Primo giorno

di Iacopo Barison

L’ultima parola che ha detto è stata “Casablanca”, poi si è alzato da tavola senza finire la cena ed è andato in camera sua e il giorno dopo l’abbiamo trovato morto ma apparentemente felice, forse è morto sorridendo, e quando mia madre è entrata e ha capito la situazione diciamo che si è messa a piangere, anche se non avevo mai visto nessuno piangere in quel modo, e io non guardavo il corpo di mio fratello né la coperta su cui era disteso ma osservavo il pavimento e
“Siamo arrivati”, dice una ragazza bionda con cui prima ho parlato di cinema. Anche lei sta andando al festival della città di S. e mi informa che scenderà adesso, a questa fermata, e io le rispondo che non è ancora la fermata giusta perché la città di S. inizierà a intravedersi soltanto fra qualche chilometro e lei mi dice che Leggi il resto dell’articolo

Pubblicità

Carta taglia forbice – 6

[Continua da qui]

Parte seconda – I monologhi della prima persona

Si dà il caso che io mi trovi a mio agio con i Michael Laski di questo
mondo, con quelli che vivono fuori dal mondo invece che al suo
interno, quelli il cui senso di terrore è così acuto che ricorrono
all’impegno in cause estreme e disperate; ne so qualcosa anch’io
della paura e apprezzo gli elaborati sistemi con cui certa gente
riesce a riempire il vuoto, apprezzo l’oppio dei popoli in tutte
le sue forme, da quelle accessibili come l’alcol e l’eroina e la
promiscuità a quelle difficili da trovare come la fede in Dio o
nella Storia.

Joan Didion

Una grande città dell’Europa occidentale

Lui.

Ho pensato alla morte molto spesso. Da quando ero piccolo e, se ricordo bene, le mani non arrivavano alla maniglia di una porta. Mio padre mi sgridava e io morivo soffocato. Mia madre mi negava qualcosa e io morivo impiccato. La processione al funerale era una cosa straziante e io piangevo più degli altri. Ero un maestro dell’autocommiserazione. Ho iniziato a scrivere allora. E non ho mai smesso. Continuo a commiserarmi.
Mi hanno insegnato un mucchio di cose, nel corso degli anni, ma nessuna di queste cose è stata capace di chiarirmi perché sono così e continuo ad essere così come sono.
Come sono è facile da spiegare: Leggi il resto dell’articolo

Il mio senso dello scrivere

Beijing, 27-09-2010                                                                                                                                                                                                                           21:36

Il mio senso dello scrivere (dal mio ultimo libro Diaria di Bardo. Inedito e inaudito.)

Tutto ha preso una brutta piega: chi spiega più la piaga? Chi ancora è in grado di mettere il dito putrido d’inchiostro nella piaga imputridita di sozzura? Chi sa inoltrarsi nella cancrena paludosa, bagnarsi del vischioso catrame e saperne emergere alleggerito, contaminato ma incolpevole? Dove sei ragazzo stanco che osservi da uno spiraglio la tua città e ne intravedi la prossima distruzione e ne suggerisci miraggi di redenzione? Dove sei scrittore-profeta che con sottigliezza, disperazione, incanto, profondità, umorismo, facevi della tua arte un’arte indispensabile, una quotidiana imprescindibile necessità organica? Bere, mangiare, amare, leggere, allora si, poteva significare essere uomini. Chi sono oggi questi zampognari stonati che si millantano direttori d’orchestra? Appena alfabetizzati e credono che questo basti? Sono ingenui, inconsapevoli o scaltri profittatori del disastro sociale? In parole povere, in poche parole: parole vuote. Consunzioni neorealistiche prive di sradicamenti epifanici, teratologie pruriginose per ragazzini sadici, morbosi voyeurismi, intrattenimenti volgari, sceneggiature cinematografiche vendute come avanguardia. Non voglio saperne di quello che vedo. Chi sa raccontare quello che non vedo? Chi osa? Chiosa: la letteratura è piaga. La grande letteratura è stimmate. Epigoni, plagiari, seriali deuteragonisti. L’imitata opera è sempre limitata. Oltrepassare i limiti. Passare oltre. Varcare la frontiera. Sfrontati. Non cercare appartenenze ma appartenere alla ricerca. Totalmente. Salvatori di patrie galere imprigionano la salvezza dell’espatrio. Ci vuole sfratto per certe cose. L’abilità è avere padronanza nella labilità. Caracollare sul filo. Sfilare caracollando. Essere coscienti della propria incoscienza. Senza la congiunzione di questi presupposti o si è patetici esibizionisti o esacerbanti pedanti. Si trova il Senso laddove si cerca l’Insensato. E non c’è gloria, successo, trionfo. C’è solo perdizione nell’angosciosa vacuità del vivere, nel significato disumano dell’umana insignificanza. Battere il dente dove la lingua duole. Mordersi le labbra e bere il proprio sangue per sentirsi vivere attraverso la propria mortalità. Emanciparsi dalle mortificazioni dell’amicizia, dall’umiliazione della solitudine, dalle lusinghe artefatte dell’amore, dalle spire immobilizzanti della famiglia, dall’altezzosa indisponenza del proprio infimo arbitrio, dal paludoso dispotismo del potere, dal quotidiano squallido teatro del verminaio sociale, dall’idolatria di sé. Ombra. Io sono un’ombra. Intorno a me la mia zona d’ombra. Buio pesto. Pesto il buio. Cieco cammino. Una scala m’impone di scendere. Discendo dall’imposizione di uno scalo. Gradino dopo gradino. Degrado. A zero gradi azzero i gradi. Sono disertore di leva, militare di levasione. Più corro il rischio di raschiare il fondo più vado a fondo. Affondo. Schermaglia della salute. Mi libero finalmente. Mi libro finalmente. Leggero finalmente. Leggo finalmente.

Dario Falconi

[se vuoi ricevere cose da Dario Falconi scrivi un’e-mail a d4ok@yahoo.com]

Un bacio sulla bocca

Tiro fuori dall’armadio la mia borsa nera, quella di vernice con sopra il disegno di una lucertola. È un po’ piccola, ma la riempio con tutto quello che ho sottomano. Due T-shirt, un golfino, la felpa dei Rolling Stones con la lingua di fuori, una tuta da ginnastica e le mie Nike predilette. Non contenta, ci metto pure un paio di jeans, una copia di Vanity Fair, un libro di Patrick McGrath e l’ultimo Cd dei Babyshambles. Però, manca qualcosa.

La Gazzetta di Parma è ancora sopra il letto, aperta in terza pagina dal giorno prima. E lì accanto c’è il libro che avevo comprato per te, Andrea. Il tuo regalo di compleanno.

Ieri non ho fatto in tempo a dartelo, così è meglio che ora lo porti via con me. In ogni caso, non lo avresti letto. Non ti sarebbe piaciuto. Io non so cosa ti piace, così ho scelto un libro a caso, un brutto libro, una storia da quattro soldi che parla d’amore, di destino, e di mille occasioni perdute. Eppure, per un attimo, ho creduto che parlasse anche di noi due.

Invece ho scelto male, Andrea.

Ho sbagliato, perché io non ti ho perduto.

Tu sei in tutte le mie parole, nei miei respiri, nei miei più intimi pensieri. Ma questo non lo sai.

Tu non sai nemmeno che esisto.

Non c’è mai stato niente tra noi due, solo un bacio sulla bocca dato un po’ per scherzo, un po’ per noia. Ma io non ti ho dimenticato. Sono passati quasi tre anni da quel bacio, ed io ti ricordo ancora.

Tre anni, sembra incredibile.

Come vola il tempo quando non ci si diverte. Quando ogni fibra del tuo essere, ogni minuscola particella d’energia che gravita nel tuo corpo è tesa verso un solo obiettivo, un solo amore.

L’amore che quelli come te non meritano. L’amore che capita una volta nella vita, quello che nel Trecento veniva cantato dai poeti. Ma io non sono un poeta. Sono una puttana, sono una stronza, sono tutte queste cose, ma di certo non sono un poeta. Allora mi chiedo perché è successo a me e non ad un’altra. Perché mi sono innamorata del tuo cappotto nero, e di quella sciarpa bianca che ti ostinavi a portare fino a primavera. Eppure, conciato così, ricordavi Bela Lugosi ai tempi dell’Uomo Ombra, o David Copperfield, il mago, durante un trucco di scena. E anche i tuoi occhi erano un trucco, Andrea. Sembravano così intensi, così profondi, quando invece erano vuoti. Vuoti, come vuoto è il baratro che si apre ai miei piedi, ogni volta che un amico mi fa il tuo nome, ogni volta che m’imbatto in una tua fotografia. Già, le fotografie. Quelle sono la cosa peggiore. Mi sento impazzire quando, dal fondo di un cassetto, fa capolino la tua fronte alta, o la bocca che ho baciato avidamente, la stessa bocca che poi mi ha detto parole tanto dure.

Tu hai riso del mio amore, Andrea. Ed io ho passato questi ultimi tre anni ad augurarti tutto il male possibile, a maledire ogni tuo passo, ogni tuo gesto. Perché non hai capito niente. Perché senza di te, mi era impossibile anche respirare.

Tu eri la mia aria. Eri la mia vita, il mio spazio, il mio tempo. Eri il cielo stellato che osservavo da bambina, eri il colore sulle pareti della mia casa, il profumo del pane appena fatto che mi svegliava al mattino presto.

Tu eri tutte queste cose, e non lo hai mai capito.

Hai scelto di andare per la tua strada, come oggi io vado per la mia. Tra poche ore, prenderò il treno che mi porta via da questa città, da quest’Emilia che ci ha fatto incontrare. Tornerò a casa e riabbraccerò i vecchi amici. Mi ubriacherò, mi divertirò, e dimostrerò a me stessa, una volta per tutte, che alla fine sei tu quello che ha perso.

Tu hai perso me, non il contrario. E con me, hai perso tutto il resto. Hai perso un amore che non meritavi. E hai perso anche il tuo compleanno, gli auguri, e la festa.

Finalmente, sulla Gazzetta di Parma vedo anche il tuo nome. L’inchiostro viene via e non si legge bene, ma mi pare di capire che non è stata colpa dell’alcol, quanto della roba che hai preso. È quella roba che ti ha ucciso, Andrea. È stata l’eroina, non l’intruglio che hai bevuto. C’è scritto qui, a caratteri piccolissimi. Ma in queste righe non si parla dei tuoi demoni, della tua paura di vivere. Queste righe non spiegano la tua incapacità di essere felice, ed il dolore che, invece, sei in grado di dare a chi ti ama. Sei solo un tossico da terza pagina che ha sfondato il guard rail, uno dei tanti.

La Gazzetta non dice che ieri era il tuo compleanno. Dice solo il nome del cimitero dove ti hanno sepolto. Quello è scritto in grassetto.

Cristiana Danila Formetta

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 18

[continua da qui]

Purtroppo dovremo accontentarci di un processo alle intenzioni, che sarà senz’altro sommario, ma che conterrà comunque le sue indubbie verità.

Ad esempio, che i sedicenti scrittori, una volta concluso il fallimentare reading, non si recarono a casa della cugina in dolce attesa, bensì girovagarono in auto per la città e per giunta in condizioni fisiche non del tutto adeguate. Insomma, pare proprio che in mancanza di pecunia essi approfittassero soventemente della gentilezza dei baristi, ovvero che alzassero il gomito con facilità, così come accadde quella notte all’ombra delle guglie del Duomo – per quanto fosse notte.

Così conciati essi si ubriacarono d’aria per le vie del Biscione, assetati e furenti come dei discendenti di quel principe Saraceno che fu battuto a duello da Ottone Visconti*. In queste condizioni, finirono a tarda notte dalle parti degli studi televisivi, dove la biscia non ha un moro in bocca, bensì, più poeticamente, un fiore.

I cinque – che si fossero riuniti o meno non ha più importanza – pare che rimasero di stucco dinanzi a quell’enorme margherita di grigio metallo, tanto che in uno dei taccuini compare un passaggio piuttosto esplicativo in proposito:

Mai visto cotanto simbolo di sole asservito al colore che più si confà all’alienazione; il gigantesco fiore secco si libra in aria, al di sopra dei miei occhi, insensibile come un ingranaggio e pronto a schiacciare l’uomo ancora dedito al sogno…

Adesso penserete che di vera poesia si tratti, e che tutto questo resoconto sia stato un tentativo poco felice di sminuire un’arte che invece merita plausi e allori, ma posso assicurarvi che la precedente citazione è un’eccezione alquanto rara all’interno di un’accozzaglia di retorica assai poco cesellata.

Gli è che, a mio modesto parere – per carità, son giornalista, mica poeta! –, quel simbolo di un potere tanto visibile quanto occulto, fu senz’altro una ricca fonte d’ispirazione, tanto che ingravidò le loro bocche di belle parole e le loro teste di cattivi pensieri. Insomma, quella stessa forza contro cui si battevano – che loro definivano populista – finì con l’offrirgli i semi per i loro miglior frutti, e questo ci basti per affermare che non sempre l’arte nasce dal bello e dal buono, anzi, ché a ben vedere pare proprio che prenda forma per il verso contrario.

Per certo si era di notte, nell’ora popolata dai mostri, per quanto gli studi fossero illuminati a giorno, poiché la scatola dei sogni in technicolor non si addormenta mai, e di conseguenza non dorme chi vi sta dietro a dipanarne i fili. Di spiriti i nostri scrittori dovevano vederne assai, e di fantasmi pure, annebbiati com’erano dalla loro ideologia e da tutto quell’alcool: mostri che con le loro fauci inghiottivano il paese e lo sprofondavano nella melma della barbarie. Ed era proprio per combattere contro queste terribili creature ch’essi erano arrivati ai piedi del tempio a cristalli liquidi, del totem degl’imbonitori che abbagliavano gli spettatori di bianchi sorrisi e di sguardi invitanti, mentre zompavano da un’inquadratura all’altra senza perder mai il centro dell’immagine.

Immaginateveli davanti a quell’enorme blocco di vetro e cemento, finalmente giunti alla loro meta, con gli occhi tremolanti e la gambe molli, ma soprattutto orfani del dono della parola; perché così dovettero sentirsi quando si udì il cigolio di stivali in pelle in avvicinamento sull’asfalto, mentre la voce di una guardia urlava il chi va là…

Simone Ghelli

* Si narra che nel 1187 Ottone Visconti sconfisse in duello un principe Saraceno che portava sul proprio elmo una grossa serpe che ingoiava un infante. Dopo aver schiacciato l’esercito saraceno come si schiacciano i serpenti, quelle insegne strappate al nemico furono donate dal Visconti alla Cattedrale di Milano

Il cagnolino rise

Il cagnolino rise *

Le ore in quell’ufficio impolverato (la polacca non fa mai un buon lavoro la mattina delle pulizie) si erano consumate più lente del solito e scampare allo stillicidio assassino mi era parso ancora più gravoso oggi. Alle sedici e trenta varcai la soglia, come ogni venerdì. La città si srotolò generosa sotto i miei piedi. Con passi avidi e irriconoscenti la calpestai per quindici minuti, senza mai alzare lo sguardo. Dopo trent’anni a Roma, il Colosseo fa l’effetto di una latrina, un gigantesco cesso annerito dall’usura, visto dall’alto naturalmente. Finalmente a casa. Sono le cinque, l’inverno ha già ottenebrato quella che era cominciata come una giornata di sole. Immaginare questa scatola compressa come una casa è un’opera di alta e furiosa alienazione: d’altronde sono un genio della finzione.

Faccio la mia doccia, quella che uso per eliminare le scorie della vita ingiacchettata. L’acqua fredda mi avvizzisce l’affare e il cuore si riempie di pena per quel pezzo d’anatomia su cui da almeno vent’anni non riesco ad esercitare alcuna autorità.

Avvicino la faccia allo specchio, nessuna traccia di maschio. Leonardo passa il turno a Leonida, unica regina del venerdì sera capitolino. Sul letto l’abito rosso m’aspetta. Mezz’ora di trucco e il gioco è fatto. Niente Carrà, stasera sarò originale.

Fottuti froci-padri di famiglia, solo loro mi desiderano e solo loro maledico. Pensare di lasciarmi scopare da uno che di giorno fa il marito mi eccita. A piacermi, in realtà, è l’idea che lui sia un padre. L’attrazione irrazionale verso mio padre non l’ ho cancellata nemmeno con l’analisi. E non è la storia del poveraccio che si ammala di omosessualità perché figlio di un uomo assente e violento. Mio padre c’era, mi amava e accettava la virulenza della mia parte femminile, chiamiamola così. Il sessantottardo era un tipo avveduto per l’epoca e io un uomo nato omosessuale, innamorato del proprio padre e per questo destinato a restare solo, almeno affettivamente.

La vita reale mi annoia, mi nutro di finzione e le metamorfosi del venerdì mi saziano. Il mio travestimento è arte. Riempite le tette, mi passo le mani sui fianchi, ciondolando le anche ossute e lo specchio risponde austero con un’immagine tutt’altro che deludente. Leonida stasera è proprio una fica, mi sussurro tutta sussiegosa. L’amore non mi interessa. L’amore non lo conosco e, come tutte le cose fuori controllo e cognizione, lo temo. Dunque lo rifuggo, quando sento il suo odore di zucchero, cambio immediatamente direzione. Gli uomini mi desiderano e mi basta, per sopravvivere, intendiamoci. Io non sono felice. Leonardo non è felice. Leonida non è felice. Entrambi portano a casa la pelle, cedendosi il passo di tanto in tanto. Quella volta al Blood, dieci anni fa, me la ricordo come se fosse ieri. Avevo da poco cominciato a fare marchette: la vita per una che non voleva scendere a compromessi con la normalità affettata e imposta a volte va guadagnata così. Che cazzo volete saperne voi nati maschi in corpi di maschi. Al Blood quella sera d’estate conobbi Luca, un ragazzo confuso e angosciato dalle pulsioni opposte che il suo corpo e la sua mente manifestavano. Faceva il duro, il maschio che aveva accompagnato una sua amica lesbica a rimorchiare. Dieci anni fa ero di una bellezza conturbante. Sempre stato glabro, parevo un angelo, la decifrazione del mio sesso era complicata. Parevo una donna, profumavo di donna, ma le mani erano di uomo, le spalle sapevano di forza. E Luca rimase folgorato. La lesbica si accorse subito di tutto, certe cose le sentiamo in anticipo tra di noi. Al terzo drink Luca era tra le mie braccia, fingendo di non sapere del Leonardo che nascondevo tra le chiappe. Mi accertai che la dark room fosse vuota e nera. Lo presi per mano e lo invitai ad entrare, rassicurante e puttana. Volevo lasciarmi scopare. Gli presi le mani e gliele infilai nelle mie mutandine di pizzo. All’epoca ero ancora nuova dell’arte. All’epoca pensavo ancora che l’amore non avesse regole, generi, verità. All’epoca credevo ancora di essere normale. Di fronte a noi c’era una peritosa riproduzione della Marilyn di Warhol che ci fissava. A destra, in un angolo illuminato di rosso, c’era una statua, un bulldog inglese di ceramica, un fottutissimo cane bianco, grottesco e pacchiano. Ricordo il momento in cui Luca mi sfilò l’uccello: aveva la faccia di chi non credeva ai propri occhi. Io esplosi in una risata grassa e indecorosa, per mascherare paura e vergogna. Anche il cagnolino rise, quel fottuto animale di ceramica si mosse, almeno così mi sembrò. Ero talmente frastornata che immaginavo anche dio ridere di me. Luca mi pestò a sangue, ma questa è un’altra delle tante storie violente che potrei raccontare. Comunque, è da quel giorno che l’amore ha smesso indiscutibilmente di interessarmi. E’ da quel giorno che ho rinforzato la convinzione che quella madre algida e lontana m’aveva conficcato nel petto: uno come me non merita amore. Il sesso m’interessa, essere attraversata dall’incontenibile brama maschile mi lascia al mondo. E mi basta. La parrucca, le tette posticce e smisurate, sono il mio escamotage, la mia finzione di vita. E questa farsa mi serve per sopravvivere degnamente. I giudizi e i rancori non li temo. Leonardo di giorno, Leonida di notte. Quando il sipario si chiude sono un essere umano addolorato e solitario. Le mie lacrime le asciugherò con le lenzuola, quando la mia stanza vuota mi accoglierà di ritorno dall’ennesima festa in cui vi ho fatto divertire.

D’altronde io sono un genio della finzione.

Maura Chiulli

* Racconto pubblicato nell’antologia E il cagnolino rise (Tespi, 2009)

Il cielo dei se

IL CIELO DEI SE *

Era così profondo che a guardarlo dall’alto quasi avevo le vertigini. Il canyon che mi ritrovavo sotto il collo, là dove normalmente sorgono floride colline, mi lasciava in uno stato di arida desolazione ogni volta che mi esaminavo allo specchio. Profilo destro. Profilo sinistro. Frontale. Osservavo attentamente qualsiasi impercettibile rigonfiamento che potesse farmi sperare in un embrione di femminilità. Ma niente. Lo specchio, facendomi rassegnate spallucce, mi rifilava sempre lo stesso verdetto: anche questa estate niente tette. Mi rivolsi allora all’unico santo a cui potevo votarmi: mia nonna Alberta, intenta in quel momento a fare la sfoglia. Diceva rosari per ogni gattino smarrito, ogni gamba fratturata, ogni colpo di tosse del paese: non vedevo proprio perché non potesse occuparsi del problema del mio seno, che all’epoca mi sembrava poter competere con la guerra e la fame nel mondo per aggiudicarsi il titolo di più grave catastrofe dell’umanità. E così le commissionai due rosari, uno per seno, e che ci si mettesse d’impegno, la rimbrottai direzionandole lo sguardo a quei tristi bottoni di tettucole che avevo al posto del decolleté.

Il punto è che io volevo diventare bella e grande per lui, Bici Rossa, il mio amore sedicenne, un affascinante moretto che passava le vacanze nel mio paese. L’estate per me cominciava quando riuscivo a vedere (dopo settimane intere di indecenti appostamenti in cima alla collina) la macchina dei suoi genitori parcheggiata davanti alla sua villa e finiva quando lui se ne andava con le prime folate settembrine. Trascorrevo l’intero inverno a immaginare il momento in cui ci saremmo rivisti: lui scendeva dalla macchina dei suoi, mi scorgeva (nel frattempo ero diventata una strappona bionda, alta un metro e ottanta, con la quarta di reggiseno e avevo anche ottenuto magicamente un paio di occhi verdi) mi diceva “sei proprio tu? Sei diventata meravigliosa!”, s’innamorava all’istante, ci baciavamo e vivevamo felici e contenti, come in tutte le fiabe che si rispettino. Proprio quel giorno, finalmente, l’estate era arrivata in macchina con Bici Rossa e me ne stavo irrequieta al fiume con i miei amici, sapendo che poteva comparire da un momento all’altro.

Era così profondo il fiume che ogni volta che mi tuffavo per andare a toccare il fondo non riuscivo a riemergere per vari secondi. Quando sbucai dall’acqua gelida e me lo ritrovai davanti, lì in acqua accanto a me, lo accolsi con la mia muta bocca spalancata: è qui che il mio film cominciava. Ma io non ero una strappona bionda bensì un’aspra dodicenne e neanche quell’anno, chiaramente, il film cominciò. Bici Rossa mi salutò con il suo sorriso pieno di sole e malizia, mi fece una carezza sulla testa di quelle che si fanno ai bambini e si occupò presto di altro, anzi di altre. Loro sì che erano appetibili: avevano addirittura tredici anni, venivano dalla “città” e non gli mancavano di certo delle arroganti, altezzose mammelle. Bici Rossa e gli altri ragazzini cominciarono per scherzo a slacciare a tutte il bikini. A tutte tranne che a me, perché era inutile. Un pochino mi rodeva.

La sera, come ogni sera, raggiunsi gli altri nel piazzale. Anche se eravamo piccoli nel paese non si celavano pericoli e i nostri genitori ci facevano restare fuori fino a tardi, le undici. Io avevo sempre i capelli ancora un po’ bagnati e un inebriante odore di balsamo addosso: era quello il profumo dell’estate per me, l’odore di una promessa mai completamente mantenuta.

Giocavamo sempre a un nascondino evoluto, che aveva come confini i dintorni del paese. Anche quella sera Daniele cominciò a contare Uno, due, tre…novantanove, cento! e noi ci spargemmo dietro ai porticati, giù per i borghi, sotto il Ponte medioevale, su a perdifiato per le colline. Io “casualmente” mi nascosi nel prato in cima alla collina con Bici Rossa. Mentre eravamo stretti stretti dietro a un dosso, il silenzio della notte si addensò attorno a noi e lui mi disse “quando sarai più grande ripasserò”. E allora cominciai subito ad aspettare di diventare grande, e a contare Uno, due, tre…novantanove, cento… Gli sorrisi per quella spremuta di potenzialità che mi stava offrendo, felice in fondo di non essere ancora. Ci sdraiammo sul prato senza fare più nulla se non contemplare le stelle che pattinavano veloci sul cielo nero.

Era così profondo il cielo e così pieno: pieno di tutto quello che mi sarebbe accaduto, di tutto quello che mi sarebbe potuto accadere e anche di tutto quello che non mi sarebbe accaduto mai. Mentre sentivo di lontano gli echi degli scalpiccii di qualcuno, dei “Tana per me!” e mia mamma che mi reclamava dalla finestra – No, mamma, fammi giocare ancora un po’– io mi scioglievo tra le trame oscure del cielo, da cui mi sgocciolavano addosso dei seducenti

SE      SE      SE…

Sofia Assirelli

* racconto pubblicato sul Corriere di Bologna

Diario di bordo – Colle Val d’Elsa

Rieccoci nuovamente. Come anticipato ieri, per questo lunedì interrompiamo la rubrica Poesia precaria per dar spazio al Diario di bordo di Scrittori precari.

Buona lettura.

Gianluca Liguori


Scoppio ancora di emozioni colorate ed accoglienza immersa nella natura. Avrei voluto vedere lo spettacolo ma ero sul palco.

Andrea Coffami


Secondo Google mappe Colle Val d’Elsa è raggiungibile velocemente da Montevarchi tramite una strada alternativa, che risparmierebbe il passaggio per la superstrada e per Siena tagliando attraverso il Chianti. Stampo la cartina e parto. Un’ora e mezza più tardi, perduto tra Radda e Castellina in un incubo di tornanti, medito il suicidio.

Raggiungo infine Colle in clamoroso ritardo e vengo recuperato dal Chimenti in una bizzarra piazza postmoderna. Il regista mi conduce attraverso misteriosi cunicoli nel ventre della collina fino a un ascensore fantascientifico; inizio a pensare che Colle Val d’Elsa è un posto davvero molto strano. E molto bello: per qualche motivo, dal Valdarno immaginiamo sempre i paesi del senese come brutti, forse per la fosca fama di Poggibonsi, e irrimediabilmente questi si rivelano infinitamente più belli dei nostri.

Attraversiamo questa Loro Ciuffenna monumentale finché scorgo le sagome note, inconfondibili nella postura e nei gesti, degli Scrittori Precari, professionisti della pausa cicchino. Chimenti e Montagnani mi lanciano in prova generale (più tardi Chimenti avrà modo anche di lanciarmi letteralmente) senza spiegazioni, ma dalla luce che brilla negli occhi dei Precari, e dalle luci vere, sparate con sapienza sul palco, capisco che la faccenda funzionerà.

A prove concluse scendiamo nel Foyer per rimetterci in sesto a caffè e whisky; benché mi tocchi bere un terrifico blended, il buonumore tiene. Inizia a trasformarsi in tensione quando realizziamo che sta effettivamente arrivando gente, e che anzi il teatro dei Varii sarà pieno.

Neanche il tempo per tremare, e siamo già in scena; avendo i registi studiato per me un ruolo da “finto spettatore”, pronto a entrare in scena dalla platea, posso godermi lo spettacolo dalla prima fila. E funziona, lo spettacolo, non solo nel documentare il collettivo Scrittori Precari e la sua attività letteraria, ma anche nel cogliere, grazie all’incrocio tra materiale filmato e lettura dal vivo, i tratti salienti di ciascuno, e così abbiamo uno Zabaglio tanto spassoso quanto amaro, laziale più che romano, che in controluce carica macchinette del caffè e auspica segreti piani di rivolta; un Piccolino corporale e romantico, imbianchino pratoliniano, che estrae poesie dal secchio della calcina, un Liguori dolente, quasi un personaggio di de Amicis, nel suo farsi carico con dignità di tutte le ingiustizie del mondo, un Ghelli felino, solo apparentemente mite, Bianciardi reincarnato, e salvato, forse, dall’aver scelto Roma invece di Milano. E li troviamo tutti insieme, a imbarazzarmi con la lettura di un mio brano, e poi sagome nere, di nuovo inconfondibili, mentre la regia gli spara addosso un filmato torcibudella. C’è tempo poi anche per i miei cinque minuti di gloria, con una lettura dal prossimo romanzo, ma gli applausi sono certamente, e giustamente, tutti per loro.

Vanni Santoni


Andare in scena non è stato facile: due giorni di prove, pochi mezzi tecnici e un budget ridicolo sono ciò che abbiamo a disposizione. Quando le luci si abbassano ci accorgiamo però che il teatro è pieno. Un senso di incredulità che raddoppia la tensione. Alla fine gli applausi, la voglia del pubblico di non andare subito a casa, di parlare di quanto hanno appena visto e sentito. Questo volevamo: prolungare la messa in scena attraverso il lavoro cognitivo dello spettatore.

Leggendo i giornali, guardando i telegiornali, comunemente parlando, siamo allo stesso tempo vittime e propugnatori di un inarrestabile impoverimento del senso comune. Un impoverimento che passa attraverso il linguaggio, cavalcando parole-marionetta – “precario”, “straniero”, “extracomunitario”- che ci annebbiano la vista sul mondo per farne una terra straniera.

Ci muoviamo da tempo in un orizzonte comunicativo verbo-visivo che basa la sua efficacia sulla devalorizzazione e sulla desemantizzazione dell’esperienza, come sull’anestetizzazione del comune sentire: per ridare un corpo semantico all’immaginario non resta allora che rivendicare l’extraterritorialità della “scrittura di scena” e la sua capacità di comporre l’eterogeneità delle deposizioni e delle registrazioni, di attraversare le terre ed incrociare gli sguardi. Ma per riuscirci è necessario sapere esattamente cosa raccontare e come farlo.

Quello che noi, assieme a Scrittori Precari e Vanni Santoni, volevamo raccontare è il paese Italia, il paese che muore, il paese che dello spettacolo ha fatto la realtà perché la realtà potesse sembrare uno spettacolo. E per farlo abbiamo usato ogni mezzo a nostra disposizione: il documentario e la performance, la luce e la musica, il videoclip e la pagina scritta.

Adesso bisogna rilanciare la posta in gioco, portare lo spettacolo in giro, sino a dove possiamo arrivare.

Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani


LIVE THE WRITING – omaggio breve a Trauma Cronico e ai pigiami singolari

“Prima ci facciamo un’idea, poi semmai…”, così dicendo il pubblico entra in sala e si siede in platea dopo aver ispezionato di fretta libriccini cd e volumi riposti in bella vista sul tavolo all’ingresso.

Piccolo gingillo questo teatro dei Varii, i cui fronzoli ottocenteschi cozzano meravigliosamente con l’apparato scenico vuoto dei Precari, creando una strana attesa incerta e diffidente.

A terra i cavi sembrano serpenti dormienti in attesa di venire scossi e manipolati dalla fonazione.

Nessuno sa. Si può solo immaginare a scatola chiusa cosa mancherà, essendo solo un reading. Cosa non si vedrà, visto che è solo un reading. Quanti tempi si dovranno aspettare in tossicchio nervoso a causa di virgole e punti e fogli da girare. “E’ solo un reading!”

Scorrendo, le immagini per qualche minuto restano schiacciate sul fondo. Innocue. Distanti. Finché lo spirito si fa carne e qualcuno esce dallo schermo, invadendo lo spazio che prende a riempirsi. Sotto l’occhio di bue sale la voce e lo scrittore s’allontana dal precario. Lo vedi perchè si premura di centrare la carta e se stesso sotto l’occhio di luce, finendo, senza volerlo, col dare preminenza al foglio. Deformazione professionale.

Lasciando cadere le pagine a terra sembra sospeso su una nuvola bianco sporco e finisce per fondersi con le immagini in un gioco serrato di dentro e fuori, casa e palco, voi e noi. Noi. 4+1 moschettieri immobili, illuminati psichedelicamente dalle luci che, ora, sparano su un pubblico calato e assorto. In attesa di altro.

Lo sguardo che dopo un’ora e mezza davanti al tavolo all’ingresso ripassa in rassegna a mente fresca le copertine dei libri, ha un’altra coscienza.

“E’ solo un reading… forse”.

Donatella Livigni


La prima volta degli Scrittori precari in un teatro.

Una prima volta che emoziona ma intriga fin da subito.

Le tavole di legno sotto ai piedi. Un’acustica particolare e a noi nuova. Le luci puntate su di noi che non riusciamo a vedere il pubblico davanti a noi. Strano.

Da quando abbiamo iniziato l’avventura di Scrittori Precari abbiamo avuto col pubblico un rapporto quasi simbiotico. Ed ora siamo soli, in una bolla di luce che non svela i volti in platea.

E’ l’applauso che accompagna la nostra uscita di scena a sollevarci. Man mano che ci alterniamo ci rendiamo conto che questa nuova dimensione non ci è poi tanto estranea.

Lo spettacolo dura un’ora e quaranta ma vola via come se niente fosse. E noi, nonostante tutto ancora leggeri, ci rendiamo conto che avremmo persino voglia di rifarlo daccapo.

Luca Piccolino


Erano anni che non tornavo a Colle: anni ingoiati dalla vita metropolitana, dove il tempo scorre ad alta velocità. Una volta amavo fuggire dalla bolla d’aria che è la vita di provincia, oggi sento a tratti la necessità di ritornarvi, come per un principio di liberazione e rigenerazione, per disintossicarmi dai miasmi della vita di città.

Ad attenderci, dunque, non soltanto il tempo sospeso della provincia protetta da mura medievali, ma anche il tempo pieno del teatro, che per la prima volta abbiamo sperimentato venerdì. Tutto per merito di due folli chiamati Dimitri Chimenti e Andrea Montagnani, che prima hanno passato tre giorni a girare per Roma dietro a questi quattro ceffi rabberciati che siamo noi; che poi hanno fatto le ore piccole per due settimane a montare quelle immagini; e che infine si sono rinchiusi nel Teatro dei Varii, dove li abbiamo trovati al nostro arrivo, per concludere la regia di questa incredibile video performance. Che adesso tocca lavorare per esportarla in giro, perché lo spettacolo funziona, anche se nato in condizioni d’emergenza, o forse soprattutto per quello, perché c’era e c’è l’urgenza di farlo.

Simone Ghelli