Scrittori Precari Football Club

di Vanni Santoni

AtleticominacciaChi conosce il subcomandante Liguori, sa quanto sia forte in lui l’indole del coach (o dell’editore): poche cose gli fanno brillare gli occhi come il debutto in libreria di qualcuno che è passato da Scrittori precari (ed è qualcosa che avviene sempre più spesso, grazie al costante lavoro di ricerca che qui ha luogo, e allo spazio rilevantissimo che viene dato ai racconti, e in generale ai testi letterari, rispetto alla critica e ai contenuti di altro genere); e infatti, qualche settimana fa eccolo che mi fa “lo hai visto Marsullo?”, tutto pieno di orgoglio.
E certo che l’ho visto, Marsullo, il cui Atletico Minaccia Football Club è da poco uscito per Einaudi Stile Libero. L’ho visto e l’ho già letto, poiché è un libro dal passo svelto, ben scritto e soprattutto divertente, che si legge in poche ore ma ti lascia comunque con la pancia piena. Vi si narrano le vicende di una malmessa squadra di calcio minore e del suo straziato ma comunque entusiasta allenatore Vanni Cascione, tra alti e bassi e fino, naturalmente, alla partita decisiva. Ho letto altrove un accostamento di questo romanzo a Sforbiciate di Fabrizio Gabrielli, libro nato proprio a partire da una rubrica qui su Scrittori precari, e L’ascensione di Roberto Baggio, che ho avuto il piacere di scrivere assieme a Matteo Salimbeni. È vero che sono tre libri che parlano di calcio, è vero che lo fanno in modo leggero (ma ci mancherebbe che ci mettessimo a parlare di calcio prendendoci sul serio…), ed è vero che sono usciti a non troppa distanza l’uno dall’altro, scritti da autori che bazzicano o hanno bazzicato questo blog, ma rispetto ai due libri succitati, Atletico Minaccia Football Club è più narrativo e meno metacalcistico Leggi il resto dell’articolo

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Senza parallelo – una recensione a Sforbiciate di Fabrizio Gabrielli

[I lettori più attenti senza dubbio ricorderanno Sforbiciate, la rubrica – nata sulle ceneri de Il mondiale dei palloni gonfiati – di Fabrizio Gabrielli, che ha accompagnato i lunedì di SP durante la stagione calcistica 2010/11. Da quella rubrica l’editore Piano B ne ha fatto un libro. Lo hanno letto per noi Matteo Salimbeni e Vanni Santoni]

“Le idee dei grandi uomini sono patrimonio dell’umanità; ognuno
di loro non possedette realmente che le proprie bizzarrie.”

M. Schwob

Si può scrivere di calcio partendo da un dato, una partita, un gesto tecnico e svilupparlo in modo epico (o di cronaca); oppure si può partire da un dato immaginario, metterci un pallone, due squadre, un fischio d’inizio e lavorarci intorno e giocarci. Nel primo caso il lettore esperto di calcio è chiamato a confrontarsi con la rielaborazione che l’autore fa di un dato condiviso, del quale conosce i protagonisti e sul quale magari si è già fatto un’idea. Nel secondo caso, il lettore può pure non saperne nulla di calcio, l’importante è credere a quello che ti dice l’autore. Arpino, col suo Azzurro tenebra, partì da un angolo di storia ben preciso: i mondiali del ’74, e ci tirò su un paesaggio stellare, fatto di eroi, scontri titanici, drammatiche rese e colpi bassi, profezie a bordo campo e inevitabili tragedie, epiteti, litanie, scongiuri e sbronze leggendarie. Soriano se lo costruiva quell’angolo. Con un po’ di polvere, delle erbacce, i mapuches, Togliatti, la Patagonia. Fatto il campo da gioco, si inventava una partita. E magari la faceva pure arbitrare al nipote di Butch Cassidy. Gabrielli fa ancora un’altra cosa. Il suo Sforbiciate (Piano B, 2012) Leggi il resto dell’articolo

Gazza’s Superstar Soccer

In attesa di Fútbologia, dopo la pubblicazione dell’indice de Il mondiale dei palloni gonfiati e Il cigno di Utrecht, ritorna un racconto calcistico firmato Antonio Russo De Vivo.
Fútbologia è un festival di 3 giorni che si terrà a ottobre a Bologna, con conferenze, reading e incontri. In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora.
Fútbologia è un modo per ripensare il calcio. E tanto altro ancora.

Un giorno noi amici d’infanzia ci trovammo tra le mani una cassetta con un gioco di calcio nuovo per il commodore 64. Si chiamava Gazza’s Superstar Soccer, dal soprannome di un giocatore inglese che non conoscevamo ancora. Era divertente perché potevamo scegliere le squadre di club europee più prestigiose e le nazionali che avevamo da poco visto nel mondiale italiano. I giocatori piccoli, il campo di calcio enorme, non c’era proporzione. Quando ti mettevi in posizione diagonale rispetto alla porta, poco prima dell’area di rigore, e caricavi il tiro, era sempre gol: il portiere che sembrava un granchietto era anche lui troppo piccolo per la porta, e la palla allora, se angolata, non la prendeva mai. Io giocavo col Real Madrid, perché il Napoli non aveva più Diego, perché Diego era scappato, perché vedevamo i suoi gol su VHS come piccolinew romantic del pallone: qualcosa, senza saperlo, era quasi finito.

Nel 1992 Gazza venne in Italia. Biondo, occhi azzurri e mascella larga da supereroe (proprio come l’avevamo visto, la prima volta, a 8 bit), costò 26 miliardi, però il nuovo presidente della Lazio era il re dei pomodori e se lo poteva permettere. Giocò con i biancocelesti per due anni, ma fece poco. Ricordiamo ancora due cose in particolare. A Pescara segnò un gol in serpentina partendo a diversi metri dall’area di rigore e battendo a rete dopo aver superato quattro giocatori. Sembrava Diego, e non più solo per quel ventre che Leggi il resto dell’articolo

Il cigno di Utrecht

In attesa di Fútbologia, dopo la pubblicazione dell’indice de Il mondiale dei palloni gonfiati, ritorna un racconto calcistico firmato Antonio Russo De Vivo.
Fútbologia è un festival di 3 giorni che si terrà a ottobre a Bologna, con conferenze, reading e incontri. In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora.
Fútbologia è un modo per ripensare il calcio. E tanto altro ancora.

Il buon Marco giunse in Italia in sordina. Era il calciomercato 1987-88, l’anno prima il Napoli aveva vinto scudetto e coppa Italia. In quella squadra c’era Diego, il più forte di tutti, ma c’erano anche altri che quasi quasi potevano vincere senza di Lui, e dico quasi, perché si sa che il Napoli non ha vinto più nulla per oltre vent’anni. Ma questa è un’altra storia.
Dall’altra parte dell’Italia c’era Leggi il resto dell’articolo

Carta taglia forbici – 3

[Continua da qui]

Una piccola città lontana dall’Europa occidentale

Sua madre aveva vissuto per molti anni con suo padre, prima di lasciarlo per un altro uomo. Lui soffrì molto, e non dimenticherà mai il giorno in cui suo padre gli disse di non fare mai figli. Era il giorno in cui lui e la madre traslocarono in casa di un attore, un tizio che indossava sempre lo stesso jeans.
Il terzo marito di sua madre era gentile con lui e non condivideva l’opinione di sua madre sul fatto che fosse meglio per lui odiare il padre piuttosto che amarlo.
Una volta, un giorno che la madre era andata a trovare le sorelle in una città vicina, il terzo marito lo portò a casa di suo padre. Sua madre non seppe mai nulla e lui apprezzò molto il gesto. Quando la madre lasciò quell’uomo lui pianse, perché capì molte cose, e la prima tra tutte era che non si sarebbe mai fidato di una donna.
A scuola non riuscì a entrare in nessuna squadra, anche se aveva provato con tutte le sue forze. Pare che fosse negato per il basket, il baseball, il tennis, la pallavolo, il softball, la ginnastica artistica, il football, il calcio, e ovviamente anche la scherma. Leggi il resto dell’articolo

SQUAQQUERONIA, IL PAESE SEMPRE UGUALE A SE STESSO

Squaqqueronìa si chiamava diversamente, una volta, ma stai a vedere che se lo ricorda mica nessuno come.

Piuttosto vivida è invece la memoria di quando, ormai col cervello marmellatizzato, i cittadini con un moto spontaneo di coscienzioso reprimenda decisero di sposare quel nome ripugnante che suonava come un male pernicioso, significante significativamente malformato, molto circo Barnum, molto eccezionalità, con tutte quelle q.

A Squaqqueronia si tosavano le pecore e si tentavano le scalate con le Opa, si andava al mare e s’indossavano sandaletti di plastica col pellicciotto all’interno.

E poi si giuocava al calcio, a Squaqqueronia, come un po’ ovunque.

E c’erano i giornali: quotidiani, mensili e settimanali. Quasi tutti parlavano di calcio.

A Squaqqueronia, il giorno delle partite, ventidue calciatori zompettavano sul pratino verde, mentre sugli spalti si cantava, ci si scaccolava, si guardava il culo alle hostess e piaceva fumare sigaretti. Anche bere caffè Borghetti.

A Squaqqueronia quelli che andavano allo stadio non li leggevano, i giornali, nemmeno i libri, neppure le etichette del caffè Borghetti. A che serve, leggere?

Ciononostante, a Squaqqueronia i due quotidiani principali una volta s’erano sfidati a colpi di reportaggio: uno aveva intitolato il suo esclusivo servizio d’approfondimento “Un paese nel pallone”.

L’altro, di titolo, dell’altro, di giornale, era “Un paese in panne”, e si concentrava sulle preferenze squaqqueròniche sul gelato: creme o frutta? Una questione annosa, in buona sostanza. (e comunque chi faceva quel giornale se ne fregava del gelato, ed in prima pagina sbatteva i tortellini) (e comunque non quelli spessi) (e comunque poi lo faceva discretamente spesso, di criticare il tortellìnàro).

Un paese, se è nel pallone o in panne, non ti puoi mica sbagliare più di troppo: non se la passa granché bene.

A Squaqqueronia nulla importava più del giuoco del calcio: la metà dei squaqqueronìni si sentiva autorizzato ad ostentare la sua smodata fede fottendosene di preti, gesuccristi, presdelconz e padroni: contava solo la squadra (del giuoco del calcio) del quore (a Squaqqueronia una volta andavano di moda le k, ora era la stagione delle q).

Squaqqueronia urbe d’ultras era sempre stata mica per ischerzo.

Dove politica, religione e sindacati avevano visto naufragare ogni mira ecumenistica, era riuscito il tifo.

Tifare era l’unico modus operandi riconosciuto, in ogni campo: un collante sociale, etico, morale fatto di cori da stadio ed invettive.

Era una colla strana, quella. Appiccicosa come l’odio.

C’era una squadra, a Squaqqueronia, che da sempre rappresentava ed incarnava le contraddizioni irrisolvibili del paese. Si chiamava Giobbe, o qualcosa del genere, anche noialtri scrittori di Squaqqueronia ad un tratto ci siam tutti squaqqueronati, non voletecene.

Giobbe era il club del padrone, ma era amato dai servi. Di domenica. Perché poi dal lunedì al sabato i servi lo odiavano, il padrone. Che però era pure il padrone della squadra. E la squadra mica si smetteva d’amarla, il lunedì.

Non so se ho già detto che Squaqqueronia si srotolava come una lingua di vomito sull’asfalto, longitudinalmente.

La squadra Giobbe era al capo della slavina terricola, a pochi chilometri dalla città di Gorgonzola, che pure aveva due clubs: Gorgonzola Dolce e Gorgonzola Piccante.

Gorgonzola Dolce aveva, per presidente, quella zuccherina persona amica del dolcissimo presidente del partito che conosceva molto bene pure lo stucchevole presidente d’un’emittente televisiva.

Gorgonzola Piccante, al contrario, era amata dai fondamentalisti del gorgonzola, gente che guai a parlargli di ròbe senza muffa e senza nebbia, non sia mai, anche se poi, a conti fatti, nelle stanze di maturazione c’andavano a lavorare tutti maghrebini o africani, ma che importa, ciò che conta è tenere alto il nome del Gorgonzola e lontani i puzzolenti caciocavallo.

Caciocavallo era come veniva generalmente chiamato il cittadino della Squaqqueronia meridionale, mi sembra di ricordare. Cert’altre volte lo dicevano Torrone, perché era duro ed indigesto eppure dolcissimo, con quelle spiagge di zucchero filato ed il sole di arancia candita.

Il caciocavallo, nonostante l’odio profondo professato nei suoi confronti, non voleva altro che sentirsi un po’ gorgonzola pure lui.

Ed allora gridava, certe volte, quando poteva, Gor-gon-zo-la mentre dagli spalti facevano buuu caciocavallo.

Noialtri, a Squaqqueronia, poi c’è stato un giorno che abbiamo toccato il fondo.

Però ancora deve venire, quel giorno

Lo sai che faceva, el mulero Pedro Lago, attaccante del Peñarol negl’anni Quaranta? Cancellava coi piedi le tracce della sua giocata, così gli avversari non l’avrebbero mai compresa, o copiata.

Noialtri questa furbata del cancellare le tracce l’abbiamo ancora mica capita, ed ogni giorno è tutto un ripetere a memoria gli schemi che c’hanno insegnato..

Come volete che venga, la copia di una copia di una copia di una copia?

Sbiadita.

Magari un giorno la smetteremo con gl’impianti metaforici, tutti uguali l’uno all’altro: che poi le allegorie che mescolano calcio, vita e politica, a voler fare una ròba diversa, vengon bene pure coi formaggi, dopotutto.

[La Repubblica ha incaricato Demos di compiere questo studio qua. Che non ci spiega nulla delle preferenze calcistiche, eppure fotografa appieno il nostro bel paese. Ch’è pure il nome d’un formaggio, infatti).

Fabrizio Gabrielli

Io, lui e il calcio

«Allora Alessandro, che ne dici? Ti alleni con noi?»

«A me il calcio fa schifo! »

« … »

Lo dissi alla tenera età ( non ho mai capito perché si usi dire così anche se nel mio caso, vista la pingue forma, ci stava tutto) di sei anni.

Papà Erio portava il suo unico. Figlio. Maschio. A vedere il calcio.

Adesso… il “calcio”! Era la società sportiva del paese in cui ho vissuto fino a quando non hanno ceduto i miei nervi ormonali e adolescentEmozionali. Romano io!? No. Io sono ciociaro. E ai romani i ciociari non piacciono. Siamo burini.

Comunque sto divagando. Al tempo del fattaccio mi toccarono 90 minuti di partita, più allenamento, più pippone pre-visione su quanto il calcio sia lo sport più praticato al mondo.

Ricordo ancora il freddo degli spalti fatti di comodissimo cemento grigio, il freddo della giornata novembrina e il freddo che tormentava le mie chiappette annoiate.

E poi mio padre.

«Guarda come si divertono! Guarda quanto movimento! Guarda quanto è bravo quello! Guarda…»

«Guarda l’orologio che vorrei sapere quanto manca per andare via», avrei pensato, ma so che in qualche modo lo feci, se avessi avuto la mia linguaccia di ora guardando il sapiens con fare sfottuto.

Io sorridevo invece, cortese, che al tempo lo ero, sorridevo compiaciuto di tanto amore e passione del mio babbo romanista nell’anima, nel sangue, nelle parole, opere e omissioni.

Il buon uomo voleva quello che vorrebbero tutti i padri prima (o dopo!?) della laurea e un’istruzione: vedere il loro figlio maschio far volteggiare la sfera, infilare goal spettacolari e correre facendo l’aeroplanino o qualsiasi cazzata gli passi per la mente o si sia preparato per l’occasione.

Alla fine dell’allenamento, mentre il mio culotto tentava di riconciliarsi con la forma che aveva avuto prima di arrivare in quel campo umido, mi ritrovai davanti all’allenatore separato soltanto da una leggera rete metallica verde bottiglia.

Io. Il Mister. Erio.

Mister. «Allora Alessandro, che ne dici? Ti alleni con noi? »

Io. Sguardo verso papà sorridente, imbonitore, compiaciuto, sguardo al Mister.

Sguardo verso papà super sorridente, super imbonitore, super compiaciuto, sguardo al Mister.

«A me il calcio fa schifo! ».

Ecco. Come si può commentare il gelo che scende in una situazione del genere? Era Glaciale? Inverno Post Atomico? Atmosfera di Plutone!? Fate un po’ voi.

Papà non rideva più, non imboniva più, non si compiaceva più.

Il Mister. si fece una gran bella risata e disse «Alla faccia della sincerità! Erio, niente da fare…».

«Grazie Enzo».

Ci avviammo verso l’automobile, sul viale pieno di ghiaia e sassolini, con il rumore ritmico e sonoro tipico di quelle passeggiate, presi la mano enorme (mio padre è ancora oggi un gigantesco ammasso di tenerezza, ossa e muscoli da non fare incazzare please) che mi penzolava vicino alla faccia e buoni buoni entrammo in macchina.

Accese il riscaldamento e prima di mettere in moto mi disse «Vabbè, Alessà che sport vuoi fare?».

Risposi quello di più ovvio per un giovanottino di sei anni «Il karate! ».

«Il karate… il karate!? IL KARATEEE!? » lo so che mio padre ebbe un attacco tipo Bruce Banner quando sta diventando Hulk dentro la sua testa, ma quello strano embolo rimase circoscritto alla vena sulla sua tempia e non si palesò. Io per quanto mi riguarda, segnai il mio destino fatto di più di 25 anni di sudore, lacrime e mazzate nei pesi massimi.

Però non mi sono mai fatto male come chi gioca a calcio!

Il calcio per me è sempre legato a mio padre. A Erio.

Erio. Vigile urbano motociclista. Un armadio quattro stagioni con spazio anche per i piumoni, amava (e ama) il calcio: lo mangiava a colazione per strada, a pranzo a casa, nel bar il pomeriggio e a cena davanti al camino. Non c’era sonno perso che non valesse una partita. (Adesso che è in pensione vorrebbe Skydecoderdigitaleterrestreeancheextraterrestreportamivia per vedersi tutte le partite, ma con mamma abbiamo optato per un unanime «No! » Arginando con qualche canaletto dove l’ho pescato a vedere partite tipo Burundi vs Burkina Faso… ma si può!?).

Lui ha sempre saputo tutto del pallone, nomi e cognomi, soprannomi e altezze e misure e che mutande portano, abitudini alimentari, sessuali, un CSI del campionato. A casa c’era sempre una copia del Corriere dello Sport e quando andavo dal nostro giornalaio di fiducia e chiedevo il Corriere dovevo subito riconsegnare il quotidiano sportivo e precisare «Della Sera. Grazzzie».

E la casa risuonava letteralmente delle voci di Galeazzi, Mosca e Biscardi e la sigla bellissima di 90° Minuto e gli applausi mentre io passavo per il salotto.

Fumetto in mano.

Libro in mano.

Spartiti in mano.

Rivista di musica in mano.

Quotidiano in mano.

Erio, mi guardava cagnone allora, mi puntava dal salone e si faceva un po’ più in là sul divano mentre con un occhio (roba da diventare ciechi o strabici) guardava la moviola e mi faceva pat pat sul cuscino accanto a lui.

Io passavo. Prendevo il tè e tornavo in stanza. Mentre alle mie spalle il televisore White Westinghouse vomitava «Tiro!Fallo!Rigore! L’ammonizione non c’era! ». il buon genitore tornava allora alla sua posa: mano protesa verso la tivvù e una smorfia di disgusto verso tutto quello che accadeva.

Ci ho provato a capire il calcio giuro! Non mi viene proprio… Mi piace guardare quello inglese, bello deciso e incazzoso, ma non è che sto lì a cercarmelo tra i programmi o a leggere i palinsesti televisivi per capire quando poterlo vedere. Avevo Clive Barker, Sam Raimi, il primo grande Dream Team, il Banco del Mutuo Soccorso, i Genesis, Poe, Lovecraft, alcuni classici. Ahò! C’avevo da fa!

Andai a fare anche delle partitelle con gli amici che giustamente, visti anche i piedi abbastanza a banana e i miei trascorsi sportivi (aggiungete al karate, football americano e basket), mi sbattevano in porta dove ero una specie di grosso Cerbero che mordeva chi entrava in area. Non andava bene per niente. Per me. Per gli attaccanti. Per la squadra.

Puntuale nella vita arrivò la consapevolezza del rito del Mondiale e di come affrontarlo.

Ci sono addirittura fotografie che mi ritraggono esultante con il tricolore.

Non sono fotomontaggi. Da ragazzino mi facevo travolgere dall’ondata entusiasta del tifo casalingo, a cui si aggiungeva la mia pepata mamma che in quei momenti tirava fuori di tutto dalla bocca e dai gesti e io ero lì che guardavo.

Era un modo per gridare per strada, per urlare libero e sentire mio padre che strombazzava con il clacson mentre un tizio con un altoparlante montato chissà come sul tettuccio della sua Fiat 124 faceva sentire un commentatore noto (a me misconosciuto ancora oggi) recitare, sì recitare, la formazione del mondiale dell’ ’82 e ripetere all’annullamento (come i mantra buddisti) la frase “Campioni del mondo!”

Facevo casino ed era bellissimo.

Poi divenne un modo per stare con gli altri amici, che mi guardavano sempre storto quando dicevo che non mi piaceva il calcio, e ci si vedeva a casa per radunarsi e osservare religiosamente la partita, io però non capendo una cippa avevo ben poche opzioni durante i novanta e passa minuti.

a- Esultare al goal

b- Stringere i denti ad un goal quasi fatto o quasi subito

c- Allungare il mio “Nooooooo” all’inverosimile quando entrava il pallone nella nostra rete.

Per il resto ero spettatore degli spettatori.

Ma quanto mi costava il mondiale? A che consapevolezza sono arrivato?

A me sto’ grande circo non costa nulla, viene ogni quattro anni (se non sbaglio) ed è un delirio d’azzurro vestito che arriva prende la principessa e se ne va, o con un’erezione tanta o con le pive nel sacco!

Soprattutto quanto mi costava vederlo con Erio? Niente. Ho chiaramente parlato delle mie motivazioni, ma poi l’età un po’ di senno lo porta e mi sono accorto di come mio padre si entusiasmava al parossismo quando eravamo insieme, quando con il sedere a 3 centimetri dal divano e il corpo proteso come su uno starter dei 100 mt mi diceva «Guarda che azione! Prendi il pane e prosciutto! No! Aspetta! Va che roba! Dai che mangiamo! La birraaaa! Oddio ferma tutto! Attentiiii!».

E io ridevo e facevo avanti e indietro tra le sue parole e le azioni che mi gridava, sospeso tra fare e ascoltare.

Da tanto non guardo un mondiale con papà, la vita mi ha portato a Milano, poi a Roma e tra mille cose è difficile che me ne torni al paesello a vedere il mondiale, anzi spesso sono addirittura fuori in quei giorni così evito l’orchite acuta davanti alla tv. Sarà dai 90 che non guardo le partite con Erio che non sento tutte le sue eventuali strategie, le scelte di giocatori che avrebbe fatto, le sue lamentele e quella buonanotte che suonava come un «A domani soldato! Vedrai che vinceremo!».

A me non continuava e non continua a fregarmene del calcio, i mondiali sono soltanto un grande party dove si dismettono i panni dello juventino, del laziale, del romanista e si mettono quelli dell’italiano, e facendolo si può UNITI coglionare un’altra nazione che ha perso contro di noi, non ci sono discorsi sull’unità d’Italia o sul senso della nazione. That’s it!

Eppure quest’anno voglio andare a casa, almeno per una partita. Portare birra e wurstel e maionese, tirare fuori l’hooligan frustrato che avrei voluto essere e dare grandi pacche a Erio, brindare con lui, strozzarci per un’azione sghemba, davanti a quel televisore (lo stesso White Westinghouse) da tanti anni litigato tra mani in cerca del potere del canale e far sentire mio padre il capitano della nostra squadra, sostenuto dal suo attaccante preferito, perché io e Erio non abbiamo molte cose in comune o passioni di cui poter parlare e il mondiale è una livella che ci fa stare vicini più di quanto si possa pensare e alla fine dei novanta sudatissimi minuti, so che io parlerò di calcio e lui di libri. E se c’è una magia in questo diavolo di sport per me è soltanto questa.

Alex Pietrogiacomi

Il mondiale dei palloni gonfiati, giusto, scrivo quel che voglio? – II

Seconda parte

[continua da qui]

-Francia ‘98

Da Baggio a Baggio, in quattro anni appena.
Ecco: in quei quattro anni si era ribaltato il mondo, per noi tifosi del Bologna. Nel ’94 il nostro fantasista era Alvise Zago, nel ’98 era Roberto Baggio. Non proprio la stessa cosa.
In quattro anni eravamo passati di filata dalla serie C1 alla qualificazione per l’Intertoto, l’anticamera della coppa Uefa, con Uliveri allenatore. Lo sapevamo tutti che Baggio era venuto a Bologna solo per giocare titolare e conquistarsi i mondiali, d’accordo, era stata una cosa un po’ utilitaristica, ma ci aveva regalato ventidue gol, intanto, noi gli avevamo tributato incondizionato affetto, ecco, speravamo che Baggio, commosso da quell’incondizionato affetto, decidesse di rimanere a Bologna un altro anno. Giocare la coppa Uefa con noi, magari.
Invece aveva preferito andare all’Inter, a litigare con Lippi. Cioè, questo non lo sapeva, immagino, che avrebbe litigato con Lippi e sarebbe stato impiegato col contagocce, ma era andata così e peggio per lui.
Per questo avevo seguito l’Italia in preda a sentimenti misti. Il nostro amatissimo Baggio declassato a stimatissimo Baggio, che regalava assist a Vieri e segnava rigori col Cile, quel Cesare Maldini in panchina che, insomma, non mi trasmetteva proprio tutto questo sentimento di esaltazione.
C’era stata la partita con la Francia, ai quarti di finale. A un certo punto, ai supplementari, Baggio aveva avuto la palla della vittoria. Un tiro al volo, di destro. Sarebbe stato un gran gol.
Aveva fatto dei gran gol per tutto quell’anno, con la maglia sacra del Bologna. Gli faceva bene, avere addosso la maglia del Bologna. Anche litigare con Ulivieri, si vede, gli faceva bene. Fosse stato ancora del Bologna, quel gran destro al volo sarebbe finito con la rete gonfia e la Francia sarebbe andata a casa.
Invece aveva già addosso la maglia dell’Inter, e le litigate con Lippi si sarebbero rivelate meno stimolanti di quelle con Ulivieri. Il tiro al volo era finito fuori di un centimetro. Di un niente.
Poi Di Biagio aveva tirato un rigore sulla traversa. Mondiali finiti ancora una volta.
Doveva restare a Bologna, Baggio, lo ripeto. Gli avrebbe fatto bene.

-Giappone-Corea 2002

I mondiali del 2002? Qualcuno si ricorda i mondiali del 2002? Quella squadraccia orrenda? Che, sì, va bene l’arbitro Moreno, ma Vieri che sbaglia un gol da un metro e Maldini che si fa scavalcare da un nano, ne vogliamo parlare?
Io no, quella squadraccia non me la ricordo se non vagamente, non ho sofferto per la Corea, non ho inveito più di tanto contro Moreno.
Io ero in uno stato placido, da un lato. In uno stato esplosivo, da un altro lato.
Stavo placidamente con Martina. Stavo placidamente in serie A, a godermi i gol di Signori e qualche avventura in Europa senza grossi scossoni.
E avevo finalmente esordito. Nove mesi prima di quel mondiale, era uscito il mio romanzo d’esordio: Despero, la storia del peggior chitarrista del mondo.
Insomma, quando Ahn aveva mangiato in testa a Paolo Maldini e la Corea aveva mandato a casa l’Italia di Trapattoni, io avevo accolto la cosa con suprema indifferenza.
Diversa dall’aperta ostilità di quattro anni dopo.

-Germania ‘06

Quattro anni dopo mi ero ritrovato a sperare che l’Italia uscisse al primo turno, che andassero tutti a casa bastonati e umiliati e vilipesi. Tutti, senza pietà.
Il Bologna che era finito in B grazie a Calciopoli, il Bologna aveva perso uno spareggio col Parma che mai dovuto giocare, grazie alle alte manovre che ci avevano affondati.
E io, di conseguenza, odiavo tutti. In ambito calcistico, eh?
Incattivito da Calciopoli, mi ero dedicato a un totale e orgoglioso disprezzo per la squadra di Lippi, di Cannavaro, di Camoranesi, per la nazionale in generale, in verità, che tanto lo sapevo, lo so com’è fatto questo paese: c’era sdegno in quel momento, sì, tutti erano per la mano pesante, si parlava della Juve nel dilettanti, del Milan in B, della Fiorentina penalizzata di venti punti, ma se l’Italia avesse vinto i mondiali, cosa sarebbe sucesso? Tarallucci e vino, volemose bene, le solite cose di casa nostra, e poi, di lì a qualche anno, si sarebbe parlato di un complotto dei giudici, di ingiustizie, del povero Moggi capro espiatorio, cose così, già viste in altri ambiti.
E io che invece volevo il sangue, niente di meno, in quanto parte lesa, mandato da Calciopoli a giocare a Crotone e a Terni, mi ero dato al tifo contro. Cioè, la metà delle partite neppure le avevo guardate. Il giorno del rigore di Totti all’ultimo minuto con l’Australia, per dire, ero su un treno per Lucca.
Se le avevo guardate, lo avevo fatto sibilando disprezzo e disgusto verso i nemici della mia povera e vessata squadra rossoblu. Io che andavo in giro a dire che quella canzoncina che cantavano tutti si chiamava Seven Nation Army, mica po-poppòpoppoppò-po, era dei White Stripes, lo dicevo a tutti, in quei giorni in cui ero particolarmente insopportabile per me stesso e per il mondo.

Il gol di Grosso con la Germania, quello l’avevo accolto con sentimenti misti.
Dopotutto Grosso era il meno colpevole di tutti. Non ci aveva fatto niente, lui. Era il classico normalissimo giocatore baciato dall’energia cosmica che ogni tanto, per un mese, durante i mondiali, trasforma un qualunque Schillaci in un bomber implacabile.
Al raddoppio di Del Piero invece, avevo pensato Ecco, il solito juventino inutile che si prende la gloria quando il lavoro importante l’ha già fatto un altro.
Comunque, l’Italia era approdata in finale. Contro la Francia.

Avevo preso una decisione difficile. Considerando l’antipatia per il ct della Francia –non che mi fosse simpatico Lippi, ma con Domenech si trascendeva a un livello superiore-, considerando il momento, come dire, storico, l’idea di veder vincere un mondiale, vabbè, avrei seppellito per una sera la mia personale ascia di guerra, e tifato Italia. Però, in caso di vittoria, niente festeggiamenti e niente caroselli d’auto. A casa, subito. A pensare al mercato del Bologna.
Con quella lontana finale dell’82 c’erano stati dei curiosi parallelismi.
Intanto, la partita l’avevo vista di nuovo in Riviera. Allo stabilimento Hana-Bi di Marina di Ravenna, qualche decina di chilometri a nord di Igea Marina. Poi, come quando avevo esultato per il gol di Antognoni annullato col Brasile, di quel che era accaduto sul campo non avevo capito niente.
C’era stato il rigore di Zidane che aveva colpito la traversa, ed io mi ero prodotto in un sentito gesto dell’ombrello. Io che negli anni, di tiri dagli undici metri, ne avevo visti cinquemila.
Poi mi ero chiesto Ma perché quel deficiente di Zidane sta esultando?

Poi Toni era scattato in avanti su una punizione, colpo di testa, gol. Avevo esultato –con moderazione- sulla spiaggia, poi mi ero girato, avevo visto che Toni non stava esultando affatto, neppure con moderazione. Fuorigioco. Annullato.
Con tutte le partite di calcio che avevo visto in vita mia, ero ritornato al grado zero della comprensione.

Cos’avevo pensato quando Grosso aveva preso la rincorsa per l’ultimo rigore?
Avevo pensato: adesso, in qualche modo, entriamo nella storia.
Avevo pensato: domani assolvono metà degli imputati di Calciopoli.
Avevo pensato: bello vincere un mondiale.
Avevo pensato: Grosso non sbaglia, non può sbagliare, non sarà un gran giocatore ma ha la luccicanza addosso, quel superpotere che non ti abbandona per tutta la durata di un mondiale e poi ti fa tornare il giocatore mediocre che eri, ma con anni e anni di ingaggi futuri garantiti.
Avevo pensato: adesso festeggio un po’, sbevazzo nella calca festante, mi tappo le orecchie per non sentire quell’insopportabile po-popopoppò-po, e poi corro alla macchina, che ho collocato in posizione di fuga strategica, torno a Bologna seguendo strade secondarie che solo io conosco, mentre tutti quanti si ammasseranno sul lungomare a clacsonare.

Due ore dopo, con la testa ancora rintronata da Seven nation army udita settecento volte per tutta la lunghezza della pineta di Marina di Ravenna, ero arrivato finalmente a casa. Avevo cercato su internet le ultime di calciomercato.
Il Bologna aveva quasi concluso l’acquisto di Emanuele Filippini, ex Brescia, Parma, Lazio, Palermo e Treviso.
Ed io, già mentalmente lontanissimo da Grosso e Materazzi e Luca Toni, avevo sorriso soddisfatto.

-Sudafrica 2010

Chi sta trattando il Bologna? Meggiorini?
Chi è, quello del Bari? E con Diego Perez, poi, come siamo d’accordo?

Gianluca Morozzi