Anime gemelle

Potete leggere qui di seguito il racconto Anime gemelle di Riccardo Ferrazzi, pubblicato sul terzo numero della bellissima rivista Atti Impuri, a cura del collettivo Sparajurij.

Qui potete leggere la recensione del secondo numero.

Inoltre, invitiamo gli amici bolognesi alla presentazione/reading della rivista, sabato 28 gennaio 2012, alle ore 19, presso la libreria Modo Infoshop, in via Mascarella 24/b. Saranno presenti Sparajurij, in qualità di curatori, e gli autori Luigi Socci e Stefano Raspini.

Buona lettura.

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I parallelepipedi di viale Sarca si proiettano in una prospettiva senza sbocco. I marciapiedi sono deserti. Il cielo ha il colore di una patata lessa. Lei cammina un passo avanti a me. Si ferma di fronte al 132.
«Se ricordo bene, è al terzo piano.»
Lo sa benissimo. Bicamere, soggiorno, cucina abitabile, bagno, ripostiglio. Ha fatto tutto lei, con l’agenzia.
«Ormai gli affitti costano come il mutuo.»
Sarà. Ma in affitto, quando vuoi andare te ne vai. Il mutuo invece ti tiene alla catena. Leggi il resto dell’articolo

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Appunti biodegradabili dalla terra della fantasia – 10

Ricordate il mal di denti di Mal di Libri? Il responso del dentista è stato netto: via i denti del giudizio, e anche con una certa fretta: sono bombe pronte a esplodere. Che poi, dei quattro, ne era uscito solo uno; gli altri son rimasti sotto, ce n’è uno, terribile, che è addirittura in orizzontale sotto la gengiva. Tre giorni fa ho tolto il primo e dopo due giorni difficili oggi sto un po’ meglio, ma la mia esperienza è in netto contrasto col detto “via il dente, via il dolore”: il dolore vero Leggi il resto dell’articolo

Marx – Istruzioni per l’uso

Marx – Istruzioni per l’uso (Ponte alle Grazie, 2010)

di Daniel Bensaïd

 

Accompagnato dalle vignette di Charb, uno dei maggiori disegnatori francesi, direttore del settimanale satirico «Charlie Hebdo», il volume in oggetto direbbe a primo impatto di una strana natura anfibia, non del tutto seria, ammiccante, spiritosa: cosa lontanissima dal vero, perché si tratta di un lavoro che in più parti richiede invece un minimo di addestramento, pur schivando la forma accademica dei saggi per specialisti. Detto che viene il sospetto che l’editoria abbia bisogno di strambi travestimenti per far passare Marx alla cassa delle librerie, di strizzar l’occhio a un qualche divertimento per renderlo digeribile, il libro di Bensaïd (scomparso recentemente) mette in guardia proprio dal relegare il grande filosofo di Treviri in una nicchia accademica perciò stesso innocua e ininfluente alla, si sarebbe detto una volta, “prassi” politica e persino alla liceità di un suo uso giornalistico. L’introduzione e il primo capitolo sull’adolescenza del giovane Marx bohemien, bevitore robusto dall’aspetto furente, frequentatore di poeti, sveglio quanto basta per comprendere che nella Prussia reazionaria di Federico Guglielmo IV non v’è posto per la libera ricerca quindi tantomeno vi albergano speranze per una carriera universitaria dignitosa, questo incipit e la metafora del Capitale come un noir concedono quel po’ che basta per avvicinare il lettore a digiuno di certi argomenti; però presto la divulgazione prende un andamento tutt’altro che corrivo e facilone. L’assunto è semplice: «Sarà sempre un errore non leggere e rileggere e discutere Marx». La frase è di Derrida, un tale cui si può muovere qualsiasi critica tranne quella d’esser stato un buzzurro e truculento stalinista come piace pensare ai liberali d’oggidì di chiunque non si sia pacificato nell’accettazione supina del capitalismo quale che sia, compreso quello che sta facendo strame di un secolo e rotti di conquiste sociali e civili.

Come ci ricorda Bensaïd, Marx ben presto prese le distanze dall’umanismo romantico dei socialisti alla Proudhon, e questo è noto; interessante invece la considerazione secondo cui qualcosa di quel modo di pensare oggi è ravvisabile per lui in certe pose teoriche come quelle che fanno capo al cosiddetto pensiero della “decrescita”: l’immagine di un mondo artigianale fatto di piccoli produttori indipendenti, e tanto calore domestico – che sembrano omettere dall’orizzonte sociale l’idea stessa del conflitto, ossia quel principio agonistico senza il quale per Marx non v’è storia (e si è visto aggiungerei in quale condizione ci abbia precipitato il pensiero di una “fine della storia”). Religione, denaro, stato, economia politica: il Marx che si avvicina al ’48, ossia al Manifesto, inizia a strutturare sistemi teorici notoriamente più complessi – ritenuti da alcuni deterministici – che si vuole di solito accogliere soltanto calandoli nella realtà dell’Europa coeva. Ma oggi come allora il materialismo è innanzitutto un assalto alla religione che è per l’intanto religione delle illusioni. Marx non fa che portare a termine (anch’esso temporaneo, questo sì) il passaggio dalla trascendenza coatta che serviva la nobiltà e le corti europee all’immanentismo illuminista: l’uomo, sottratto all’astratta sovranità del cielo, non è nemmeno un microcosmo spirituale autosufficiente, bensì corpo concretamente immerso nella storia (materiale). In ciò, al netto degli indubbi tratti dogmatici del suo pensiero – guarda caso quelli più fallaci, guarda caso quelli che sfuggono al suo controllo teorico e recano le tracce mnestiche dell’hegelismo da una parte e di una improvvida escatologia ebraica dall’altra, la convinzione in fondo irrazionale che la storia procedesse verso una direzione lineare in cui il comunismo si sarebbe realizzato perché innestato sul capitalismo, da esso stesso necessitato, resta la diagnosi difficilmente discutibile: «all’inizio della ricchezza vi era il crimine dell’estorsione del plusvalore, e cioè il furto del tempo del lavoro estorto e non pagato ai lavoratori», a dirla con Engels, «un omicidio».

Personalmente, non credo che il pensiero di Marx sia in sé immune dai rischi totalitari in cui è difatti finito – ma qui il discorso si farebbe troppo lungo. Ciò non toglie che Marx aveva visto come nessun altro quale miseria avesse prodotto l’economia politica spacciata per ontologia – a dirne una oggi, per gli amanti degli esempi concreti e “attuali”, come le crisi finanziarie possano portarsi dietro la devastazione nell’ “economia reale”. E dunque, con le parole di Bensaïd:: «L’attualità di Marx è quella del capitale stesso (…) la sua critica alla privatizzazione del mondo, del feticismo della merce nel suo stadio spettacolare, della sua fuga mortifera nell’accelerazione della corsa al profitto» etc.

La fretta di buttarlo con l’acqua sporca del “socialismo reale” ha prodotto disastri, sempre più tangibili sulla pelle anche dei sostenitori del capitalismo più bieco. Non basta?

 

Michele Lupo

L’onda sulla pellicola

Riportiamo un estratto del romanzo L’onda sulla pellicola (Besa, 2004) di Michele Lupo, ambientato prevalentemente nel mondo delle scuole private, il cui protagonista è un insegnante precario, nonché erotomane incallito e aspirante cineasta.


 

 

 

Una specie molto gradita da Malerba era costituita da gente sistemata abbastanza da piazzarsi soltanto per prestazioni rapidissime. Ingegneri o avvocati che mai restavano nelle aule per più di dieci minuti di seguito, attaccati ai cellulari per rimediare appuntamenti di lavoro tra la rogna di una lezione e la farsa di un’interrogazione. Sei, sette ore settimanali mirate alle trecentomila in più a fine mese. Gente incline a non far domande che ponessero in discussione l’andazzo generale, immune da ogni preoccupazione concernente il senso o la qualità o i fini sociali di quel lavoro. Si informavano sulle condizioni di Nesta, sulle intenzioni di Zoff nella campagna acquisti.

E poi, ricordava Livio, qualche povero disgraziato di passaggio, ma soprattutto frustrati d’ogni risma disposti a tutto pur di farsi chiamare professore e professoressa piuttosto che capò alle bancarelle del mercato vendendo brache usate o i calendari di Frate Indovino. Gente che viveva con i genitori a quarant’anni suonati, che si lamentava di non potersi sposare, di non poter programmare un futuro, che la sera lavorava nei bar, nei call-center, o porta a porta. Che la mattina successiva sbandava nei gironi lutulenti del Provveditorato di via Pianciani, si torceva fra le sue spirali metalliche e ne usciva stritolata. Che votava Alleanza Nazionale o Rifondazione Comunista con la stessa identica disperazione. Che qualche volta si sparava.

Che si fossero sbagliati, lui e Fausto, quando avevano concluso che ormai fare l’insegnante, in Italia, equivaleva a un marchio d’infamia? neanche si fosse individuato il novello untore per sanzionarne la condanna in un ghetto? Perché al Centro Studi Malerba vedevi tizi disposti ad aspettare due mesi un assegnino postdatato che mai superava il mezzo milione di lire epperò si gongolavano nella soddisfazione di fare l’appello, di tenere un registro – quando c’era – di parlare da una cattedra. Certo, il tutto veniva poi emendato in audizione di amenità pronunciate dai ragazzi ad alta voce: meglio le corse di notte all’Eur o caricare una slava sulla Cristoforo Colombo e fare poi un lavoro pulito? meglio il tiro a segno con i gatti di PonteMammolo o farla finita con quel perbenismo del cazzo e dare finalmente una lezione a Galeazzi che lo sanno tutti che è della Lazio?

Talvolta erano indirizzate proprio a loro – agli insegnanti. E non proprio facezie, piuttosto consigli dritte suggerimenti. Perché erano sensibili, i ragazzi. Come, diecimila lire l’ora? Dodici, iva compresa. Be’ professo’, nessuno voleva andare, chessò, il sabato e la domenica nel ristorante del padre? Sensibili e svegli, a modo loro. Con quella cifra non si poteva persuadere nessuno ad ascoltare alcunché. Che aveva mai da dire di importante uno che guadagnava diecimila lire l’ora? C’era ancora chi si struggeva la sera davanti alla sua brava laurea con lode incorniciata in cameretta, ma Livio non conosceva quel tipo così diffuso di consolazione fondato sulla comparazione delle sofferenze. Che altri stessero peggio di lui, non modificava in nulla il suo stato. E forse neanche quello degli altri, chi più chi meno tutti pronti a produrre un armamentario social-professionale che supplisse alle carenze evidenti del lavorare lì dentro: menzionare altre occupazioni, ad esempio, più serie, con l’aria impostata alla bisogna – tono, falsetti e gridolini per lo più, e soprattutto studiatissima gestualità. Che poi venisse un pianto, era un dettaglio. Fare l’attore, un minimo devi esserci portato. E Livio rideva, come se fosse solo uno spettatore, persuaso che fosse questione di tempo, per lui; per gli altri, invece, sul proscenio, un modo malinconico di suscitare aspettative, il teatrino consueto di una città di provincia come la Roma di periferia in cui si recitavano arti e mestieri, sperando che le luci smorte del CSM facessero almeno intravedere una qualche ribalta futura…

– Una volta tanto sarò d’accordo con lei, professore – disse una mattina, scoglionatissimo. Ce l’aveva con Perduro. – Non solo ha stravinto, il capitale, ma ti ha ficcato il suo chiodo rovente nel cervello, ha ossidato le tue difese immunitarie e ti ha iniettato pure la vergogna di non averlo, un lavoro. Quella che chiamiamo filosofia della storia prende proprio delle cappellate, certe volte, non crede?

L’uomo sembrava impossibilitato a rispondere dalla coda di paglia su cui ogni parola di Livio sfregava come uno zolfanello – si sarebbe bruciato da solo, senza il tempo di replicare.

– Anche la sua, di vicenda, non me ne vorrà, è un po’ singolare, no? Un combattente dell’età di Cossutta, inorridito dalla svolta di Occhetto, pensionato più agiato dell’uno e l’altro messi insieme che svacca il tempo in un privato… Converrà che è un poco eccentrico, o mi sbaglio?

Quella che stava per diventare l’ennesima collisione fra i due insegnanti fu interrotta dall’arrivo di Malerba corsa subito in aiuto dell’ex preside. Prese Livio sottobraccio e se lo portò nel suo ufficio. Aveva dato un’occhiata ai programmi, disse.

– Pensa sia proprio necessario perdere tempo con questo Aretino, professore?

A domande del genere Livio era abituato. Da tempo, aveva ormai deciso che non doveva rispondere, ma limitarsi a guardare dritto verso di lei con un’ aria inespressiva, come di chi non pensa a niente in particolare e non sembra neanche accorgersene.

– Dicevo, Viola, un autore così minore…

Non da tonto, l’aria. Ma insomma.

– Mi ascolta? Deve mica farla per forza, la letteratura contemporanea.

Che non fosse una battuta era evidente, meno dalla sua insipienza nel caso lo fosse stata che dalla faccia serissima che ostentava. La sua di lui divenne di colpo quella di chi si ritrova l’ippogrifo in carne e ossa davanti agli occhi e tace estasiato.

– Senta professore, io ho molta stima di lei. Questo lo avrà capito. Ma non fosse che per gli anni che mi porto appresso, e mi scusi se scomodo il poeta, credo di esser degna di un po’ più di riverenza in vista.

– Non fa esattamente così, signora. Il verso, voglio dire.

– Viola, mi stia a sentire. Guardi che io non ho nulla contro la poesia, ci mancherebbe altro, anch’io sa, di tanto in tanto, prendo una penna e… e butto giù… Oh, lasciamo perdere.

– Peccato. L’ascolterei volentieri.

– Però, vede, io non sono il tipo che si caccia le mani in tasca per sentire poi le dita che ci girano a vuoto, mi segue? Se lei mi perde tutto questo tempo con autori sconosciuti i ragazzi mi volano via, mi volano. Poi ci lamentiamo del disinteresse.

Oh, il disinteresse. Se poco poco gli riusciva di catturare l’attenzione dei ragazzi, era in virtù di un prestigio usurpato, eteronomo alla sua funzione lì: erano le chiacchiere sui suoi trascorsi – in realtà insignificanti – a Cinecittà a propiziargli un po’ di attenzione, o forse solo di curiosità. E si trattava in ogni caso di momenti brevi e casuali, interruzioni fortuite della loro diffidenza, a suo modo giustificatissima. Perché poi non erano mica fessi: era ben strano che dal cinema fosse finito in quello zoo, a parlare di letteratura, ossia, per loro, dell’altro mondo. Dov’era, quest’altro mondo? e questo qui? cosa rimaneva di conosciuto fra cyberspazio e ombrelloni dove si continuava a giocare con i morti fra i piedi? erano tutti così bisognosi di invocarne uno ultimo e definitivo che fosse post-umano? erano o non erano proprio gli uomini i primi a non poterne più di se stessi?

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 22


[continua da qui]

E loro correvano, eccome se correvano i nostri disperati scrittorucoli, che da baldanzosi che erano dovettero farsi piccoli piccoli per passare indenni attraverso le strette maglie della legge. Ché poi si fa presto a dire correre, ché la guida del loro timoniere non era propriamente sportiva, ma lo stesso essi riuscirono a superare l’appennino tosco-emiliano e a sbucare nella verde Umbria, dove li attendeva un altro rifugio degno di nota.

Il luogo in questione, un’ex casa colonica contesa dalla giunta comunale – che dopo averla data in gestione a un noto scrittore, autore di una famosa rivista satirica1 che scandalizza ancor oggi certuni per i suoi contenuti, stava cercando un modo per riprendersela – apparve ai loro occhi come un paese dei balocchi, abitato da cani e gatti che sbucavano da casupole di legno dalle strane forme e disseminate tra i bassi arbusti di un boschetto. Si trattava di una vera e propria repubblica indipendente, con tanto di passaporto onorario, che accoglieva i rifugiati di ogni tipo; un minuscolo stato difeso soltanto dalla forza delle idee che non sono costrette a ricorrere alle armi.

Sarà stato per via della stanchezza o per l’altitudine o perché ormai si apprestava la fine di settembre, ma per la prima volta i cinque attentatori alla libertà di parola sentirono anche i brividi del freddo, come un oscuro presagio che inquinava il loro prossimo futuro.

Insieme al capelluto e canuto intellettuale, che li accolse avvolto dal calore di una zuppa di legumi che già bolliva sul fuoco, essi discussero sui risvolti della loro rivoluzione impossibile, che si era dipanata, secondo percorsi piuttosto accidentati, dalla fine degli anni sessanta fino ai loro giorni. Il rischio, come sempre in questi casi, fu quello di gettare tante belle parole al vento, per quanto i nostri fossero circondati dalle prove inequivocabili dei tanti tentativi fatti negli anni precedenti al loro apprendistato, quando si chiedeva a gran voce la fantasia al potere.

Si narra che essi improvvisarono un ristretto simposio, che niente ebbe a che vedere con il luogo romano in cui usavano recitar tra i peggiori baccanali: un concilio in cui esposero le loro idee al rispettato intellettuale, che come un padre comprensivo li ascoltò per tutta la serata, ma a niente valse tutto quel loro filosofare, poiché sul più bello si udirono nuovamente le tanto odiate sirene, che squarciarono il silenzio governato dai gufi e dai lupi.

Il gruppo, ingrossato da qualche giovane adepto, decise di rispondere alla forza con la forza, anche perché l’unica via di fuga sarebbe stata quella verso la capitale, dove sarebbero senz’altro finiti dritto in bocca al nemico.

Il piccolo esercito, munito di pigne e cerbottane, si appostò dietro gli arbusti, e mandò in avanscoperta la ciurma dei cani e dei gatti, che con il loro abbaiare e miagolare avrebbero cercato di tenere a distanza gli sgraditi invasori. Essi non avevano però previsto che insieme alle forze dell’ordine sarebbero arrivati in pompa magna anche politici e giornalisti, in numero così elevato da rischiare seriamente un sovraffollamento del minuscolo staterello libero delle arti.

Gli assediati furono costretti a sorbirsi diversi minuti di retorica statalista pronunciata col megafono, ma per quanto quella di Frigolandia fosse una repubblica informale, il clima era lo stesso molto teso, come se davvero si trattasse di un’invasione territoriale da parte di uno stato belligerante. Inizialmente venne sparato qualche colpo a salve, seguito da una raffica di minacce, quindi, visto il fallimento di questa strategia all’acqua di rose, gli uomini in divisa optarono per il lancio di lacrimogeni.

Nonostante le tante operazioni antisommossa, essi non avevano però mai assistito a quanto accadde in quel momento davanti ai loro occhi: i cani e i gatti repubblichini si misero a correre come ossessi per il boschetto, dove raccoglievano velocemente da terra quelle armi chimiche per interrarle con le loro zampette. La scena aveva del surreale, e difatti prese alla sprovvista l’armata del Presidente, che si fece sorprendere dal contrattacco: una gragnola di pigne cadde sui loro caschi da combattimento, componendo una sinfonia di rintocchi che si levò per tutti i colli circostanti.

La battaglia finale era cominciata.

Simone Ghelli

1 Essa si chiama Frigidaire, e da circa trent’anni si distingue per la sua irriverenza nei confronti della politica del nostro beneamato paese.

Le puntine da disegno del capitale

Sono le puntine da disegno del capitale.
Sono studenti, stagisti, sono in ricerca.
Conficcati in un muro in attesa di cadere, sostengono il peso per un po’; poi cadono.

Ines ha tentato di tutto per apparire più bella, quando ha saputo che quei sei mesi non avrebbero portato a nulla. Ines, la nostra stagista, quella che ero convinto mi avrebbe fatto le scarpe. E invece no. Ha trascorso tutto questo tempo poco lontana da me, di solito seduta, in ricerca vorace di informazioni, di feedback, frammenti. Bruciava per capire dove avevano nascosto il salvagente, tentava di rendersi indispensabile.

Ines era quella diversa: da noi perché più dinamica e pronta a prendere tutto, a subire con garbo, a farlo suo; dai suoi coetanei perché così giovane e impermeabile all’apatia, così meccanica nell’efficienza, nel suo non appannarsi mai. Le avevano detto, come una confidenza che non si dovrebbe fare, che era quello che stavano cercando. Le avevano confidato che si cercava ancora, nonostante le voci, nonostante l’evidenza. E invece no, l’evidenza diceva il vero.
Da quando sono caduto in depressione ci immagino tutti posizionati sugli scaffali di una cartoleria. Uno di quei negozi che fanno tanto vecchio quartiere, dove ormai nessuno va più, perché ci sono i computer per scrivere, e ci sono i supermercati per comprare quel poco di cancelleria che serve, e a meno. Mi è diventato chiaro, col tempo, che la cartoleria è il mondo del lavoro, e noi gli articoli in vendita, senza nessuno ad acquistarci.
I creativi le matite colorate, i ricercatori di marketing gli evidenziatori, le segretarie i raccoglitori ad anelli, il nastro adesivo gli account, eccetera.
Tutti lì a prender polvere.
Le puntine da disegno sono le più dolorose. Ognuno di noi lo è stato; lo saremo presto, di nuovo.
A volte penso a quando vivevo con i miei genitori e c’era qualcosa da appendere – una foto, un diploma, un poster – mio padre usciva il sabato e tornava con una di quelle cornici industriali con il plexiglass al posto del vetro. Forava il muro, metteva un tassello, e la stampa restava lì, giusto un po’ meno nitida ma appesa, tranne che in caso di terremoto.
Quando sono venuto a Milano, era diverso. Cambiavo casa in continuazione, o meglio cambiavo stanza, tutto era molto ostile e io cercavo di scendere a patti con questa crudeltà, mi trascinavo dietro più cianfrusaglie che vestiti e appena prendevo possesso di quattro pareti nuove mi accanivo a ricoprirle, per renderle simili alle precedenti. Solo che non c’erano più cornici, trapani, c’erano le puntine da disegno. Bastavano un paio di colpi e la locandina del film era fissata, la caricatura fatta da un’amica, il collage osceno di ritagli di giornale. Stavano su, per un po’.
Quando mi svegliavo trovando a terra una foto e poco lontano la puntina, un po’ storta e inutilizzabile, di solito era ora di cambiare stanza, di nuovo.
Ines è così, e anche quella che il mese prossimo prenderà il suo posto che non c’è, e chi piangerà sognando la scrivania di Luigi. Io li vedo, tutti uguali, ma ciascuno con un piccolo segno distintivo, o meglio con una serie di tratti distintivi e omologanti insieme, a gruppetti, ancora una volta come le puntine da disegno, quelle con le capocchie nere, quelle rosse, blu o gialle, bianche, grigie. Ciascuna nella sua scatolina, insieme a tutte le altre, pronta all’uso, pronta sostenere, stortarsi e cadere: chi ha fatto scienze della comunicazione, chi ha tentato la carriera accademica, chi ha messo la testa a posto, chi ha deciso di cambiar vita e inseguire i propri sogni, chi ha bisogno, e chi ha bisogno; tutti.

Ines arriva ogni mattina sempre più presto, a sfidarci, per questo si fa bella, chiusa in bagno, prestissimo, con i ritagli delle riviste a indicarle la strada, le strategie di trucco, quei volti color faretti e polistiroli e cosmesi, a cui assomiglia sempre di più con il passare dei minuti, sempre più lontana e patinata, e con un sorriso che sfiora la paresi fa il suo ingresso nell’open space come una piccola tromba d’aria, vestita secondo un manuale aggiornato scrupolosamente, pensando e non pensando a quanto le costa venerare le tendenze, in attesa di poterle imporre, a quanti soldi brucia ogni mese, forse ricordando che questo stage semestrale non era assolutamente retribuito, nemmeno rimborsato, a parte qualche striminzito buono pasto, forse ripetendosi che questo modellarsi, questo non crollare mai lo sta facendo per il proprio futuro, «Ciò che non uccide fortifica» ha scritto sul suo blog, e poi anche «Andare a caccia di ciò che è cool rende gelidi», forse Ines si prenderà un periodo sabbatico, lei e il windsurf.

Questa non è la solita tirata contro il precariato. È una constatazione: abbiamo perso.
Tutti, tutti.

Il problema non sono le condizioni materiali, la crisi economica, la scarsità della domanda. Sbagliano. Il nocciolo della questione è il desiderio. Il nostro essere puntine da disegno del capitale (il nostro esserlo stato, il nostro stare per) deriva dal fatto che non sappiamo volere altro, non ricordiamo nemmeno di poterlo fare. L’altra metà della trappola sono le aspettative: ci hanno convinto che ci siano dei futuri possibili, tenuti da parte per noi. Ci hanno inculcato questa idea fin dall’età più inconsapevole e intuitiva, ci hanno contaminato. Ci hanno rassicurato: c’è qualcosa per noi, di designato e gratificante – certo non sarà distribuito così, alla cazzo, ma in cambio di un ragionevole impegno noi saremo tutto; concertisti oppure padri di famiglia, speculatori di borsa che comprano e vendono azioni con il loro MacBook da una spiaggia della Guadalupe, assistenti sociali, scenografi. Noi li abbiamo ascoltati, ci siamo rassegnati. Niente è precluso, ci hanno detto, purché ricercato in maniera costante e ragionevole; e invece no. È falso. Peggio: è pericoloso. Questa minuziosa catena di montaggio di aspettative, a cui ci esponiamo come a una chemioterapia, sgretola la capacità di provare desideri, ci mangia all’osso. E la pulsione erotica verso i nostri sogni, la voglia di farsi una sproporzionata e infinita e goduriosa scopata con la vita, sono degli strumenti di resistenza, dei grimaldelli che però ci sono stati tolti di mano in maniera complessa e consapevole. Sono riusciti a trasformare tutte le nostre esperienze – dall’hobby alla perversione sessuale, dalla rabbia allo sport – in esperienze formative. Ci hanno convinto (e in un modo così totale e scacchistico che ci si può solo inchinare) che proprio quei frammenti di vita che per definizione, tempo libero, stanno dall’altra parte della barricata, proprio quegli atti in cui si è sempre investito il massimo carico emotivo, la propria risicata quota di pazzia e spontaneità, siano funzionali. Ce li hanno portati via. Così oggi cerchiamo di collocare nello schema del nostro curriculum quello che facciamo ancora prima di compierlo, e addirittura per decidere se compierlo o meno. Se non si incastra, se ha un posizionamento troppo ambiguo, lo evitiamo. A questo punto tutto è pronto per il colpo di grazia. Che, viste le premesse, non è nemmeno qualcosa di spettacolare, di ultraviolento: basta una spintarella. Quando si entra finalmente nel mondo reale (perché prima si viveva in una parentesi, e ce ne rendiamo conto in quel momento) le aspettative vengono deluse, tutte insieme. Non c’è niente.
Così non si entra mai, per davvero, ci si esilia nelle pieghe di una realtà immaginata. Ci si stacca, ci si aliena, ci si rimuove. Di solito qualcosa si storta dentro, e non va a posto, mai. Ci si deprime, tutti e in profondità, con più o meno consapevolezza, che si trovi lavoro oppure no, che si duri, che non. Le puntine da disegno, così colorate, così pronte all’uso. Così rotte. E quando capisci che qualcosa non va, che tutto non va, e vorresti reagire, ti trovi rapinato del desiderio, ed è come se intorno avessi solo nebbia, non vedi niente, non vedi possibilità. È per questo che abbiamo perso tutti, e abbiamo perso male. Tutto ciò non porterà nulla di buono, nemmeno per chi l’ha imposto, non può. È un errore, non per questo meno grave, ma terribilmente miope. Addirittura controproducente. Perché se la ribellione, la voglia di cambiare, la trasgressione sono tutte dinamiche sane, che spingono avanti l’orizzonte, che finiscono per produrre vantaggi anche per chi ha il potere, in questo modo invece si mette un tappo, per quanto robusto, per quanto potente, ma assediato di pressione, una pressione inimmaginabile. Così è possibile progredire solo per strappi e lacerazioni. Migliaia, milioni, miliardi di puntine da disegno, di articoli di cancelleria, a prender polvere, prima di esplodere.

Andrea Scarabelli

Andrea Scarabelli è nato a Milano nel 1983 dove tuttora vive e si barcamena precariamente tra collaborazioni editoriali e scrittura. Ha esordito con il romanzo Beautiful (No Reply 2008), firmato solo con il nome di battesimo, e ha pubblicato racconti in antologie (Voi non ci sarete, Agenzia X 2009; Italia Underground, Sandro Teti 2009), sui quotidiani Il Manifesto e L’altro e sulla webzine Carmilla.