Sei stato invitato all’evento “Sforbiciata del lunedì”. Rispondi: sì, no, forse, rimuovi.

Parteciperò a questo evento (in Lussemburgo)

 

Matupènsa, anche a Differdange, polo siderurgico di punta del Benelux, c’è una squadra di calcio, come ovunque nel mondo.

Dopotutto lo si sa, basta un prato quattro pali ed una sfera di cuoio per mettere il timbro sul passaporto della felicità, dal Mozambico alla Guyana Francese al Lussemburgo in generale, e a Differdange in particolare, città dallo skyline che sembra quello di Springfield.

La squadra di calcio della città del ferro non vince mai, il martello batte sull’incudine sempre alla stessa maniera, i successi son ròba da Esch-sur-Alzette, mica da Differdange. Nella città-col-nome-diviso-dai-trattini la compagine l’han chiamata Giovinezza, ha le maglie tutte nere ed un inno che dice, più o meno, “nostra unica bandiera, sei di un unico colore, sei una fiamma tutta nera, che divampa in ogni cuor” (fatto tutt’affatto vero, ma vuoi mettere quale disarmante coincidenza, se invece?). Una cosa vera, siamo seri, è che il Jeunesse d’Esch è l’unica società che da quando è stata fondata non ha mai cambiato nome, mentre tutte le altre: vacci a capire qualcosa. Io, ad esempio, da ragazzino giocavo a Sensible Soccer per Amiga, e di goliardia insufflato maneggiavo gl’omìni dello Spora Luxembourg. Oggi esiste mica più. S’è mescolata con un’altra formazione e porta il nome di Racing FC Union, appunto. Poi c’è anche l’Hamm Benfica, che è mezza lussemburghese e mezza lusitana, ma nel Granducato non è un mistero, c’hanno l’Europa nel sangue, i principi della libera circolazione di persone merci e capitali l’insegnano all’asilo, insieme ai versi degl’animali della fattoria.

Una cosa che fa discretamente sorridere, del campionato calcistico lussemburghese, è che il sistema è quello del girone all’italiana, solo con gare di andata-ritorno-e-ri-andata: ogni squadra sfida l’altra tre volte, c’è da chiedersi con quale criterio si decida dove giocare la terza sfida, un bel pasticcio per i palinsesti televisivi: ma tanto mi sa che a Murdoch gliene frega cicca, di mandare in primetime Pétange-Mondercange, per dire.

Un’altra cosa che suscità ilarità è che le società calcistiche del Granducato, tipo il lunedì, creano su facebook l’evento della partita successiva, ed invitano mica i tifosi: i giocatori.

Io ce l’ho amico sul socialcòso zuckerberghiano, uno che è tesserato per la società della città del ferro, e credetemi, l’ho visto coi miei occhi: ha messo “parteciperò”.

 

 

Forse parteciperò: (ovvero, la sindrome di PanXev)

 

Ivan Ivanovic Panaev ha avuto, dal milleottocentoquarantasette in poi, una manciata d’anni di relativa fama nella città di Pietroburgo: pubblicava sulla rivista Sovremennik dei quadretti di vita pietroburghese che facevano ridere, riflettere, piangere a seconda dell’umore e del meteo che aleggiavano su Prospektiva Nievskij. I pietroburghesi, genti semplici e di grand’animo, gli diedero fiducia quando nel milleottocentocinquantadue pubblicò Uomini di mondo in provincia: lo comprarono, lo lessero avidamente. Poi lo cestinarono, e cominciarono a far girare voci poco simpatiche: però che pippa di scrittore, Ivan Ivanovic Panaev.

 

Ernesto Pellegrini negli anni Novanta era il presidente della F.C. Internazionale: con uno spiccato senso dell’esotismo ed una nuance gastrofila mica da sottovalutare s’imbarcò in avventure imprenditoriali che lo portarono a gestire catering nell’Africa nera e a regalare ai tifosi del Biscione una macedonia di giocatori tra cui uno nato in Macedonia, quando si dice le coincidenze.

Darko Pancev arrivò a Milano con credenziali di tutto rispetto: bomber di razza, lo chiamavano Il Cobra, colpiva sottorete come un black mamba e poi oh, aveva appena vinto una Coppa dei Campioni con la Stella Rossa di Belgrado,

il Cobra.

Non sto qui a raccontarvi la storiella del suo insuccesso, reclamava tempo ed attenzioni, Osvaldo Bagnoli, che era il suo coach, personalmente m’è diventato simpatico assai quando ha affermato: «Devo avere pazienza con lui perché è macedone? Ma mì sun de la Bovisa, e so minga un pirla!», ad avercene come Bagnoli, e quindi niente: via Pancev, che mezzaséga Pancev, è morto Pancev, viva Pancev.

Dei destini degl’uomini è peccato mortale disinteressarsi. Il Ramarro, così lo schernivano, ramarro, poi s’è accasato al Fortuna Dusseldorf, pure te Darko cercar fortuna al Fortuna, dobbiamo insegnarti tutto; e infine ha chiuso la carriera col Sion, forse pensando che una società con siffatto nome fosse la destinazione naturale per un perseguitato come lui.

 

Oggi, dal suo appartamento di Skopje, dedica i due minuti d’odio quotidiano all’ Internazionale, la squadra mica l’inno, che gl’ha fatto venire l’allergia al pallone, dice; fissa a lungo il Vardar fluire lento. Poi torna a posare gli occhi sulla missiva poggiata sulla scrivania. Sulla busta c’è il logo del Fudbalski klub Vardar, il club della sua città, gli chiedono: «Dàcci una mano, noialtri ti si vuol bene, non t’abbiamo dimenticato, torna con noi». Gente semplice e di grand’animo, gli abitanti di Skopje.

Lui nicchia. Forse parteciperò, risponde. Come fan tutti, spunta forse parteciperò volend’intendere mi piacerebbe, guarda, ma mi vedrete mica mai, dalle parti vostre.

 

 

Non parteciperò (a certi amari epiloghi. Agl’inviti dei lettori invece sì)

 

C’è un lettore delle Sforbiciate che m’ha suggerito di dedicare due righe a Van der Meyde che ha annunciato il suo ritiro. Non m’è stato mai troppo simpatico Van der Meyde, però è da scorbutici mettere “non parteciperò” ad un invito del genere, perciò ho deciso che gli regalo una rete in mezzarovesciata segnata all’Highbury, questa. Fine del momento lacrimuccia.

Che poi gli addii sono sempre costellati dal pianto, sennò che addii sono?

Il diciotto maggio del duemila l’Olimpico ha salutato l’ultima sgambettata di Giuseppe Giannini, il Principe, uno degli indimenticati Capitani giallorossi.

E quel giorno, io c’ero, son state lacrime un po’ ovunque, sulle tribune ma pure in campo, lacrime di sfogo, lacrime amare.

C’è che la Lazio, pochi giorni prima, aveva festeggiato la conquista dello Scudetto. I tifosi bianchi e celesti si son creduti supersimpa e il giorno dell’addio di Giannini hanno fatto sorvolare lo stadio da uno sfottò aereo, “Lazio campione”, non l’abbiamo presa troppo bene e la partita è toccato sospenderla nell’intervallo del primo tempo per un’invasione di campo tutt’altro che pacifica: e poi gli appelli alla calma, la fine prematura, lo striscione “Scusa” improvvisato in Curva Sud.

A saperlo, che sarebbe andata a finire così, avrei detto no, guarda: non parteciperò.

Fabrizio Gabrielli

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La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 18

[continua da qui]

Purtroppo dovremo accontentarci di un processo alle intenzioni, che sarà senz’altro sommario, ma che conterrà comunque le sue indubbie verità.

Ad esempio, che i sedicenti scrittori, una volta concluso il fallimentare reading, non si recarono a casa della cugina in dolce attesa, bensì girovagarono in auto per la città e per giunta in condizioni fisiche non del tutto adeguate. Insomma, pare proprio che in mancanza di pecunia essi approfittassero soventemente della gentilezza dei baristi, ovvero che alzassero il gomito con facilità, così come accadde quella notte all’ombra delle guglie del Duomo – per quanto fosse notte.

Così conciati essi si ubriacarono d’aria per le vie del Biscione, assetati e furenti come dei discendenti di quel principe Saraceno che fu battuto a duello da Ottone Visconti*. In queste condizioni, finirono a tarda notte dalle parti degli studi televisivi, dove la biscia non ha un moro in bocca, bensì, più poeticamente, un fiore.

I cinque – che si fossero riuniti o meno non ha più importanza – pare che rimasero di stucco dinanzi a quell’enorme margherita di grigio metallo, tanto che in uno dei taccuini compare un passaggio piuttosto esplicativo in proposito:

Mai visto cotanto simbolo di sole asservito al colore che più si confà all’alienazione; il gigantesco fiore secco si libra in aria, al di sopra dei miei occhi, insensibile come un ingranaggio e pronto a schiacciare l’uomo ancora dedito al sogno…

Adesso penserete che di vera poesia si tratti, e che tutto questo resoconto sia stato un tentativo poco felice di sminuire un’arte che invece merita plausi e allori, ma posso assicurarvi che la precedente citazione è un’eccezione alquanto rara all’interno di un’accozzaglia di retorica assai poco cesellata.

Gli è che, a mio modesto parere – per carità, son giornalista, mica poeta! –, quel simbolo di un potere tanto visibile quanto occulto, fu senz’altro una ricca fonte d’ispirazione, tanto che ingravidò le loro bocche di belle parole e le loro teste di cattivi pensieri. Insomma, quella stessa forza contro cui si battevano – che loro definivano populista – finì con l’offrirgli i semi per i loro miglior frutti, e questo ci basti per affermare che non sempre l’arte nasce dal bello e dal buono, anzi, ché a ben vedere pare proprio che prenda forma per il verso contrario.

Per certo si era di notte, nell’ora popolata dai mostri, per quanto gli studi fossero illuminati a giorno, poiché la scatola dei sogni in technicolor non si addormenta mai, e di conseguenza non dorme chi vi sta dietro a dipanarne i fili. Di spiriti i nostri scrittori dovevano vederne assai, e di fantasmi pure, annebbiati com’erano dalla loro ideologia e da tutto quell’alcool: mostri che con le loro fauci inghiottivano il paese e lo sprofondavano nella melma della barbarie. Ed era proprio per combattere contro queste terribili creature ch’essi erano arrivati ai piedi del tempio a cristalli liquidi, del totem degl’imbonitori che abbagliavano gli spettatori di bianchi sorrisi e di sguardi invitanti, mentre zompavano da un’inquadratura all’altra senza perder mai il centro dell’immagine.

Immaginateveli davanti a quell’enorme blocco di vetro e cemento, finalmente giunti alla loro meta, con gli occhi tremolanti e la gambe molli, ma soprattutto orfani del dono della parola; perché così dovettero sentirsi quando si udì il cigolio di stivali in pelle in avvicinamento sull’asfalto, mentre la voce di una guardia urlava il chi va là…

Simone Ghelli

* Si narra che nel 1187 Ottone Visconti sconfisse in duello un principe Saraceno che portava sul proprio elmo una grossa serpe che ingoiava un infante. Dopo aver schiacciato l’esercito saraceno come si schiacciano i serpenti, quelle insegne strappate al nemico furono donate dal Visconti alla Cattedrale di Milano