L’ultimo comunista di Matthias Frings Voland Edizioni (Ottobre 2012) Pag. 560, Euro 18.00
Relazionandosi con temi per te decisamente sacri e ambientando una vicenda in luoghi nei quali hai avuto la premura di lasciarci il cuore (più qualche giuntura) è ovvio che si perda in lucidità. La sensazione ricorda lo svegliarsi di notte e scovare qualcuno nella stanza intento a rovistare dentro il tuo cassetto della biancheria. Però poi vince la razionalità e inquadri l’autore: lui è tedesco. Tu no. Lui ha vissuto sulla pelle gli anni ottanta. Tu no. Lui ha toccato con mano la divisione della Germania. Tu no. Lui ha visto il muro integro mentre tu semplicemente piccoli granelli per turisti sprovveduti o denti smantellati residuo di tempi trascorsi. Ovvio lui possa scriverne. Tu no?
Vediamo.
Carte in tavola: l’«Ultimo comunista» è (corposo) testo edito da Voland, opera di Matthias Frings. Sessantenne giornalista/autore televisivo vicino ai movimenti della sinistra alternativa nonché celebrato e discusso padre di un manualetto titolato Männer.Liebe. Ein Handbuch für Schwule und alle, die es werden wollen ossia Amori.Maschi. Un manuale per chi è gay e per chi vuole diventarlo. Era il 1982. Vicende a intrecciarsi di scrittori, attori teatrali, baristi e ulteriori forme di artisti sullo sfondo della Berlino divisa più aree limitrofe: particolare attenzione alla scena gay e relative contraddizioni, regole e abitudini.
«I postumi del ’68, il terrore di gomma dell’elastica socialdemocrazia, i primi movimenti civili, le battaglie contro il nucleare e infine Leggi il resto dell’articolo
Con grande piacere riproponiamo qui di seguito il racconto Falkenau, di Andrea Tarabbia, pubblicato sul numero quattro della rivista, a cura del collettivo sparajurij, Atti impuri. Rimandiamo i lettori, inoltre, alle scorse collaborazioni con la suddetta rivista:
AbbiamoaspettatocheFalkenausiaffacciasseancoraallafinestradellasuacasaalpianterreno,perchélaprimavoltanéionéWernereravamoriuscitiavederlobene.Noneravamosicurichel’avremmovistodinuovo,malaprimavoltaciavevacoltoimpreparati,enonavevamoquasiregistratol’avvenimento.Falkenauavevaapertoletendeespalancatoivetriesieraguardatoattorno.Nellostessoistante,mentrenellamacchinaioeWernercimettevamoinallarme,illampionechedàsull’ingressodellacasasieraspentoall’improvviso,lasciandoqualchemetrodimarciapiedecompletamentealbuio.Quandolaluceèmorta,holanciatounpiccologridocheWernermihatroncatonellagolaconun’occhiataferoce.AncheFalkenauètrasalito,ocosìmièparso.Ilronziodellampioneèricominciatoquasisubito,gettandosull’asfaltounaluceopacaeintermittente.Falkenausièfattoschermoconlemaniehaguardatonellanostradirezione,masonosicurachenoncihavisto,edèrientratoincasa.
Da alcuni giorni Werner aveva la sensazione che si fosse accorto di noi.
«Non proprio di noi», diceva, «ma mi sembra che si comporti come chi ha fiutato qualcosa. Forse sospetta di essere seguito, o qualcuno lo ha messo in guardia.»
«CisononellasolaBerlinomigliaiadiFalkenau»,avevadettol’archivistaquando,alcunesettimaneprima,Wernerleaveva Leggi il resto dell’articolo
[Confessioni qualunque, la rubrica curata dai ragazzi di In Abiti Succinti, si apre anche ai lettori. Questa settimana un racconto di Arturo Dalì. Confessatevi anche voi! E poi inviateci i vostri racconti, le vostre confessioni più nascoste!]
extended #2
Peppino
di Arturo Dalì
Che resti tra noi. Certe volte non ho scelta.
L’occasione spesso è un attimo, e se ti sfugge, addio. Non è che puoi stare a ragionarci, bisogna farsi trovare pronti. Stamattina ero al supermercato, un euro e trenta in tasca e fame e caldo e debolezza e ho pesato due susine e una banana mentre infilavo nella borsa due banane e una susina. Volevo rubare pure una birra, ma ho notato un tipo che mi seguiva; l’ho osservato meglio, sembrava mettere nel cestino prodotti a casaccio. Era vestito troppo bene, però; quelli della sicurezza non portano la giacca né la catena d’oro al collo, ma era meglio non rischiare e filare. Quello però mi a seguiva a distanza e mi fissava. Così, quando ho poggiato la frutta sul rullo, mentre ricontavo l’euro e trenta, mi si è accostato come per dirmi qualcosa all’orecchio, e vi giuro, allora ho pensato davvero che si trattasse di uno della sicurezza. Già immaginavo le solite rotture, paternali e minacce di quando ti beccano. E invece il tipo Leggi il resto dell’articolo
A Berlino se ti siedi per terra nella piazza di Berlino con addosso una chitarra e davanti un bicchiere di cartone a fine giornata nel bicchiere di cartone c’è qualcosa come cinquanta euro di spiccioli, dicono: si tratta solo di imparare a suonare la chitarra con i guanti tagliati in cima alle dita, fare venire fuori la voce attraverso la lana della sciarpa e sapere quel minimo di inglese per cantare in maniera plausibile. Tutto qua. Cinquanta euro al giorno. Con un giorno di pausa alla settimana, tutte le settimane, fanno milleduecento euro al mese. Facciamo mille. È uno stipendio.
A Berlino se porti le bottiglie di plastica usate nei supermercati di Berlino ci sono queste macchine smaltisci-rifiuti che per ogni bottiglia di plastica vuota ti danno venticinque centesimi, cioè con quattro bottiglie prese dall’immondizia ci compri un pacco di pasta da mezzo chilo e ci mangiamo due volte. A Berlino, nei cestini dell’immondizia delle strade di Berlino, non c’è una bottiglia di plastica che sia una: in ossequio a un patto silenzioso nessun berlinese porta le bottiglie di plastica nelle macchine smaltisci-rifiuti dei supermercati, tutti le buttano nei bidoni normali in giro per strada e poi di notte (ma anche di giorno) i barboni (ma anche gli universitari fuori sede) si litigano le bottiglie vuote e con quattro bottiglie di plastica prese dall’immondizia ci compri un cartone di Tavernello da un litro e ci bevi un pomeriggio. Cioè, non so se vendano il Tavernello a Berlino, ma insomma.
A Ferrara qualche settimana fa abbiamo suonato per strada un’ora e abbiamo fatto cinquanta euro, che diviso tre non è divisibile, ma più o meno. A un certo punto si è avvicinato un ragazzo con i capelli ricci e ci ha detto Avete mai pensato di abbinare la giocoleria alla musica? Io stavo per dirgli Come no, poi ci portiamo pure la scimmietta che suona i piatti e i cuccioli che bevono il latte dalla ciotola e i santini di padrepìo, e invece gli ho detto Boh, ogni tanto lo facciamo, cioè, la violinista sa suonare sui trampoli, è una cosa che fa sempre un certo effetto, ma è un po’ scomodo portarseli in giro, abbiamo anche un contrabbasso, vedi, è un po’ scomodo portarsi in giro il contrabbasso e i trampoli e stare in tre in una macchina con il contrabbasso e i trampoli. Allora il ragazzo riccio ha detto Io vivo a Berlino e faccio il giocoliere ai semafori. Niente di troppo complicato: tre palline, il naso rosso, un po’ di trucco, un bicchiere di cartone e a fine giornata nel bicchiere di cartone c’è qualcosa come cinquanta euro di spiccioli. È uno stipendio. Ci pago l’affitto, ha detto il ragazzo riccio, vivo a Berlino da un anno e mi mantengo facendo il giocoliere per strada, ciao ciao, buona suonata, poi è andato via.
A Berlino come a Ferrara come ovunque un musicista di strada può averci tranquillamente un repertorio piuttosto ristretto: bastano dieci canzoni di cui non stufarsi, casomai si stuferanno gli inquilini o gli impiegati del palazzo di fronte, ma sono poi problemi loro, la gente gira, il pubblico è sempre nuovo, dopo la prima secchiata d’acqua dagli impiegati del palazzo di fronte si tratta solo di asciugarsi con la sciarpa di lana e cambiare posto e nel tragitto vedere se ci sono delle bottiglie di plastica nei bidoni per metterne insieme quattro e comprarsi un pacco di maccheroni o un cartone di Tavernello.
Ora, io non è che mi fidi di ogni ragazzo riccio che incontro. Non sono nemmeno sicuro che un chitarrista di strada a Berlino faccia mille euro al mese (e poi il giocoliere al semaforo, maddai, i cuccioli che bevono il latte dalla ciotola e i santini di padrepìo, maddai). Però domenica scorsa eravamo in dieci a suonare nella piazza del mercato di Cesena e non vi dico quanti soldi abbiamo fatto, non è importante, non farò nemmeno l’elenco delle Dieci Regole Del Musicista Di Strada, non racconterò nemmeno le facce della gente che non ci poteva credere, una banda, dieci musicisti senza uno straccio di amplificatore che battono i piedi per scaldarseli, non dirò nemmeno che la stagione delle sagre autunnali e poi dei mercatini natalizi mi fa venire voglia di mettermi un paio di guanti tagliati alle dita e di vedere se Bertinoro è come Berlino, non lo dirò, ma mi sa che lo faccio.
ovvero la seduzione nell’epoca della riproducibilità virtuale
«Sono appena tornata da Berlino e sto scrivendo un’autofiction in cui mescolo le cose vere che mi sono capitate con fatti inventati».
«Brava! Fai bene a scrivere. In questo paese c’è un bisogno viscerale di scrittrici di qualità che trattino la materia politica attraverso la metastoria, cioè che travestano di finzione l’urgente necessità di mimesi. Se poi sei un cervello in fuga che ha scelto di rientrare e ora sei precaria chissà quante osservazioni acute potrai fare sulla realtà che hai trovato qui. Questo è un paese disastrato, è fondamentale narrare la diversità, l’altro, attraverso la rappresentazione di eventi anche finzionali che però trasmettano un senso di denuncia».
«Veramente ero in Erasmus»
«Bene! È importante che si continui a parlare di Erasmus, perché è la porta che si spalanca davanti ai nostri studenti disillusi e li proietta in realtà ricche di stimoli, in paesi dove la democrazia esiste davvero, mica come qui, che siamo in balìa di Ramsete II e della sua corte di nani e ballerine, in senso letterale, eh? mica metaforico. Mi sembra fondamentale che voi giovani trasmettiate a questo paese marcescente l’idea forte che voi avete altre opportunità, che Internet vi ha liberati da vincoli secolari, che il mondo è un a clic di distanza da voi e che abbandonerete questo paese alla ricerca di nuove opportunità, di nuovi modi di fare cultura e di nuove libertà di espressione. Chi vi ferma a voi? Siete il futuro! Bravi, andate e riportate indietro la democrazia».
«Veramente è una storia d’amore».
«Ah sì? Be’, mi fa piacere che questa nuova generazione anche se così tecnologizzata sappia ancora narrare l’amore, in questo mondo così cupo, in cui le coppie si separano presto e nessuno fa più figli. Siete il futuro, è bello vedervi innamorati».
«La trama racconta di lei, che poi si chiama come me perché è un’autofiction, che si innamora di un tossico a Berlino in un centro sociale. Insieme fanno un sacco di esperienze, la più importante, che poi è l’episodio centrale del libro, è quando a lei finisce la borsa Erasmus, e i suoi non possono mandarle soldi da casa, perché è figlia di operai (questa è la parte di finzione, io sono figlia di dirigenti di azienda, ma mi pareva fico farla di estrazione proletaria, così è più credibile anche quello che segue). Insomma, lei è innamoratissima di lui, e decide di prostituirsi per procurare la droga ad entrambi. Però alla fine è una storia di redenzione».
«Splendido! Bisogna infondere fiducia nel futuro, e lasciare che anche nelle esperienze più cupe il lettore possa immaginare una via d’uscita. Insomma, bisogna essere positivi, altrimenti qui si soffoca nella depressione. E hai intenzione di pubblicarla?»
«Embè, sì, mica scrivo pe’ sticazzi. Si fatica a scrivere, eh? È un lavoro. Sono come Hemingway, mi chiudo in camera almeno quattro ore al giorno con i tappi nelle orecchie e scrivo, scrivo, scrivo. Sto studiando molto, ho ripreso in mano i classici della letteratura perché voglio scrivere una storia lunga, che venga fuori un tomo di almeno quattrocento pagine con moltissime citazioni. La mia idea sarebbe di pubblicarla con un grosso editore, perché mi hanno detto che la mia prosa è molto lirica e profonda, molto convincente, e che quello che racconto avrà vasta eco di pubblico. Sto sviluppando l’episodio centrale, quello in cui lei si prostituisce per lui, che ovviamente è finzione. Anche se devo dire che attraverso la scrittura vivo situazioni che mi mancano, che vorrei davvero avere sperimentato. Ho preso spunto da William Blake, mi ispiro alla sua lingua oscura, al suo registro visionario».
«Caspita, come ti esprimi bene! Però mi dà l’idea che sarà un romanzo molto difficile, sei sicura che qualcuno lo vorrà leggere? Hai sentito un agente letterario?»
«No, vado su facebook».
«…?»
«Lì ho incontrato la mia guida, quello che mi consiglia e a cui posso chiedere tutto. È un grande scrittore, uno con cui ci si può davvero confrontare».
«E allora com’è che sta su facebook?»
«Guarda che se non sei su facebook non sei nessuno, e poi è quello il luogo della cultura alternativa, solo lì si possono incontrare gli scrittori davvero impegnati. Quelli a cui i media non danno spazio. Ha detto che quando l’ho finito mi piazza dall’editore Supermega».
«Ma non era alternativo?»
«Oddio!! Non segui i dibattiti!! Cosa c’entra essere alternativo e pubblicare con Supermega?? … Ehm.. Cioè… Cos’è che dovevo dire? Ah, sì: è più nobile se si pubblica con un piccolo editore, però se mi intervista Mediaset mica je dico de no, non vorrai mica togliere a quei pezzenti sottoproletari che guardano il TG5 l’opportunità di sentire un po’ de cultura?»
«Scusa, ma la tua protagonista non era di estrazione proletaria?»
«Sì, vabbè, che c’entra, tanto queste cose rimangono fra noi».
«Eh… Scusa ma tornando al tipo di facebook, ti piazzerebbe da Supermega in cambio di cosa?»
«Ma di niente! Lui mi adora, sono la sua scrittrice preferita».
«Ma se non hai ancora pubblicato?!»
«Eh, ma certi esperti sono in grado di valutare il valore di uno scrittore anche da una chat o da quello che si scrive sul profilo di facebook».
«Ma sei sicura che vuoi fare un tomo strampalato di quattrocento pagine perché te l’ha detto uno su facebook? Non sarebbe meglio se cercassi di scrivere come ti viene naturale e che ti facessi consigliare da un bravo agente letterario?»
«Non capisci proprio niente! Cosa credi, che gli agenti letterari leggano i manoscritti alla cazzo? Leggono solo quello che gli segnala Tizio che sta su facebook!»
«Ah ok. Sai, è che non ho mai cercato di pubblicare niente, anzi non scrivo proprio. E Tizio lo hai mai incontrato dal vivo? Dico così, solo per sapere se esiste veramente».
«Che sospettosa. Comunque, no, è troppo preso. Ma lo sento spessissimo in chat, mi dà molta attenzione. E poi mi commenta il profilo su facebook»
«Senti, mi rendo conto che sono un po’ indietro, ma non è che questo qui non ha un cazzo da fare e ti racconta delle gran balle tanto per esercitare un po’ di seduzione? Dico così per dire, sai, non ti offendere, è che questa cosa mi ricorda vagamente Baudrillard…»
«Chi?»
«Un sociologo francese. Lo trovi su Wikipedia. Vabbè, ci si becca».
«Sì, ciao. Però iscriviti anche tu a facebook, così te lo faccio conoscere!»
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