Un default imperfetto

di Andrea Frau

Un utente Facebook ricarica ossessivamente la pagina, attende invano un segno, un poke di Dio.
Non esiste nulla. Può continuare a far coltivare il suo orto di Farmville a qualche utente marocchino. Rinuncia a caricare la nuova applicazione “coscienza”.
È stanco. Esce dalla sua stanza fatta di notebook, facebook, e film in streaming.
Dopo circa un’ora, la realtà, le macchine e la gente nei bar si bloccano.
Un F16 italiano in partenza per la Libia scrive nel cielo a caratteri cubitali: «Hai raggiunto il limite di 72 minuti fuori dalla tua stanza».
È scattato il coprifuoco.

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Clandestina

Quella che segue è l’introduzione a “Clandestina” (Effequ, 2010), un’antologia curata da Federico Di Vita ed Enrico Piscitelli, che raccoglie «uno spaccato della produzione letteraria proposta dai migliori blog collettivi e riviste on-line del nostro Paese».

 

Un giorno al Giglio ho conosciuto un vecchio che al Porto non c’è andato mai. Vive in cima al Castello e per andare al mare è sceso sempre dalla parte di Campese. E non c’è andato neppure troppe volte al mare, per uno che ha spaccato pietre tutte isolane. Il vecchio non si è allontanato mai dal Giglio. Al Castello c’è una comunità che gioca a mattonella, prepara il panficato e ha nomi senesi: Aldi, Pini e Landini. Sono i figli di quelli che hanno piantato a vigna le greppe dopo la razzia del ’500, che le aveva lasciate abbandonate. Contadini, figli di contadini. Alla fine del ’700 altri pirati attraccavano a Campese, risalivano la collina pronti a mettere a ferro e a fuoco un’altra volta l’isola (non che nel frattempo non si fossero più visti), ma la nuova aggressione fu respinta, e i corsari decimati non tornarono più. Da quel giorno al Porto nacque una comunità, pescatori che seguivano le rotte del pesce azzurro, da nord o da sud, genovesi e campani. Parlavano dialetti diversi, avevano altre abitudini. Vivono lì da due secoli. Il vecchio, che avrà più di cento anni e che non è uscito mai dall’isola, ha fatto il possibile per non incontrarli mai.

Una volta a Londra c’era un’importante partita di pallone. Era un quarto di finale di Coppa dei Campioni e l’allenatore della squadra di casa era squalificato. I giocatori del Chelsea Football Club una partita così non l’avevano giocata mai, e l’allenatore, che era Mourinho, per non lasciarli soli, invece di starsene in tribuna si infilò nel cesto dei panni sporchi nello spogliatoio. Ci rimase tutta la partita e i giocatori lo trovarono lì nell’intervallo. Durante l’incontro comunicò con la panchina via sms e per spiegare le tattiche fece arrivare ai giocatori dei pizzini. Il Chelsea vinse 4-2.

Un’altro giorno ancora un ragazzo scappava scavando a bracciate le acque del Tigri. Si chiamava Abd-ar-Rahman e non era un giovane come gli altri, era un principe. Le frecce avvelenate fischiavano senza centrarlo, scappava da Damasco. La sua stirpe veniva sterminata. E mentre si apprestava alla sua vita da fuggiasco ancora non poteva immaginare che dopo aver corso come un keniota lungo tutto il Maghreb sarebbe giunto in Spagna, in Andalusia, e lì, da esiliato e migrante sarebbe tornato principe, e avrebbe fatto di Cordoba la capitale del regno più splendente al mondo.

Un’altra storia l’ho letta in un libro. Ad Hanoi c’è la statua di un soldato in ginocchio, “con le mani alzate e gli occhi impauriti”. Il pirata dell’aria era sui cieli del Vietnam quando il suo aereo veniva colpito e lui dovette premere il tasto di espulsione. L’esplosione che lo catapultò in aria – è una piccola carica di dinamite a farti saltare fuori da un caccia in picchiata – gli ruppe tutte e due le gambe e un braccio. Dopo di che fu catturato dai nemici, da quelli che lui considerava nemici, insomma dagli altri. Per la precisione cadde in un laghetto nel centro di Hanoi, dove “i piloti di cacciabombardieri erano particolarmente odiati, per ovvie ragioni”. I vietnamiti, i civili, nuotavano nel lago per andarlo a massacrare. Un soldato nemico lo trafisse all’inguine con una baionetta. Un altro gli spaccò una spalla. Poi fu tenuto in cella per alcune settimane, dopo le quali un medico gli ricompose un paio di fratture senza nessuna anestesia. Non tutte, un paio. Il soldato, che ormai è un vecchio, ancora oggi non riesce ad alzare le braccia sopra la testa. Il suo peso scese a 45 chili, gli altri prigionieri erano certi che sarebbe morto. Delirava, per il dolore. Un giorno, mesi dopo, quando il prigioniero riusciva appena a stare in piedi, venne portato nell’ufficio del comandante nemico. Quello gli disse che era libero, poteva andarsene. Saltò fuori che suo padre – il padre del soldato – era diventato il capo delle forze navali americane, e l’idea dei vietnamiti era liberare il figlio, in quello che potremmo definire uno slancio di Realpolitik. Il soldato rifiutò. “A quanto pare il Codice di condotta per i prigionieri di guerra diceva che i prigionieri andavano liberati nell’ordine in cui erano stati catturati”. Il nostro uomo rifiuta di violare il codice. Il comandante non gradisce e gli fa rompere lì, nel suo ufficio, le costole, e gli fa ingoiare i denti. Quindi ripete il suo invito. Il soldato rifiuta ancora, o con gli altri o niente. L’uomo, che rimase altri quattro anni in una stanza grande come il vano di un camino, è l’ex candidato alla Casa Bianca John McCain.

Altre storie finiscono in relitti di gommoni in fondo all’Adriatico o nei centri di espulsione di Lampedusa o di Ponte Galeria. Alcune galleggiano negli sguardi concentrici di una pittrice in manicomio, o in quelli di terroristi, che non sanno ciò che fanno; o di migranti, che non hanno scelta. Di queste storie comincia a essere fatto ciò che resta di questo Paese, le cui risorse e le cui pulsioni migliori cominciano a essere relegate allo stato di clandestinità. La speranza è che trovino spazio. La differenza, tra le quattro raccontate qui sopra e quelle che cominceranno una volta girata la pagina, è che le storie che state per cominciare sono più vive, più belle.

Federico Di Vita

Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro

SERVI. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro (Feltrinelli, 2009)

di Marco Rovelli

Poi mi accompagni alla macchina e mi dici: “Mi piacerebbe sapere meglio l’italiano, sai la lingua è un problema, non capisci mai fino in fondo, e nelle cose il gusto è in fondo”, e già è il primo regalo che mi porto dietro nel viaggio, e poi mi lasci dicendo: “In patria ormai sono straniero, quando torno al paese non mi piace più andare a rubare la frutta sugli alberi”, e questa immagine perfetta del tuo sradicamento la porto con me, in questo viaggio, che mi fa fare un passo sotto, nel paese sommerso. (p. 106)

Vi ricordate degli “italiani brava gente”? Quelli che hanno permesso il boom economico del dopoguerra e che sono conosciuti in tutto il mondo per il loro estro e la loro fantasia? Quegli stessi che sono emigrati in massa a cercar lavoro, in America o nel resto d’Europa, e che in materia di discriminazioni dovrebbero saperla lunga?

Forse no, perché il popolo italiano pare avere la memoria corta, o forse fa finta di non averla affatto, grazie a quella stessa capacità istrionica di saper ribaltare la realtà dei fatti che lo contraddistingue da sempre. Anni e anni di trucchi e sberleffi ci hanno ormai abituati a identificare ciò che conviene con la realtà dei fatti, che poi è un altro modo per dire che chiudiamo volentieri gli occhi dinanzi a ciò che non ci piace vedere. Anzi, per non dover neanche sostenere lo sforzo di abbassare le palpebre, ciò che è sconveniente lo rendiamo direttamente invisibile, relegandolo in uno spazio cieco, per poi illuminarlo solo quando ci torna utile.

È quanto più o meno succede da anni nei confronti dei clandestini, ché riconoscere una massa di nuovi servi nel paese del Rinascimento sarebbe poco meno che bestemmiare, o giù di lì.

Marco Rovelli, in quello che la quarta di copertina definisce un “reportage narrativo”, gli occhi non li chiude, anzi, ci restituisce con la sua scrittura il viaggio allucinante nel mondo della clandestinità made in Italy, di cui la legge (e quindi lo Stato) è diretta produttrice. L’autore fa quest’opera di scavo – nella lingua, nella vita – necessaria a gettare una luce sui vasti coni d’ombra di un’economia italiana fatta ancora di braccianti e di subappalti che moltiplicano i cantieri di lavoro nero.

Come non capire, leggendo le storie qui riportate, a chi convenga mantenere gli immigrati in situazioni d’irregolarità per sfruttarli a condizioni lavorative inumane? Forse molti di noi già lo sanno, o intuiscono come vanno certe cose, ma conviene far finta di non saperlo. Conviene a noi italiani, soprattutto. E allora è necessario un libro – ebbene sì, anche loro, a volte, sono ancora necessari – per andarci a sbattere contro queste verità: un libro che restituisca la parola e un volto, o dei gesti, a chi solitamente non ne ha.

Rovelli riesce magistralmente in questo lavoro, assieme geografico e geologico, che è sì un reportage (la geografia di un’Italia sconosciuta), ma al tempo stesso anche un romanzo in cui la voce narrante è il prodotto dell’incontro tra l’autore e i propri temporanei compagni di viaggio. Un libro, soprattutto, in cui ci si rivolge in seconda persona nei confronti di chi non viene mai interpellato, di chi spesso non ha neanche un nome. Difatti, in più d’una di queste storie si riscontra questo stupore dell’altro – il clandestino – davanti alla disponibilità all’ascolto . Non si tratta di compassione, bensì di rispetto, quello a cui dovrebbe avere diritto ogni essere umano, ma che sembra roba da marziani in un paese che non conosce più il rispetto neanche per se stesso; in un paese che perde volentieri la memoria, come ci ricorda Maloud, che non si capacita di come gl’italiani non si rivedano nella situazione che investe oggi i nuovi emigrati, bloccati in questa terra di nessuno e stranieri in ogni luogo. Prigionieri in Italia, dove non gli vengono riconosciuti i propri diritti; prigionieri nel proprio paese, dove non possono rientrare sia per motivi politici (possibili ritorsioni o persecuzioni), sia a causa di una legge kafkiana che li mette in condizioni di irregolarità perenne. E lo dice uno come Maloud, che è fortunato, perché per via della pelle chiara, il capello biondastro e gli occhi chiari non lo prendono per maghrebino. Eppure anche per lui l’integrazione resta un sogno, perché quando gira con i suoi amici marocchini vede la gente che c’ha paura, che si stringe la borsa al corpo. E se lo dice uno come Maloud, che forse l’Italia non è quell’America che tutti si credono prima di partire, c’è da credergli, perché all’interno di questo libro la sua storia sembra la più normale, o forse è soltanto perché sono le altre ad essere allucinanti oltre ogni immaginazione. Proprio come in quest’Italia, dove la realtà sembra ogni giorno di più uno sceneggiato girato male, ma dove chi viene costretto a pagare, alla fine, paga davvero.

Simone Ghelli