L’inquilino del piano di sopra

di Matteo Salimbeni

La notte, al piano di sopra, sentiamo dei passi. Delle corse a ruzzoloni a perdifiato a passetti brevi e sguaiati. Le sentiamo da tempo. Da quando ci siamo trasferiti. E, forse, anche da prima. Da prima che cambiassimo casa. Ogni notte ne parliamo prima di addormentarci. Ci chiediamo: di chi saranno quei passi? Un essere umano che corre a quella maniera non ci sembra il caso. A che pro correre con tanta foga? E, soprattutto: come mai si dovrebbe correre per così tanto tempo fra le mura domestiche? Le corsette di mezza età si fanno al parco, alla buon’ora, con la tutina aderente e l’auricolare penzoloni in bella mostra, mica di notte in salotto in pigiama in pantofole dopo una giornata infernale d’appuntamenti incontri sviste e accidenti. E poi i passi non son quelli d’un uomo… L’uomo ha il marchio pesante. La pianta solida, piombata, che rimbomba. Anche l’adulto più esile, in qualche modo, fa il suo baccano e questi passi non sono pesanti. Ricordano più un frullo, o uno sfarfallio. Uno appresso all’altro, velocissimi e leggeri. “Un cane, forse!”, ci diciamo allora, ogni sera, quando l’occhio comincia a traballare. Ma è possibile che un cane sia lasciato tanto libero da un padrone? E poi, per far cosa? Per correre, citrullo, senza senso, mentre le persiane son già calate e nella casa ristagnano i puzzi del chiuso del buio e del russare? Che modi sono? Che padrone è un padrone tanto sordo ed accondiscendente? E comunque, quelli, son passi umani. Non c’è discussione che tenga. Le zampe fanno un altro tafferuglio. Si capisce chiaramente. E poi son quattro, di solito, le zampe. Non ci resta che un bimbo, ma a quel punto l’occhio ce l’abbiamo già inclinato pesantemente. Uno di noi sussurra: “Sarà un bambino. O un fantasma…”. Un brivido ci corre su per la schiena, dei passi echeggiano al piano di sopra e ci addormentiamo. Poi, al risveglio, ognuno prende la sua strada, ha da far le sue faccende, fra il lavoro, gli appuntamenti, i traguardi e gli accidenti, fra la motoretta che non parte, i tram che scricchiolano, le rincorse, i ritardi, le ginocchia cigolanti, le sigarette da comprare, le buste i pacchi i panieri da riempire e del bambino o del fantasma al Leggi il resto dell’articolo

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Rossella la bimba bassina – #fiabebrevichefinisconomalissimo

di Francesco Muzzopappa

Nella grande città di Arcata Superiore viveva una bambina di nome Rossella. Era tenera e paffuta, ben voluta da tutti, ma con un grosso problema. Era bassa. Nonostante i suoi 5 anni, aveva l’altezza di una bambina e tutti la prendevano in giro per questo.
SEI UNA BAMBINA! SEI UNA BAMBINA!
E lei piangeva di questo, perché è dura per una bambina essere alta come una bambina Leggi il resto dell’articolo

Io sono leggenda

di Angelo Zabaglio e Andrea Coffami

Ieri sera mi sono rivisto il dvd “Io sono leggenda” con Will Smith, quell’attore/rapper nero di colore che faceva Willy il principe di Bel-Air e che ora fa i film seri patriottici di Dio e di Muccino.
Fatto è che la particolarità di questa pellicola, oltre al fatto che per tutto il film (o quasi) ci sta solo Will Smith e il cane e alla fine lui salva il mondo intero solo perché è Will Smih (la svolta vera sarebbe stata se il mondo l’avesse salvato il cane, ma i produttori americani possono avere tanti soldi ma le idee proprio lasciamo stare).

Dicevo: fatto è che la particolarità del film, oltre al fatto che ci stanno gli umani contagiati che di notte mangiano le persone (e la particolarità vera sarebbe stata se magari invece degli zombie contagiati dalla rabbia che mangiano le persone, tipo gli cresceva l’impulso sessuale, e allora tutti a scopare e il mondo sarebbe imploso in se stesso, figli su figli denutriti, parti su parti, un mondo pieno di neonati che piangono e alla fine in tutto il mondo intero si stava come nella metro nell’ora di punta, tutti stretti stretti attaccati. Tutto il tempo eh! Perché non ci stava più spazio. Tutti azzeccati che non Leggi il resto dell’articolo

La storia di Johnny Fortuna – #fiabebrevichefinisconomalissimo

di Francesco Muzzopappa

Nessuno era più fortunato di Johnny Fortuna.
Se uno vinceva alla lotteria, lui ne vinceva due.
Se un tizio trovava un quadrifoglio per terra, lui ne aveva un intero stock.
Era davvero Leggi il resto dell’articolo

Qualcuno verrà

di Janis Joyce

Domenica è morta mia mamma. Oggi c’è stato il funerale, ma invece di portarmici mi hanno accompagnato dalla signora Fiaccabrino. Zia Milly è venuta a prendermi poco prima delle otto. Faceva caldo e abbiamo tenuto i finestrini aperti lungo tutto il tragitto. Incrociavamo i miei compagni di scuola, ma nessuno mi salutava. Sbirciavano da lontano e si giravano dall’altra parte. Ho cominciato la quarta elementare una settimana fa.
Mi spiace non poter venire in chiesa, ha detto la signora Fiaccabrino sull’ingresso, ma se è per tenere compagnia a Martino ci rinuncio volentieri. Lei e zia Milly sono state zitte per un po’ e ho capito che lo facevano perché se aprivano bocca si mettevano a singhiozzare. Continuavano a deglutire fissandosi negli occhi. La signora Fiaccabrino stava appoggiata allo stipite della porta e teneva una mano davanti alla bocca. È una donna piccola e magra, coi capelli a caschetto dritti e gialli come degli spaghetti. Non ha l’aspetto di una Leggi il resto dell’articolo

Everydog

«Cadendo sul coperchio di legno della bara,
il terriccio mandò quel suono che ognuno di noi
assorbe nel proprio essere come nessun altro.»

P. Roth, Everymen

Il cane lo avrebbero seppellito in serata. Il ragazzo coi boxer da mare e il petto nudo, bagno di pelle e sale sotto le ascelle non più glabre da un giorno. Ma scavava. Con suo padre si davano il turno, pala e piccone sulla pietra viva. Avevano iniziato a scavare che c’era ancora luce. La terra rossa fra i cespugli di lentisco, a qualche metro dalla casa. Le pietre gli avevano fatto spostare più volte il diametro della fossa. Le sradicavano facendo leva col piccone. Poi ancora pala. Pulivano la terra, al momento pulivano solo la terra, l’atto fisico – il lato tecnico che dilata il rito – per non meditare la morte, d’un animale, che non va mai rimasticata. Toglievano terra per ridargliene, cibarla: così va detto, così è andata.

Mai il ragazzo aveva visto un cane partecipare al funerale di un altro cane. La cagna nera – le mammelle gonfie – stava immobile, guaiva. Il muso lungo, curioso. Attorno alla casa un vigneto di uva scura e secca, un’altra villetta e in fondo una pineta. Nella pineta un villaggio turistico, altri cani. Il motivo per cui guaivano di notte, eccolo, una cagna che aveva appena partorito. Le notti insonni di quell’estate spiegate da un’epifania nera.
Adesso accucciata. «Non guardarla» disse l’uomo, poi chiese al ragazzo se volesse il cambio. Il tramonto. No, nessun cambio, nella fatica ammazzava il pensiero. Lo scambiare pala e piccone, veniva in mente la torta per il compleanno della mamma, tanti anni fa, per i polsi stanchi gli strumenti: frusta e setacciatore, cioccolata in polvere su lievito come terra rossa adesso. Leggi il resto dell’articolo

Il paese di Dio

Il paese di Dio (Nutrimenti, 2011)

di Percival Everett

 

 

Dove comincia il West? Per Percival Everett molto lontano dai luoghi comuni .

Nutrimenti (che ha pubblicato tutti i romanzi dell’autore americano in Italia) regala la traduzione del romanzo parodistico del 1994, God’s Country.

Un vero western che vede protagonista Curt Mader, antieroe per eccellenza, con tutti i difetti che i bianchi dell’epoca (solo dell’epoca?) potevano avere: codardia, xenofobia, ingenuità bifolca, sessualità pronunciata e tante balle pronte ad essere servite alla prima occasione.

Tutto comincia molto semplicemente.

Il protagonista si ritrova ad assistere alla distruzione del suo ranch, al rapimento della moglie Sadie e all’uccisione del suo cane. Spettatore di questa devastazione da dietro una collina fuori dalla portata delle pistole ovviamente.

Cosa fare dunque? Andare in città a chiedere aiuto e a cercare anime compassionevoli, con la sola amara constatazione che a tutti dispiace per il cane e se ne sbattono del resto, a tutti piange il cuore per quel cane ammazzato da un freccia indiana fatta con piume di gallina. Bianchi che assalgono altri bianchi.

Senza pensarci troppo si imbarca alla ricerca dell’unico uomo che, a detta di tutti, può aiutarlo: il braccatore Bubba. Un bravo braccatore, peccato che sia negro, peccato che sia negro nel west, peccato e basta.

Sulla strada incontra il piccolo Jake, orfano a causa dello stesso gruppo di scellerati visi pallidi che giocano a fare i pellerossa, e da lì la compagnia sembra essere pronta al viaggio.

La vicenda prende una piega assolutamente funambolica, tra venditori di bibbie, di pozioni miracolose, accampamenti indiani, fughe da bordelli, deserto, deserto e poi deserto Americano. Tutto per Sadie. Questa Sadie che sembra essere il primo e l’ultimo pensiero di Curt.

A farla da padrone dialoghi che sembrano usciti da Cocco Bill e Lucky Luke, ambientazioni cine fumettistiche e il tema della segregazione razziale nella terra delle grandi opportunità, dove il sogno americano è basato sul morire con le mani nelle tasche altrui, anziché morire con le mani in mano.

Romanzo come sempre trasversale e altamente satirico, che non sembra soffrire degli anni passati dalla prima pubblicazione grazie anche alla sempre attenta traduzione.

Naturalmente non mancano i colpi di scena e gli incontri “storici”, come il Generale Custer in gonnella … quante ne capitano nel paese di Dio!

 

Alex Pietrogiacomi

Gli strani (seconda parte)

Il citofono suona, trema epilettico.

Nessun movimento, dentro. Elena la osserva, ha il volto poggiato sull’imbottitura del bracciolo, il corpo storto, le gambe su di lei, abbandonate.

«Come faccio a sapere se c’è del pericolo, quelli-là non escono!»

La voce, sempre la stessa, viscida e inutilmente martellante: «Ho sentito le urla, le dico che ho sentito, sono sicuro!» Poi un brusio informe, instabile nel suo incedere oltre il perimetro della finestra. Il piccolo complesso di case rurali semi abitabili è isolato, costa poco, e una volta a settimana suppergiù il vecchio fa il suo teatrino. Funziona così. Le due donne si sono abituate in fretta. E con loro tutti gli altri.
Lei sbatte gli occhi, ha meno paura. Potrebbe muoversi (fare qualcosa, qualsiasi cosa) ma non adesso che – come ogni notte – è tempo di cedere, lasciarsi coccolare dalla coperta rassicurante dell’oscurità e sentirla respirare accanto. Elena le si acciambella su un fianco mentre l’odore di disinfettante evapora assieme al liquido verde. Sorride morbida, Elena.
Buio in casa.
Buio dentro.
Buio che restituisce asincronie.

Finalmente silenzio. Il sorriso si fa enorme, infinito, le spacca la faccia, due fette di melone maturo. Elena Sorrentini ha superato i cinquanta l’anno scorso. Ma in testa aveva pesanti file di parole da prima. Prima del (muti)lamento (termine medico ricorrente: esaurimento). Ed è stata una scelta semplice, la migliore. Farsi spazio dove pareva non esserci, affittare stanze dimenticate e smettere vestiti scomodi, destabilizzanti. Rinunciare al vivere agonizzante per qualcos’altro che è e non è (vita, morte, respirare, stare, andare, fa davvero tanta differenza?). Non si curano le ferite con chi sa – deve essere – normale, bollino certifica superfici. Non si cura niente se le spiegazioni si accoccolano sulle spalle spezzandole, se ci sono linee rette da percorrere in punta di piedi seguendo ritmi ciechi, parole da ripetere dentro riti manichini. Le ferite non guariscono, si infettano coi gesti che impongono la precisione del becchino mentre prepara un cadavere. Elena Sorrentini in altri secoli l’avrebbero rinchiusa. Peccato non si possa più, ha detto suo figlio Giacomo. Il giorno dopo se n’è andata.

Ora Elena si sente (e sente lei).

Quando il giorno muore e il buio ingoia gli altri. Gli-altri-tutti spariscono. Smettono qualsiasi cosa credono, vogliono, cercano di non essere.
I corpi tiepidi restano, si annusano, uniscono curve e spigoli. Assaporano ematomi e baciano ferite. Leccano umori e brividi.
Chiude gli occhi Elena, e lei prende ad aggrovigliarle i capelli corti. Sono nodi piccoli, miniature. Stretti abbastanza da restare. I polpastrelli le sfiorano la cute, carezze lontane, becchi svelti dalle unghie rotte.

Gli strani sono pericolosi, Tonino si strofina i dorsi delle mani, una zanzara lo ha pizzicato a tradimento poco prima, mentre seduto fuori fissava la finestra e pensava. Gli strani non hanno senso, legami né genere. Vanno e vengono. Più facilmente sono donne però, e si stropiccia gli occhi arrossati mentre tenta di reggersi in piedi senza barcollare. Figurarsi, pensa e ridacchia. Afferra la sedia artigliando la testata bucata e si avvia dentro casa. Figurarsi, le donne sono tutte un po’ matte.

E il cane, con le sue gambe storte e corte, aspetta paziente che il padrone chiuda la porta, spenga la luce esterna – solo allora – avvolto dal tepore, abbandona il corpo, la ghiaia gli pizzica lo stomaco ma è già umida, pronta per affondare nelle acque torpide della notte. Cede, il muso crolla sulle zampe anteriori, gli occhi si abbassano. Sputo attacca! è appena un bisbiglio rapito dal vento. Il cane sbuffa, scaccia una zanzara attirata dal suo naso liquido, si sposta allungando membra e arti. Aspetta. C’è ancora rumore sopra di lui, il padrone urla e ringhia ma è lento, arranca tra percorsi rituali, routine artritica. Un ultimo tonfo. Tutto si ferma. Sputo alza una palpebra, sottile fessura che perlustra. Notte densa, consistente. Pace. Il mondo incomprensibile si è spento. Sono tutti uguali, Sputo lo sa, i padroni sono tutti uguali. Mentre dimentica, cede alla stanchezza, si aspetta che domani non ci sia più nessuno. Che quell’affanno dipinto sulle facce sparisca, annulli tratti e sagome. Ne sente la puzza in continuazione, carcasse decomposte ovunque. Ricomincia sempre, però, ogni sole nuovo. Chi-è-cosa, sfugge al suo fiuto. Sono sensi che non conosce, lui vive di carne, sente carne, cerca carne. Ama, carne. Per Sputo si è. Il resto, non gli spetta. Non ce li ha, certi problemi.
Con la bocca piena di bava si addormenta.

E sogna.
Felice.

 

La vita è una,

questa, quella.

Qualcosa che arriva,

decisa o indecisa (sarà poi così necessario distinguere?)
La vita non aspetta. È.
E noi siamo. Unici. Soli.
(Sempre soli).
Con o senza corpi e voci,

con o senza affetti, mura o scadenze.
Soli, bene o male che vada.
Soli, sani e malati.
Soli morendo.

Come e cosa decidiamo,

sta tutto nei palmi.
In ciò che resta, lascia tracce.

O magari è solo uno sparire

sepolti da strati friabili

tra apparenze schizzate,

e folli amori.

Barbara Gozzi