Un bacio sulla bocca

Tiro fuori dall’armadio la mia borsa nera, quella di vernice con sopra il disegno di una lucertola. È un po’ piccola, ma la riempio con tutto quello che ho sottomano. Due T-shirt, un golfino, la felpa dei Rolling Stones con la lingua di fuori, una tuta da ginnastica e le mie Nike predilette. Non contenta, ci metto pure un paio di jeans, una copia di Vanity Fair, un libro di Patrick McGrath e l’ultimo Cd dei Babyshambles. Però, manca qualcosa.

La Gazzetta di Parma è ancora sopra il letto, aperta in terza pagina dal giorno prima. E lì accanto c’è il libro che avevo comprato per te, Andrea. Il tuo regalo di compleanno.

Ieri non ho fatto in tempo a dartelo, così è meglio che ora lo porti via con me. In ogni caso, non lo avresti letto. Non ti sarebbe piaciuto. Io non so cosa ti piace, così ho scelto un libro a caso, un brutto libro, una storia da quattro soldi che parla d’amore, di destino, e di mille occasioni perdute. Eppure, per un attimo, ho creduto che parlasse anche di noi due.

Invece ho scelto male, Andrea.

Ho sbagliato, perché io non ti ho perduto.

Tu sei in tutte le mie parole, nei miei respiri, nei miei più intimi pensieri. Ma questo non lo sai.

Tu non sai nemmeno che esisto.

Non c’è mai stato niente tra noi due, solo un bacio sulla bocca dato un po’ per scherzo, un po’ per noia. Ma io non ti ho dimenticato. Sono passati quasi tre anni da quel bacio, ed io ti ricordo ancora.

Tre anni, sembra incredibile.

Come vola il tempo quando non ci si diverte. Quando ogni fibra del tuo essere, ogni minuscola particella d’energia che gravita nel tuo corpo è tesa verso un solo obiettivo, un solo amore.

L’amore che quelli come te non meritano. L’amore che capita una volta nella vita, quello che nel Trecento veniva cantato dai poeti. Ma io non sono un poeta. Sono una puttana, sono una stronza, sono tutte queste cose, ma di certo non sono un poeta. Allora mi chiedo perché è successo a me e non ad un’altra. Perché mi sono innamorata del tuo cappotto nero, e di quella sciarpa bianca che ti ostinavi a portare fino a primavera. Eppure, conciato così, ricordavi Bela Lugosi ai tempi dell’Uomo Ombra, o David Copperfield, il mago, durante un trucco di scena. E anche i tuoi occhi erano un trucco, Andrea. Sembravano così intensi, così profondi, quando invece erano vuoti. Vuoti, come vuoto è il baratro che si apre ai miei piedi, ogni volta che un amico mi fa il tuo nome, ogni volta che m’imbatto in una tua fotografia. Già, le fotografie. Quelle sono la cosa peggiore. Mi sento impazzire quando, dal fondo di un cassetto, fa capolino la tua fronte alta, o la bocca che ho baciato avidamente, la stessa bocca che poi mi ha detto parole tanto dure.

Tu hai riso del mio amore, Andrea. Ed io ho passato questi ultimi tre anni ad augurarti tutto il male possibile, a maledire ogni tuo passo, ogni tuo gesto. Perché non hai capito niente. Perché senza di te, mi era impossibile anche respirare.

Tu eri la mia aria. Eri la mia vita, il mio spazio, il mio tempo. Eri il cielo stellato che osservavo da bambina, eri il colore sulle pareti della mia casa, il profumo del pane appena fatto che mi svegliava al mattino presto.

Tu eri tutte queste cose, e non lo hai mai capito.

Hai scelto di andare per la tua strada, come oggi io vado per la mia. Tra poche ore, prenderò il treno che mi porta via da questa città, da quest’Emilia che ci ha fatto incontrare. Tornerò a casa e riabbraccerò i vecchi amici. Mi ubriacherò, mi divertirò, e dimostrerò a me stessa, una volta per tutte, che alla fine sei tu quello che ha perso.

Tu hai perso me, non il contrario. E con me, hai perso tutto il resto. Hai perso un amore che non meritavi. E hai perso anche il tuo compleanno, gli auguri, e la festa.

Finalmente, sulla Gazzetta di Parma vedo anche il tuo nome. L’inchiostro viene via e non si legge bene, ma mi pare di capire che non è stata colpa dell’alcol, quanto della roba che hai preso. È quella roba che ti ha ucciso, Andrea. È stata l’eroina, non l’intruglio che hai bevuto. C’è scritto qui, a caratteri piccolissimi. Ma in queste righe non si parla dei tuoi demoni, della tua paura di vivere. Queste righe non spiegano la tua incapacità di essere felice, ed il dolore che, invece, sei in grado di dare a chi ti ama. Sei solo un tossico da terza pagina che ha sfondato il guard rail, uno dei tanti.

La Gazzetta non dice che ieri era il tuo compleanno. Dice solo il nome del cimitero dove ti hanno sepolto. Quello è scritto in grassetto.

Cristiana Danila Formetta

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Diario di bordo – Colle Val d’Elsa

Rieccoci nuovamente. Come anticipato ieri, per questo lunedì interrompiamo la rubrica Poesia precaria per dar spazio al Diario di bordo di Scrittori precari.

Buona lettura.

Gianluca Liguori


Scoppio ancora di emozioni colorate ed accoglienza immersa nella natura. Avrei voluto vedere lo spettacolo ma ero sul palco.

Andrea Coffami


Secondo Google mappe Colle Val d’Elsa è raggiungibile velocemente da Montevarchi tramite una strada alternativa, che risparmierebbe il passaggio per la superstrada e per Siena tagliando attraverso il Chianti. Stampo la cartina e parto. Un’ora e mezza più tardi, perduto tra Radda e Castellina in un incubo di tornanti, medito il suicidio.

Raggiungo infine Colle in clamoroso ritardo e vengo recuperato dal Chimenti in una bizzarra piazza postmoderna. Il regista mi conduce attraverso misteriosi cunicoli nel ventre della collina fino a un ascensore fantascientifico; inizio a pensare che Colle Val d’Elsa è un posto davvero molto strano. E molto bello: per qualche motivo, dal Valdarno immaginiamo sempre i paesi del senese come brutti, forse per la fosca fama di Poggibonsi, e irrimediabilmente questi si rivelano infinitamente più belli dei nostri.

Attraversiamo questa Loro Ciuffenna monumentale finché scorgo le sagome note, inconfondibili nella postura e nei gesti, degli Scrittori Precari, professionisti della pausa cicchino. Chimenti e Montagnani mi lanciano in prova generale (più tardi Chimenti avrà modo anche di lanciarmi letteralmente) senza spiegazioni, ma dalla luce che brilla negli occhi dei Precari, e dalle luci vere, sparate con sapienza sul palco, capisco che la faccenda funzionerà.

A prove concluse scendiamo nel Foyer per rimetterci in sesto a caffè e whisky; benché mi tocchi bere un terrifico blended, il buonumore tiene. Inizia a trasformarsi in tensione quando realizziamo che sta effettivamente arrivando gente, e che anzi il teatro dei Varii sarà pieno.

Neanche il tempo per tremare, e siamo già in scena; avendo i registi studiato per me un ruolo da “finto spettatore”, pronto a entrare in scena dalla platea, posso godermi lo spettacolo dalla prima fila. E funziona, lo spettacolo, non solo nel documentare il collettivo Scrittori Precari e la sua attività letteraria, ma anche nel cogliere, grazie all’incrocio tra materiale filmato e lettura dal vivo, i tratti salienti di ciascuno, e così abbiamo uno Zabaglio tanto spassoso quanto amaro, laziale più che romano, che in controluce carica macchinette del caffè e auspica segreti piani di rivolta; un Piccolino corporale e romantico, imbianchino pratoliniano, che estrae poesie dal secchio della calcina, un Liguori dolente, quasi un personaggio di de Amicis, nel suo farsi carico con dignità di tutte le ingiustizie del mondo, un Ghelli felino, solo apparentemente mite, Bianciardi reincarnato, e salvato, forse, dall’aver scelto Roma invece di Milano. E li troviamo tutti insieme, a imbarazzarmi con la lettura di un mio brano, e poi sagome nere, di nuovo inconfondibili, mentre la regia gli spara addosso un filmato torcibudella. C’è tempo poi anche per i miei cinque minuti di gloria, con una lettura dal prossimo romanzo, ma gli applausi sono certamente, e giustamente, tutti per loro.

Vanni Santoni


Andare in scena non è stato facile: due giorni di prove, pochi mezzi tecnici e un budget ridicolo sono ciò che abbiamo a disposizione. Quando le luci si abbassano ci accorgiamo però che il teatro è pieno. Un senso di incredulità che raddoppia la tensione. Alla fine gli applausi, la voglia del pubblico di non andare subito a casa, di parlare di quanto hanno appena visto e sentito. Questo volevamo: prolungare la messa in scena attraverso il lavoro cognitivo dello spettatore.

Leggendo i giornali, guardando i telegiornali, comunemente parlando, siamo allo stesso tempo vittime e propugnatori di un inarrestabile impoverimento del senso comune. Un impoverimento che passa attraverso il linguaggio, cavalcando parole-marionetta – “precario”, “straniero”, “extracomunitario”- che ci annebbiano la vista sul mondo per farne una terra straniera.

Ci muoviamo da tempo in un orizzonte comunicativo verbo-visivo che basa la sua efficacia sulla devalorizzazione e sulla desemantizzazione dell’esperienza, come sull’anestetizzazione del comune sentire: per ridare un corpo semantico all’immaginario non resta allora che rivendicare l’extraterritorialità della “scrittura di scena” e la sua capacità di comporre l’eterogeneità delle deposizioni e delle registrazioni, di attraversare le terre ed incrociare gli sguardi. Ma per riuscirci è necessario sapere esattamente cosa raccontare e come farlo.

Quello che noi, assieme a Scrittori Precari e Vanni Santoni, volevamo raccontare è il paese Italia, il paese che muore, il paese che dello spettacolo ha fatto la realtà perché la realtà potesse sembrare uno spettacolo. E per farlo abbiamo usato ogni mezzo a nostra disposizione: il documentario e la performance, la luce e la musica, il videoclip e la pagina scritta.

Adesso bisogna rilanciare la posta in gioco, portare lo spettacolo in giro, sino a dove possiamo arrivare.

Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani


LIVE THE WRITING – omaggio breve a Trauma Cronico e ai pigiami singolari

“Prima ci facciamo un’idea, poi semmai…”, così dicendo il pubblico entra in sala e si siede in platea dopo aver ispezionato di fretta libriccini cd e volumi riposti in bella vista sul tavolo all’ingresso.

Piccolo gingillo questo teatro dei Varii, i cui fronzoli ottocenteschi cozzano meravigliosamente con l’apparato scenico vuoto dei Precari, creando una strana attesa incerta e diffidente.

A terra i cavi sembrano serpenti dormienti in attesa di venire scossi e manipolati dalla fonazione.

Nessuno sa. Si può solo immaginare a scatola chiusa cosa mancherà, essendo solo un reading. Cosa non si vedrà, visto che è solo un reading. Quanti tempi si dovranno aspettare in tossicchio nervoso a causa di virgole e punti e fogli da girare. “E’ solo un reading!”

Scorrendo, le immagini per qualche minuto restano schiacciate sul fondo. Innocue. Distanti. Finché lo spirito si fa carne e qualcuno esce dallo schermo, invadendo lo spazio che prende a riempirsi. Sotto l’occhio di bue sale la voce e lo scrittore s’allontana dal precario. Lo vedi perchè si premura di centrare la carta e se stesso sotto l’occhio di luce, finendo, senza volerlo, col dare preminenza al foglio. Deformazione professionale.

Lasciando cadere le pagine a terra sembra sospeso su una nuvola bianco sporco e finisce per fondersi con le immagini in un gioco serrato di dentro e fuori, casa e palco, voi e noi. Noi. 4+1 moschettieri immobili, illuminati psichedelicamente dalle luci che, ora, sparano su un pubblico calato e assorto. In attesa di altro.

Lo sguardo che dopo un’ora e mezza davanti al tavolo all’ingresso ripassa in rassegna a mente fresca le copertine dei libri, ha un’altra coscienza.

“E’ solo un reading… forse”.

Donatella Livigni


La prima volta degli Scrittori precari in un teatro.

Una prima volta che emoziona ma intriga fin da subito.

Le tavole di legno sotto ai piedi. Un’acustica particolare e a noi nuova. Le luci puntate su di noi che non riusciamo a vedere il pubblico davanti a noi. Strano.

Da quando abbiamo iniziato l’avventura di Scrittori Precari abbiamo avuto col pubblico un rapporto quasi simbiotico. Ed ora siamo soli, in una bolla di luce che non svela i volti in platea.

E’ l’applauso che accompagna la nostra uscita di scena a sollevarci. Man mano che ci alterniamo ci rendiamo conto che questa nuova dimensione non ci è poi tanto estranea.

Lo spettacolo dura un’ora e quaranta ma vola via come se niente fosse. E noi, nonostante tutto ancora leggeri, ci rendiamo conto che avremmo persino voglia di rifarlo daccapo.

Luca Piccolino


Erano anni che non tornavo a Colle: anni ingoiati dalla vita metropolitana, dove il tempo scorre ad alta velocità. Una volta amavo fuggire dalla bolla d’aria che è la vita di provincia, oggi sento a tratti la necessità di ritornarvi, come per un principio di liberazione e rigenerazione, per disintossicarmi dai miasmi della vita di città.

Ad attenderci, dunque, non soltanto il tempo sospeso della provincia protetta da mura medievali, ma anche il tempo pieno del teatro, che per la prima volta abbiamo sperimentato venerdì. Tutto per merito di due folli chiamati Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani, che prima hanno passato tre giorni a girare per Roma dietro a questi quattro ceffi rabberciati che siamo noi; che poi hanno fatto le ore piccole per due settimane a montare quelle immagini; e che infine si sono rinchiusi nel Teatro dei Varii, dove li abbiamo trovati al nostro arrivo, per concludere la regia di questa incredibile video performance. Che adesso tocca lavorare per esportarla in giro, perché lo spettacolo funziona, anche se nato in condizioni d’emergenza, o forse soprattutto per quello, perché c’era e c’è l’urgenza di farlo.

Simone Ghelli

Decadence Lounge

“Produttore discografico cerca brani inediti da lanciare sul mercato”.

“Lanciare sul mercato”… Dimmi come scrivi e ti dirò chi sei. Ma non mi spavento. Via Manassei. E’ vicino a casa mia: una passeggiata di un quarto d’ora. Vado. E’ una palazzina anni ’70 in una sonnolenta zona residenziale abitata da gente perbene. Gente tranquilla, gente che lavora. Gente che quando ti incontra non ti nega mai un buongiorno. Citofono. “Sì, vengo per l’inserzione”. Ultimo piano. Attico e superattico. Suono il campanello. “Prego si accomodi” borbotta la ragazza, scostandosi dalla porta come se la mia incapacità di entrare passando attraverso il suo corpo le arrecasse un’insostenibile combinazione di noia e fastidio. Mi accomodo e aspetto. Aspetto a lungo. Finalmente arriva trafelato un ragazzetto sui venticinque, in pantaloncini e infradito. “Oh, eccomi qui. E’ per l’annuncio vero? Siete proprio tanti. Tutti che scrivono canzoni! Vieni con me. Hai portato qualcosa da ascoltare? Vediamo. Sei pezzi? Troppi. Ti svelo subito un segreto: nessuno ascolterà mai sei pezzi. In un CD per un produttore ne devi mettere due, massimo tre. La gente che fa il mio mestiere non ha tempo da perdere. Non è cattiveria, ma tu capisci…”. Si interrompe un attimo per riprendere fiato e faccio in tempo a presentarmi e a chiedergli per quale etichetta lavora. “No, io non lavoro… Sto creando un progetto solista mio personale. Roba forte. Ti farò sentire. Quando posso nel frattempo do una mano a mio padre, che è produttore e cerca sempre cose che fanno il botto subito… Ah, guarda qua: lui è un grande!”. Mi indica una foto che lo ritrae accanto ad un cantante di comprovata ignoranza la cui popolarità, specie tra le ragazzine, è inversamente proporzionale alle qualità artistiche. Cerco di mostrarmi minimamente colpito. Nel frattempo continuiamo a percorrere corridoi e ad attraversare stanze cosparse di oggetti costosi e possibilmente vistosi: sembra che l’appartamento non abbia fine. Arriviamo in una camera illuminata da una vetrata che dà su un ampio terrazzo. Ci sono uno stereo, una tastiera e un paio di poltroncine. “Qui è dove creo. Qui prendono vita le idee!”. Per un attimo, assecondando una connessione mentale non del tutto logica, la mia memoria va alla stanza di Beethoven che avevo visitato qualche anno prima a Bonn. Si mette alla tastiera e comincia a suonare in preda ad un poco condivisibile slancio di esaltazione. “Intanto ti faccio ascoltare qualcosa di mio, così capisci”, dice. Inizia a cantare una canzone che parla di un ragazzo non meglio identificato e di una ragazza avvenente che si scambiano alcuni fluidi corporei all’interno di un’automobile in riva al mare a ferragosto mentre sorge il sole e l’autoradio fa da sottofondo, in uno stile che presenta inquietanti affinità con quello del suo idolo incorniciato. “Capisci? Questo è un prodotto che funziona! Chiunque ha vissuto una situazione simile. Chi vuoi che non si immedesima? Chi vuoi che non ha baciato una ragazza in macchina? Beh, solo uno sfigato! Capisci?”. Capisco. Intanto inserisce il mio CD nello stereo e dalle casse sgorgano suoni familiari che in quel luogo mi appaiono insolitamente alieni. Passano circa dieci secondi. “Tu capisci che questo materiale è impresentabile? Non dico che è brutto, perché magari ad ascoltarlo poi mi piace pure, ma sono passati dieci secondi e ancora stiamo all’introduzione: il pezzo ancora non parte, non decolla. Non è cattiveria, ma tu capisci no? Uno ascolta dieci secondi di intro di pianoforte – bellissimo, per carità! – e fa skip al pezzo dopo, perché un produttore non ha tempo. Non è cattiveria… E poi con un pezzo così a Sanremo che ci fai? Se proprio ti va bene al massimo ci prendi il premio della critica. Noi non dobbiamo prendere i premi: noi dobbiamo vendere i dischi. Tu capisci… Ah Karen… Vieni ti presento… Ti presento… Com’è che ti chiami? Ah sì, ti presento Alessandro, che è venuto a portarci dei pezzi, roba un po’ d’autore, un po’ tipo poesia, capito come?”. La ragazza che si chiama Karen si affaccia dalla porta a vetri. Ha addosso il minimo indispensabile e ostenta la sua provocante ed eccessiva bellezza con una certa arroganza. “Lei è la ragazza mia. Fa la modella. Ci siamo conosciuti la settimana scorsa in Austria. Ora l’ho messa in contatto con gente che sta nel giro del cinema”. Penso “e ‘sti cazzi”, dico “ah, sì?”. La ragazza svanisce senza proferire parola. Forse non parla la nostra lingua.

“Ora ti faccio ascoltare qualche altro pezzo mio”.

Chiudo gli occhi e aspetto che finisca.

Alessandro Hellmann

Anteprima da “Decadence Lounge” (editrice Zona, 2010)

Face to face! – Paolo Baron

Toilet è una realtà letteraria giovanissima, tenace, incredibilmente in mutazione e soprattutto capace di tirare fuori veri e propri conigli dal cilindro.

La testa (rasata) dietro questa energia editoriale è Paolo Baron e mi sono fatto due chiacchiere veloci con lui…

Toilet. Detersivo, detergente, profumo o che?

Scelgo il detergente, un detergente profumato per le ansie del quotidiano, direi. Toilet, la nostra raccolta di racconti da leggere in bagno è un momento di distacco da tutto quello che è fuori dalla porta (del bagno appunto) che è poi il luogo dove “consigliamo” di leggerlo, almeno ci piacerebbe che fosse così, anche se in metro, tram, aereo va bene lo stesso…

Quando avete messo la prima maiolica e perché?

Alla fine del 2005, volevamo mettere su carta quello che già pubblicavamo su web (www.toilet.it) per il puro piacere di raccontare storie. Ci piaceva l’idea di farci leggere anche lontano da un pc, partendo appunto dal bagno. Il numero 0 rimase in giro per 6 mesi prima di accorgerci che la gente lo aveva richiesto ancora e ancora presso le librerie amiche dove lo avevamo “poggiato” per vedere cosa succedeva.

Chi legge e chi scrive Toilet ma soprattutto cosa rende un racconto “da Toilet”?

A leggere e scegliere siamo in dieci, editor di professione, scrittori e non. Tutti sfrenati lettori di libri.
Lo scrivono tutti coloro che hanno la voglia e le qualità per mettere su carta un’emozione o una storia ben raccontata, con una bella prosa senza lungaggini.

Ma si può fare sesso in un bagno?

Non esiste un posto dove non si possa fare sesso, non credi? Il bagno offre una serie di spunti, la vasca, la cabina doccia, non esiste un limite alla fantasia. Quando la natura si scatena non guardi dove sei.

La domanda voleva portarti alla vostra ultima fatica “I love porn”. Ce ne parli e ci dici come avete scelto i porno scrittori che hanno macchiato la carta?

Anche se è un progetto ben distinto, abbiamo voluto utilizzare lo stesso sistema di raccolta di toilet, il nostro sito internet, abbiamo inserito il link a www.iloveporn.it e poi un bando che diceva: pornografia: s. f. trattazione o rappresentazione, in scritti, disegni, fotografie, spettacoli, di temi o soggetti osceni, fatta senza altro intento che quello di stimolare eroticamente i fruitori.

Ci è arrivato di tutto, e credimi, ci sono i termini per un’indagine sociologica su: “l’interpretazione della pornografia del nostro tempo”. Abbiamo letto tutti i racconti pervenuti ed abbiamo capito che esiste una confusione tra porno, sesso e descrizioni schifose degli atti più strambi e spesso disgustosi che puoi immaginare, ma questa è un’altra storia. Così, scelto il meglio dal materiale ricevuto, abbiamo reclutato direttamente un piccolo gruppo di autori ed autrici a cui abbiamo chiesto di trasmettere un’esperienza, un’idea, un sogno.

Il risultato è un volume pieno di racconti a base di sesso intenso, chiaro, vibrante, a volte estremo, a volte dolce. A sfondo ironico, misterioso o politico. Sesso nella sua magia e nelle sue aberrazioni, l’ho scritto anche nell’introduzione.

Tu sei anche un musicista e te la servo lì: la colonna sonora ideale per stare sotto le coperte?

Questa tua domanda è troppo bella per essere vera, era preparata, lo diciamo? Infatti mi permette di annunciare l’uscita di PLAY TO LOVE.

Volevamo diversificare l’offerta, insomma: “non solo libri”.

PLAY TO LOVE è un cd espressamente scritto e registrato per fare sesso. Niente compilation e robe tipo love songs. Abbiamo inciso una lunga serie di brani cercando di trasmettere una sensazione di pace e relax. Siamo stati attentissimi a non infastidire con suoni distorti o batterie assordanti, abbiamo lavorato nota per nota, rullanti e casse, per regalare un’atmosfera diversa agli spazi dedicati all’intimità. Le ritmiche di PLAY TO LOVE ti “cullano” senza mai eccedere in velocità, oscillando, tra i 60 e i 90 bpm, una velocità volutamente vicina alla frequenza cardiaca (70-75 bpm in un essere umano adulto a riposo), così da trasmettere, in maniera subliminale, un’ulteriore sensazione naturale di piacere e rilassatezza, quella dell’utero materno per dirla tutta.
Otto mesi di produzione, un mixaggio in uno studio tra i migliori della capitale e il mastering affidato a Greg Calbi che ha lavorato con così tanti artisti che non avrei spazio per elencarli: David Byrne, Brian Eno; ha masterizzato
The unforgettable fire degli U2, mi vengono i brividi solo a pensarci. Ha lavorato anche con John Lennon, un’esperienza unica.

Toilet: stimolante e…

Divertente, a volte amaro, crudele e altre vivo, pungente, polemico, critico, insomma qualcosa di estremamente eterogeneo. Così come eterogenee saranno le proposte della nostra casa editrice, la 80144edizioni, lungo tutto quest’anno e sicuramente lungo i prossimi.

Stiamo cercando infatti di evidenziare la netta distinzione tra Toilet e gli altri progetti (come appunto I love porn e PLAY TO LOVE) per evitare di fossilizzarci su quello che è il nostro cavallo di Troia, ma che adesso si sta aprendo e, uno ad uno, sta facendo uscire Ulisse e i suoi guerrieri. Ma non intendiamo bruciare niente, state tranquilli…

Alex Pietrogiacomi