbro inferiore, con le mani affondate nelle tasche della giacca splendidamente sagomata. Era bello e disperato, come il richiamo a una divina sofferenza. Proprio come si conviene a ogni giovane uomo al funerale della donna amata.

Ogni mare ha la sua barca ad attraversarlo e ogni uomo vive ricordando un qualche amore finito. Spesso è un amore fantasma, che riaffiora ogni tanto, di solito quando più o meno indirettamente si viene a sapere qualcosa della persona amata in passato.

Molto più spesso la persona amata scompare nella folla, e allora quel periodico riandare indietro con la mente si trasforma quasi in un atto rituale. In un vizio del cuore, un’ossessione discreta.

«Chiamiamolo come tuo padre». La scelta del nome impegnava i due sposini nella sala da the. Fuori dalla chiesa il corteo funebre fu disperso dalla pioggia e col feretro rimase solo lui, il giovane sarto.

La pioggia abbracciò le lacrime e né lui né lei s’accorsero che stava piangendo.

Antonio Romano