luglio 12, 2010
di scrittoriprecari
«Allora Alessandro, che ne dici? Ti alleni con noi?»
«A me il calcio fa schifo! »
« … »
Lo dissi alla tenera età ( non ho mai capito perché si usi dire così anche se nel mio caso, vista la pingue forma, ci stava tutto) di sei anni.
Papà Erio portava il suo unico. Figlio. Maschio. A vedere il calcio.
Adesso… il “calcio”! Era la società sportiva del paese in cui ho vissuto fino a quando non hanno ceduto i miei nervi ormonali e adolescentEmozionali. Romano io!? No. Io sono ciociaro. E ai romani i ciociari non piacciono. Siamo burini.
Comunque sto divagando. Al tempo del fattaccio mi toccarono 90 minuti di partita, più allenamento, più pippone pre-visione su quanto il calcio sia lo sport più praticato al mondo.
Ricordo ancora il freddo degli spalti fatti di comodissimo cemento grigio, il freddo della giornata novembrina e il freddo che tormentava le mie chiappette annoiate.
E poi mio padre.
«Guarda come si divertono! Guarda quanto movimento! Guarda quanto è bravo quello! Guarda…»
«Guarda l’orologio che vorrei sapere quanto manca per andare via», avrei pensato, ma so che in qualche modo lo feci, se avessi avuto la mia linguaccia di ora guardando il sapiens con fare sfottuto.
Io sorridevo invece, cortese, che al tempo lo ero, sorridevo compiaciuto di tanto amore e passione del mio babbo romanista nell’anima, nel sangue, nelle parole, opere e omissioni.
Il buon uomo voleva quello che vorrebbero tutti i padri prima (o dopo!?) della laurea e un’istruzione: vedere il loro figlio maschio far volteggiare la sfera, infilare goal spettacolari e correre facendo l’aeroplanino o qualsiasi cazzata gli passi per la mente o si sia preparato per l’occasione.
Alla fine dell’allenamento, mentre il mio culotto tentava di riconciliarsi con la forma che aveva avuto prima di arrivare in quel campo umido, mi ritrovai davanti all’allenatore separato soltanto da una leggera rete metallica verde bottiglia.
Io. Il Mister. Erio.
Mister. «Allora Alessandro, che ne dici? Ti alleni con noi? »
Io. Sguardo verso papà sorridente, imbonitore, compiaciuto, sguardo al Mister.
Sguardo verso papà super sorridente, super imbonitore, super compiaciuto, sguardo al Mister.
«A me il calcio fa schifo! ».
Ecco. Come si può commentare il gelo che scende in una situazione del genere? Era Glaciale? Inverno Post Atomico? Atmosfera di Plutone!? Fate un po’ voi.
Papà non rideva più, non imboniva più, non si compiaceva più.
Il Mister. si fece una gran bella risata e disse «Alla faccia della sincerità! Erio, niente da fare…».
«Grazie Enzo».
Ci avviammo verso l’automobile, sul viale pieno di ghiaia e sassolini, con il rumore ritmico e sonoro tipico di quelle passeggiate, presi la mano enorme (mio padre è ancora oggi un gigantesco ammasso di tenerezza, ossa e muscoli da non fare incazzare please) che mi penzolava vicino alla faccia e buoni buoni entrammo in macchina.
Accese il riscaldamento e prima di mettere in moto mi disse «Vabbè, Alessà che sport vuoi fare?».
Risposi quello di più ovvio per un giovanottino di sei anni «Il karate! ».
«Il karate… il karate!? IL KARATEEE!? » lo so che mio padre ebbe un attacco tipo Bruce Banner quando sta diventando Hulk dentro la sua testa, ma quello strano embolo rimase circoscritto alla vena sulla sua tempia e non si palesò. Io per quanto mi riguarda, segnai il mio destino fatto di più di 25 anni di sudore, lacrime e mazzate nei pesi massimi.
Però non mi sono mai fatto male come chi gioca a calcio!
Il calcio per me è sempre legato a mio padre. A Erio.
Erio. Vigile urbano motociclista. Un armadio quattro stagioni con spazio anche per i piumoni, amava (e ama) il calcio: lo mangiava a colazione per strada, a pranzo a casa, nel bar il pomeriggio e a cena davanti al camino. Non c’era sonno perso che non valesse una partita. (Adesso che è in pensione vorrebbe Skydecoderdigitaleterrestreeancheextraterrestreportamivia per vedersi tutte le partite, ma con mamma abbiamo optato per un unanime «No! » Arginando con qualche canaletto dove l’ho pescato a vedere partite tipo Burundi vs Burkina Faso… ma si può!?).
Lui ha sempre saputo tutto del pallone, nomi e cognomi, soprannomi e altezze e misure e che mutande portano, abitudini alimentari, sessuali, un CSI del campionato. A casa c’era sempre una copia del Corriere dello Sport e quando andavo dal nostro giornalaio di fiducia e chiedevo il Corriere dovevo subito riconsegnare il quotidiano sportivo e precisare «Della Sera. Grazzzie».
E la casa risuonava letteralmente delle voci di Galeazzi, Mosca e Biscardi e la sigla bellissima di 90° Minuto e gli applausi mentre io passavo per il salotto.
Fumetto in mano.
Libro in mano.
Spartiti in mano.
Rivista di musica in mano.
Quotidiano in mano.
Erio, mi guardava cagnone allora, mi puntava dal salone e si faceva un po’ più in là sul divano mentre con un occhio (roba da diventare ciechi o strabici) guardava la moviola e mi faceva pat pat sul cuscino accanto a lui.
Io passavo. Prendevo il tè e tornavo in stanza. Mentre alle mie spalle il televisore White Westinghouse vomitava «Tiro!Fallo!Rigore! L’ammonizione non c’era! ». il buon genitore tornava allora alla sua posa: mano protesa verso la tivvù e una smorfia di disgusto verso tutto quello che accadeva.
Ci ho provato a capire il calcio giuro! Non mi viene proprio… Mi piace guardare quello inglese, bello deciso e incazzoso, ma non è che sto lì a cercarmelo tra i programmi o a leggere i palinsesti televisivi per capire quando poterlo vedere. Avevo Clive Barker, Sam Raimi, il primo grande Dream Team, il Banco del Mutuo Soccorso, i Genesis, Poe, Lovecraft, alcuni classici. Ahò! C’avevo da fa!
Andai a fare anche delle partitelle con gli amici che giustamente, visti anche i piedi abbastanza a banana e i miei trascorsi sportivi (aggiungete al karate, football americano e basket), mi sbattevano in porta dove ero una specie di grosso Cerbero che mordeva chi entrava in area. Non andava bene per niente. Per me. Per gli attaccanti. Per la squadra.
Puntuale nella vita arrivò la consapevolezza del rito del Mondiale e di come affrontarlo.
Ci sono addirittura fotografie che mi ritraggono esultante con il tricolore.
Non sono fotomontaggi. Da ragazzino mi facevo travolgere dall’ondata entusiasta del tifo casalingo, a cui si aggiungeva la mia pepata mamma che in quei momenti tirava fuori di tutto dalla bocca e dai gesti e io ero lì che guardavo.
Era un modo per gridare per strada, per urlare libero e sentire mio padre che strombazzava con il clacson mentre un tizio con un altoparlante montato chissà come sul tettuccio della sua Fiat 124 faceva sentire un commentatore noto (a me misconosciuto ancora oggi) recitare, sì recitare, la formazione del mondiale dell’ ’82 e ripetere all’annullamento (come i mantra buddisti) la frase “Campioni del mondo!”
Facevo casino ed era bellissimo.
Poi divenne un modo per stare con gli altri amici, che mi guardavano sempre storto quando dicevo che non mi piaceva il calcio, e ci si vedeva a casa per radunarsi e osservare religiosamente la partita, io però non capendo una cippa avevo ben poche opzioni durante i novanta e passa minuti.
a- Esultare al goal
b- Stringere i denti ad un goal quasi fatto o quasi subito
c- Allungare il mio “Nooooooo” all’inverosimile quando entrava il pallone nella nostra rete.
Per il resto ero spettatore degli spettatori.
Ma quanto mi costava il mondiale? A che consapevolezza sono arrivato?
A me sto’ grande circo non costa nulla, viene ogni quattro anni (se non sbaglio) ed è un delirio d’azzurro vestito che arriva prende la principessa e se ne va, o con un’erezione tanta o con le pive nel sacco!
Soprattutto quanto mi costava vederlo con Erio? Niente. Ho chiaramente parlato delle mie motivazioni, ma poi l’età un po’ di senno lo porta e mi sono accorto di come mio padre si entusiasmava al parossismo quando eravamo insieme, quando con il sedere a 3 centimetri dal divano e il corpo proteso come su uno starter dei 100 mt mi diceva «Guarda che azione! Prendi il pane e prosciutto! No! Aspetta! Va che roba! Dai che mangiamo! La birraaaa! Oddio ferma tutto! Attentiiii!».
E io ridevo e facevo avanti e indietro tra le sue parole e le azioni che mi gridava, sospeso tra fare e ascoltare.
Da tanto non guardo un mondiale con papà, la vita mi ha portato a Milano, poi a Roma e tra mille cose è difficile che me ne torni al paesello a vedere il mondiale, anzi spesso sono addirittura fuori in quei giorni così evito l’orchite acuta davanti alla tv. Sarà dai 90 che non guardo le partite con Erio che non sento tutte le sue eventuali strategie, le scelte di giocatori che avrebbe fatto, le sue lamentele e quella buonanotte che suonava come un «A domani soldato! Vedrai che vinceremo!».
A me non continuava e non continua a fregarmene del calcio, i mondiali sono soltanto un grande party dove si dismettono i panni dello juventino, del laziale, del romanista e si mettono quelli dell’italiano, e facendolo si può UNITI coglionare un’altra nazione che ha perso contro di noi, non ci sono discorsi sull’unità d’Italia o sul senso della nazione. That’s it!
Eppure quest’anno voglio andare a casa, almeno per una partita. Portare birra e wurstel e maionese, tirare fuori l’hooligan frustrato che avrei voluto essere e dare grandi pacche a Erio, brindare con lui, strozzarci per un’azione sghemba, davanti a quel televisore (lo stesso White Westinghouse) da tanti anni litigato tra mani in cerca del potere del canale e far sentire mio padre il capitano della nostra squadra, sostenuto dal suo attaccante preferito, perché io e Erio non abbiamo molte cose in comune o passioni di cui poter parlare e il mondiale è una livella che ci fa stare vicini più di quanto si possa pensare e alla fine dei novanta sudatissimi minuti, so che io parlerò di calcio e lui di libri. E se c’è una magia in questo diavolo di sport per me è soltanto questa.
Alex Pietrogiacomi
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