Il cagnolino rise

Il cagnolino rise *

Anna e Carl si erano incontrati sette anni prima, in sala bingo. Anna aveva divorziato da tre anni; la moglie di Carl era morta da poco, dopo una malattia di quelle lunghe.

Anna era ancora una bella donna. A volte la accompagnava al bingo suo figlio, un tipo bruno sui trentacinque che aveva fatto carriera nell’esercito. Carl invitò Anna a cena fuori più o meno al loro ventesimo “incontro casuale”.

Dopo una trentina di cene, andarono a vivere insieme, nella seconda casa di Carl, che stava su una delle colline erbose che c’erano poco fuori città. Questo, di giorno: Anna arrivava al mattino col pullman, e quando iniziava a far buio Carl prendeva la macchina e la riaccompagnava a casa propria, in un quartiere del centro. Al sabato, invece, era Carl che andava a trovarla per pranzo. Le portava sempre un vassoio di pasticceria o una bottiglia di vino dolce, e lei cucinava qualcosa di buono. Si tenevano compagnia, tutto lì.

Era un bel pomeriggio di luglio. La casetta di Carl, che lui stesso aveva da poco riverniciato di coppale, brillava come un tòcco d’ambra sulla sua collina. Si vedeva l’autostrada, è vero, ma per il resto in quella casa si stava davvero una meraviglia. E poi non era mai stata un’autostrada molto trafficata.

Il Natale precedente, Anna aveva regalato a Carl due sedie e un tavolino di vimini, per il pàtio. A guardarlo seduto su quella sedia di vimini, con la sua camicia fantasia, il viso all’ombra e le gambe, coi bermuda e le scarpe bianche, esposte invece al sole, si sarebbe detto di essere in una località turistica della costa, uno di quei posti dove la gente va a invecchiare bene, mica a due passi dalla città.

Carl sbadigliò e disse: “come va con quella studentessa a cui affitti la stanza? È tornata a casa per le ferie?”

“Lisa? No, no: c’è ancora. È venuto a trovarla un amico,” rispose Anna senza staccare gli occhi dalla sua rivista.

“Un amico?”

“Sì. Un bel ragazzo, alto.”

“Il suo ragazzo?”

“Non credo. Non mi ha mai detto di essere fidanzata,” disse Anna, e sorrise.

“Cosa c’è di divertente?”

“Sorridevo per questo racconto che sto leggendo. E’ davvero… Originale.”

“E quanto starà, questo amico?”

“Va via domani. Dovresti davvero leggerlo, questo racconto, Carl.”

“Mh. Come si intitola?”

Il cagnolino rise.”

“Che stupidaggine. I cani non ridono.”

“In realtà non parla di cani.”

Carl sbuffò e si alzò; distese la schiena e strizzò gli occhi per guardare l’orizzonte, che sotto al sole si perdeva lontano oltre l’autostrada e i campi, in un vago punto di fuga cilestrino.

“Sai una cosa? Temo di aver lasciato i miei occhiali da sole a casa tua. Dico, la scorsa estate.”

Anna continuava a leggere: “Può darsi,” disse.

“Forse dovremmo andare a prenderli.”

“Scherzi?”

“Il sole picchia, oggi.”

“Quindi, vale la pena restare.”

“Anna. Voglio i miei occhiali.

“Buon Dio, Carl.”

“Prendo la macchina.”

“Che ti devo dire? D’accordo, andiamo. Coglierò l’occasione per controllare che a casa sia tutto a posto.”

Il ragazzo sentì un rumore e saltò fuori, nudo, dalla porta del bagno. “Che succede?”, gridò al corridoio. Fece in tempo a vedere la zucca pelata di Carl sbucare dal portone d’ingresso, poi Lisa lo trasse nuovamente dentro e chiuse la porta a chiave: “Stai fermo, stupido! È tornata la padrona. Non farmi cacciare… Prendi la tua roba e andiamo in camera.”

I due aspettarono di sentir chiudere il portone, attesero ancora qualche secondo, poi sgambettarono veloci in camera di lei. Restarono fermi, seduti sul letto, per un po’, come ghiacciati, poi lui l’accarezzò, lei gli sorrise e si tuffarono all’indietro, cercando di non far troppo rumore.

Carl e Anna, intanto, erano in cucina. Carl aveva preso dallo scaffale la macchinetta da caffè italiana che le aveva regalato il Natale di due anni prima, l’aveva caricata e messa sul fuoco.

Dopo pranzo, al sabato, aspettavano sempre l’uscita del caffè seduti in balcone. Era un rito, anzi era parte integrante del loro prendere il caffè, così anche questa volta si sedettero fuori. Anna tirò fuori la sua rivista dalla tasca del maglioncino. Dalla casa arrivò un gemito soffocato, simile a un guaìto. Carl sorrise. Per qualche involontario trucco architettonico, o forse solo per i vetri delle finestre, così sottili, il balcone aveva un’acustica perfetta rispetto all’appartamento: qualunque cosa accadesse dentro, non importa quanto si cercasse di essere silenziosi, pareva arrivare in terrazza amplificata, come sugli spalti di un teatro greco.

Si sentirono dei cigolii. Mentre guidava verso casa di Anna, Carl aveva pensato a una battuta da dire se avessero trovato quel che avevano trovato, ma se l’era dimenticata, così la guardò e si limitò a sorridere a lungo.

Anna aveva appena finito di leggere il racconto. Chiuse la rivista, tenendo un dito dentro per non perdere la pagina, e alzò uno dei lati della bocca:

“E’ davvero originale, questo racconto. Perché non lo leggi?”

“Lo farò,” rispose lui, e subito dopo arrivò dalla stanza della ragazza un altro gemito. Carl alzò le sopracciglia e sgranò ostentatamente gli occhi; Anna non fece una piega:

“Allora, i tuoi occhiali da sole?”

Carl non poté trattenere una smorfia, e mosse la sedia vicino a quella di lei. Le prese la mano:

“La tua… Studentessa… Si sta dando da fare, eh?”

“Dovrebbero essere nello scannafosso. Gli occhiali, intendo.”

“Chissà,” sorrise lui, ma Anna sfilò via la mano e l’appoggiò sull’altra, con cui teneva la rivista.

Carl si alzò, il viso buio. Dalla stanza della studentessa arrivò un lungo gemito.

“Il cagnolino rise… Certo, che buffo…”, disse Anna, e col dorso della mano sfiorò Carl sul polpaccio nudo: “Carl?”

“Si..!”

“Quando sei lì, prendi anche le nostre cerate. Ho visto qualche nuvola arrivare, in lontananza. C’è ancora il sole ma, sai, non si sa mai.”

Vanni Santoni

* Racconto pubblicato nell’antologia E il cagnolino rise (Tespi, 2009)

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