marzo 8, 2010
di scrittoriprecari
Anche al buio lo vedo.
Grosso. Barbuto. Inquietante.
Ho aperto il divano in salone e mi sono buttato qui, su questo sottilissimo materasso violato in più punti da pungenti e scomode molle.
Ho chiuso gli occhi per pochi minuti.
Li ho riaperti. E lo vedo.
Enorme. Peloso. Strafottente.
Una sagoma in legno, verniciata di nero, a forma di un’immagine famosa in tutto il mondo.
Ernesto Che Guevara.
Niente di strano che io ce l’abbia appesa al muro del salone. In casa mia Che Guevara è ovunque.
Tutta colpa di Marta.
Lei di Che Guevara ha tutto. Libri, magliette, zaino, toppe, adesivi e foto, decine di maledettissime foto. Da attaccare con lo scotch sui pensili della cucina e davanti alla tazza, sullo specchio del cesso.
Nelle camere le ha messe in cornice. Persino sul comodino, vicino al letto. Dalla sua parte, naturalmente.
Personalmente non ho nulla contro Che Guevara. Anzi, mi piaceva prima di conoscere Marta.
Lei ha portato nella mia vita questa faccia che da ogni meandro del mio appartamento mi scruta, con quei suoi occhi profondi e la sua espressione gaudente.
In passato ho provato più volte a dire la mia su questa cosa. E le parole che ho ricevuto in risposta sono state ogni volta differenti.
Ma parlavano tutte di Che Guevara.
La sua storia. Le sue idee. La sua importanza. La sua generosità. La sua bellezza.
Perciò ci ho rinunciato e ora mi mordo la lingua per via del rimorso.
Ho lasciato che la situazione degenerasse. Ho lasciato una mania divenire fobia. Ho lasciato ai miei amici il sano diritto di prendermi per il culo una volta usciti da casa mia.
L’altro giorno, al bar del sor Guglielmo, vedendomi arrivare hanno gridato:”Oh è arrivato Che Guevara!”

Oltre al danno la beffa.
Poco fa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Andandomi a coricare ho notato, in una bella cornice argentata poggiata sul comodino dalla mia parte del letto, l’immagine di un volto radioso coi capelli al vento e la barba che pareva disegnata per quanto era perfetta.
“NON CE LO VOGLIO VICINO A ME PER DIO!”
Marta m’ha dato dell’insensibile. Perché quello era un suo regalo. E io, con una manata lo avevo gettato in terra.
Un regalo per me.
La situazione non era solo degenerata. Ci trovavamo ai limiti del grottesco.
L’unica era andarmene in salone, sul divano. Dormire da solo per sbollire la rabbia.
“Allora dormi con quel cubano del cazzo stanotte.”
“E’ argentino, pezzo di ignorante.”
Prima di coricarmi ho fatto il pieno dando fondo alla bottiglia di grappa che tengo in cucina.
Così ho smorzato il furore. E le molle che mi stanno scorticando la schiena non mi impediscono di addormentarmi.
Anche se lui mi guarda sempre.
So che domani sarà lì a salutarmi al risveglio e che dovrò compiere il sacrificio di non dargli fuoco.
Mi sveglio alle quattro del mattino, con la bocca arsa e amara.
Vado in cucina a bere. Mi stendo di nuovo.
Ora che l’alcool è svanito sento tutta la scomodità del mio giaciglio. Non è facile riaddormentarsi.
Penso a Marta. Chissà se s’è pentita del suo gesto.
Figurarsi.
Mi alzo, cammino fino alla sua stanza. Mi affaccio dentro con la testa.
Dorme. Serenamente.
Serena come dopo l’amore, abbracciata al cuscino anziché a me.
Magari prima di scendere nel regno di Morfeo s’è toccata.
Pensando a Che Guevara anziché a me.
Torno in posizione orizzontale e il sonno arriva piano, dopo un bel po’.
Risveglio schifoso.
Marta che sbatte porte, cammina su e giù e alla fine esce per andare al lavoro.
Io oggi sono di riposo e non ho nulla di importante da fare.
Mi solletica l’idea di un caffè accompagnato da una di quelle paste al cioccolato che il sor Guglielmo prepara con sagacia ed esperienza.
Ma non mi va di correre il rischio di incontrare qualcuno dei miei amici.
Quegli stronzi non perderebbero l’occasione per mettermi nuovamente in mezzo.
Preparo il caffè con la macchinetta di casa. Intingo nella tazzina tre o quattro frollini intostati dal tempo.
Esco.
Cammino per le strade del mio quartiere con l’unico scopo di uscirne. Non voglio parlare con nessuno. Non voglio sentire nessuno.
Arrivo al ponte sul fiume Aniene.
Strano. Non l’ho mai osservato da qui. Di solito il ponte lo attraverso in macchina e l’acqua la intravedo appena. Meglio così però.
Lo spettacolo è deprimente. L’Aniene è di un colore verdemarrone. Tra i flutti galleggia di tutto e sulle sponde c’è una rimpatriata di topi grossi come cervi.
Qualcosa è incastrato a uno dei piloni del ponte. Ma dal punto in cui mi trovo non si capisce bene. Mi sporgo ma non è ancora abbastanza.
Devo guardare da più in alto, è questa l’unica soluzione.
Salgo sul muretto in pietra che fa da balaustra e resto deluso. Anche da qui nulla. La visuale non va.
Una voce si rivolge a me. E’ la voce di una vecchia: “Che fai? Perché ti vuoi buttare all’età tua?”
Non ho il tempo di replicare.
Un altro passante mi urla: “Fermo! Parliamone! Non fare gesti avventati!”
Un signore di mezza età si avvicina e si interessa all’accaduto. Mentre il passante non mi lascia parlare, la vecchia gli spiega quel che sta succedendo.
Vedendo questo piccolo assembramento, altra gente si incuriosisce, vengono tutti davanti a me che rimango fermo in piedi, sul muro.
Devo spiegare. Devo dirlo che è un equivoco. Devo dire a tutti di levarsi dalle palle perché io non ho voglia di parlare con nessuno. Sono ancora troppo incazzato e ne ho ben donde.
Provo ad aprir bocca ma un altro tipo si sovrappone persino alle parole che il passante non ha mai smesso di mitragliarmi contro.
“Che cazzo ti dice il cervello? Scendi da quel muro. Che pensi di fare eh? Di ammazzarti? Pensi sia la soluzione? Bel cacasotto che sei. Complimenti.”
Tra la gente si alza un brusio. Una bella ragazza se la prende con l’altro tipo accusandolo di rozzezza e coglionaggine, oltre che di incapacità.
Non provo più a parlare. Il passante ha riattaccato la sua predica. La vecchia continua ad aggiornare quelli che si uniscono al gruppo. L’altro tipo è rimasto lì dopo esser stato redarguito. Zitto ma presente sul fatto.
Comincia a girar voce che io sia muto. Perché non rispondo.
Ho il sole alle spalle. E si sta alzando il vento. Lievemente mi muove i capelli che escono dal berretto di lana che mi copre la testa.
Quel po’ di barba che ho non riesce a proteggermi il viso dal freddo. Non è niente male. Dall’alto guardo questa gente che è qui per me.
Vorrei che Marta mi vedesse ora. Splendido e lucente come il suo Che Guevara a tener la folla col fiato sospeso.
Ma lei non lo saprà mai. In questo momento è in ufficio, al concludersi del suo orario sarà tutto finito da un pezzo.
Un nuovo arrivato scatta una foto con la sua macchina digitale.
Che buffo.
Se mi lanciassi di sotto il nuovo arrivato potrebbe vendere quello scatto a caro prezzo alle cronache locali di tutti i più importanti giornali.
Tutti vedrebbero il ritratto di un volto radioso, strafottente, un po’ peloso.
Anche Marta.
La vista di quella foto la tormenterà per sempre e non mi sembra di esagerare. So cosa vuol dire vivere tormentati da un volto. Potrebbe essere il momento di cedere il testimone con fare vendicativo ed estremo.
Basta girarsi verso il fiume e saltare.
Non so se ne ho il coraggio. Non so se mi conviene, in fondo.
Potrei semplicemente andare a casa e fare un gran fagotto con le cose di lei.

Mentre rimugino la gente parla.
Anche il passante continua a parlare ma non sento niente di quel che dice per quanto sono intense le mie riflessioni.
Mi viene da pensare a come, tante volte, le scelte razionali e convenienti non siano state il mio forte.
Ma questa è un’altra storia.
Luca Piccolino
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