La parte più calda

[Siamo lieti di riproporre ai nostri lettori il racconto La parte più calda, pubblicato su Los Ingrávidos, numero 12 della rivista Colla, dello scrittore spagnolo, classe ’85, Juan Soto Ivars e tradotto da Marco Gigliotti. Buona lettura.]

di Juan Soto Ivars

1.

Erano i giorni in cui il lavoro non ci aveva sfiorato. I giorni in cui conoscevamo intimamente l’estate e lei ci permetteva di passeggiarle sul dorso. Per noi la vita era andare su e giù per strade conosciute, portare a spasso la noia per le campagne che circondavano il paese e fantasticare sulle ragazze: creature incomprensibili e desiderate che ci ignoravano come se fossimo mendicanti molesti. Ricevevano in cambio le nostre risposte iraconde e ingegnose. Le nostre sassate cariche d’amore.
Il paese era piccolo ma le differenze tra gli abitanti erano molto marcate: c’eravamo noi e quelli che potevamo spaventare facilmente. Io vivevo con la mia famiglia in un complesso residenziale modesto vicino ai binari del treno. Innumerevoli giorni della mia infanzia ho aspettato, con altri come me, che passasse il treno merci carico di container di legno e cisterne di butano. A volte scommettevamo sul numero di container che avrebbe trasportato il treno. Ci giocavamo soldi o figurine dei calciatori. Altre ci divertivamo mettendo pietre enormi sulle rotaie. Pietre rotonde che esplodevano quando venivano schiacciate dalle ruote metalliche e che mettevamo lì con la speranza di far deragliare il treno. Immagino che volessimo far succedere qualcosa per spezzare la monotonia. Qualcosa che non ci è mai riuscito. Leggi il resto dell’articolo

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Let. In. 10

[Diventa anche tu uno scrittore inesistente su Scrittori precari: invia i tuoi Let. In., seguendo queste istruzioni, a carlo.sperduti84@gmail.com. I migliori saranno inseriti nelle prossime puntate della rubrica]

Let. In.
Antologia di Letteratura Inesistente a cura di Carlo Sperduti
(#1 – #2 – #3 – #4 – #5 – #6 – 7# – 8# – #9)

 

DEL CIBO

Il biscotto dimezzato
di Italo Colvino

Due fratelli gemelli si contendono l’ultimo Plasmon della confezione da 750gm. Dramma psicologico dalle tinte forti per l’ultimo capolavoro di Italo Colvino.

Angelo Zabaglio a.k.a. Andrea Coffami

Il dessert dei tartari
(Ed. L’Assaggiatore)

Ricettario basato sulla gastronomia militare. In questo testo sono documentate le ricette in uso presso le guarnigioni di frontiera che, durante i lunghi e tediosi turni di vigilanza, sperimentavano piatti che univano ricette tradizionali ed elementi delle varie cucine locali. Per i primi piatti è possibile trovare ricette interessantissime, come “spaghetti alle mongole”, come il “cous cous della val brembana” o come gli “gnocchetti al ragù di gnu”.
Per i secondi gli autori consigliano ricette come “Stinco di zebra al nero di seppia” o come il “brasato di ornitorinco alla birra” o Leggi il resto dell’articolo

Mekmetal Spa

La rubrica Interlinea ƒ64 nasce dalla collaborazione tra La Rotta per Itaca e Scrittori precari: una volta al mese, uno scrittore, leggendo tra le righe di una fotografia, ci ha raccontato una storia in profondità di campo.

Quello che segue è il quarto e (per adesso) ultimo racconto in vista della pausa estiva.

di Nadia Turrin da una foto di Andrea Pozzato

I muri esterni della Mekmetal Spa sono gli stessi da decenni. Scrostati, incolori, con crepe profonde attorno alle finestrelle, e le centraline della corrente elettrica circondate da inquietanti cavi scoperti e tubi marci di umidità.

«Perché cazzo il sig. Weiner non mette a posto quei cavi, con tutti i soldi che ha?» si chiedono da anni in molti, passando davanti a quei muri.

E da anni c’è sempre qualcuno che replica : «È da tanto che il sig. Weiner vuole rifare tutto, ma poverino, ne ha sempre una. Prima ha dovuto investire nello stabilimento in Romania, che se no non ce l’avrebbe più fatta coi costi di produzione di Bolzano. Poi sono arrivati i cinesi a fare concorrenza. Adesso c’è la CRISI. Poverino!» In ogni caso, ad ogni tornata di licenziamento di massa qualche operaio si è suicidato, mentre il sig. Weiner è sempre vivo. Sarà. Leggi il resto dell’articolo

Era di maggio

La rubrica Interlinea ƒ64 nasce dalla collaborazione tra La Rotta per Itaca e Scrittori precari: una volta al mese, uno scrittore, leggendo tra le righe di una fotografia, ci racconterà una storia in profondità di campo.

Quello che segue è il terzo racconto.

di Leonardo Battisti da una foto di Andrea Pozzato

 

Ci sono dei giorni a maggio in cui il sole prova a far la voce grossa fra le nuvole bianche; lo si può vedere scagliare violento i suoi raggi nella coltre di vapore come quel tale che, in una piazza affollata, si sbraccia e dimena per richiamare l’attenzione di qualche conoscente visto per caso in lontananza, ma senza ottenere il risultato sperato. E allora tutt’attorno si diffonde una luce chiarissima ma spenta e l’aria diventa tiepida e statica, tutto sommato innocua come una bugia non ancora svelata. Leggi il resto dell’articolo

9 Aprile, Stati Generali della Precarietà, Sciopero Generale. Prendiamo parola.

Abbiamo di fronte a noi un mese che ha tutte le potenzialità per essere qualcosa di lontano dagli stanchi rituali della mobilitazione che da anni hanno perso la capacità di incidere sulle contraddizioni della realtà politica e sociale italiana. Le date che si inanellano dal 9 aprile al 6 maggio possono diventare l’occasione per mettere a punto una “direzione culturale comune” attraverso cui interpretare le condizioni di vita e di lavoro in Italia e pensarne quindi la successiva trasformazione. Ma non solo. Dovremmo far nostra l’ambizione di libertà che si respira nel Mediterraneo, ritrovando la forza di credere che la Storia non la fanno solo gli eserciti e i capi di Stato. La contingenza storica che stiamo attraversando ci invita a sollevarci dal soporifero letto di piaceri immaginari che narcotizza le nostre vite, farla finita con la raccolta di testimonianze, e piuttosto scegliere la parte di chi lascia solo testimoni attorno a sé; invece di emozionarci esclusivamente per le piccole storie, non potremmo riscoprire la passione inattuale per la Storia?

La mobilitazione nazionale del 9 aprile, “Il nostro tempo è adesso”, gli Stati Generali della Precarietà, il 1 maggio e la May Day, hanno in comune la volontà di ordinarsi, per necessità, nel paradigma della “condizione precaria”. Leggi il resto dell’articolo

In perfetto orario

In perfetto orario (Robin, 2009)

di Luca Rinarelli

Una ragazza su un treno, un uomo con una missione, entrambi stranieri in una Torino umida, notturna, scarna. Così inizia questa piccola opera di Luca Rinarelli, già autore di volumi dedicati alla fotografia ed esordiente nel noir.

Pur mantenendo alcune delle caratteristiche formali del genere, In perfetto orario si configura come un romanzo della disperazione. Non vi è un solo personaggio che animi questa storia che non sia l’immagine della miseria, vittima di catastrofi legate nei modi più svariati al tema del lavoro, dal padre che perde la figlia bambina, alla ragazza russa scivolata nell’abuso, alla giovane votata al precariato economico ed esistenziale. Tutti aspirano a una forma di redenzione, e l’omicidio sembrerebbe il mezzo per la realizzazione di un riscatto sociale, senonché l’impossibilità del riscatto lo trasforma in atto di pura rivalsa sull’umano. Per fare un noir servirebbe la suspense, qualcosa che mantenga appesi al finale. Qui si rimane invece incollati all’ambientazione e a un vuoto post-industriale, in cui il killer non corrisponde al personaggio tipico se non per alcuni tratti derivati dalla lunga e nobile tradizione del genere. In realtà, anche lui tenta il suo riscatto, come gli immigrati afflitti da una vita senza radici né appartenenza, persi nella Torino reduce da una crisi industriale senza precedenti. Immigrati che giungono da varie parti di Europa per rimanere in questo luogo inospitale attratti da null’altro se non la pura sopravvivenza. Accanto a loro, giovani italiani le cui storie si intersecano con quelle degli immigrati in rotte casuali o determinate dalla necessità. Poco differenzia la ventenne torinese che stringe una relazione con Werner dalla prostituta russa sottratta a forza dal paese natale sul Volga e trasferita in una città a lei aliena. Solitudine, disgregazione, povertà, precariato estremo costituiscono i comuni denominatori delle vite che popolano questo piccolo romanzo anticapitalista. La lingua breve ricalca le strutture metalliche della periferia industriale e le pareti spoglie delle associazioni di supporto ai senza fissa dimora, scenari del romanzo insieme a piazze notturne vuote eccetto per bar affollati, luoghi di incontri causali, in una poetica dell’anonimato in cui a stento prendono vita dialoghi scarni, al netto di qualsiasi eccedenza di umano, fra i cristi spogli che Rinarelli ritrae trafitti dalla vita. Priva di elementi consolatori, questa piccola opera è una forte denuncia di una condizione umana intollerabile, e un auspicabile fire-starter di una narrativa dell’esclusione sociale di cui da tempo si avverte la mancanza.

Il finale è accattivante, anche se la raccomandazione è di non soffermarsi unicamente sull’intreccio e lasciarsi piuttosto sprofondare nell’atmosfera malinconica e notturna, veracemente padana, di un’Italia che non lascia più spazio all’ottimismo della volontà.

 

Claudia Boscolo

 

 

La camera oscura

Una stanza. Al buio. Su una parete un foro, poco più grande d’un pollice, a un metro e mezzo da terra, suppergiù.

Due uomini si svegliano, indolenziti per la posa scomoda tenuta dormendo sul pavimento liscio e freddo.

La stanza si compone di quattro pareti nude, un pavimento come unica gettata di cemento e un soffitto alto, invisibile all’occhio umano. Oltre al foro. E l’oscurità.

È profonda, la prima voce che echeggia nella stanza. Decisa.

Senti un po’, ma quell’idea che hai esposto al consiglio comunale, l’ultimo, due mesi fa se non sbaglio, l’hai poi realizzata?

Quale dici?

Be’ non si va molto lontano. Hai già eliminato l’assessorato alla cultura. Hai tagliato i fondi fino ad azzerarli, l’ultimo festival patrocinato dal comune te lo ricordi? Quello con gli artisti per strada…

Si chiamano Buskers.

Proprio loro. Già quasi a costo zero, se escludiamo i contributi dei negozianti.

Il comune promuoverà alcuni corsi e attività fisiche, ginnastica, nuoto, cose così, già dal prossimo anno se non ci sono nuovi intoppi.

Sì, certo, certo, ma fammi finire. Dov’ero rimasto? Ah sì. Nessun assessore, nessuna iniziativa, zero fondi. Mi ricordo che dicesti, in quel famoso consiglio, che restava un ultimo passo. L’hai poi fatto?

Perché non avrei dovuto? Era in programma, andava realizzato prima possibile. I cittadini devono abituarsi a considerare il superfluo. E devono toccare con mano l’impegno politico contro gli sprechi.

Sì, certo, certo, conosco la campagna elettorale.

Allora cosa vuoi sapere?

Come hai fatto.

Direi nel modo più semplice, con una tassa sui libri in prestito.

Ma la biblioteca è ancora pubblica?

Certo. È un servizio fornito ai cittadini.

A pagamento.

Appunto. Come ti dicevo prima, si tratta di mostrare risultati contro gli sprechi.

Per ogni tipo di libro, c’è una tassa sul prestito? Da quelli per ragazzi ai testi universitari? Favole e romanzi? Poesie e poemi? Saggi e trattati? Fumetti e atlanti?

Tutto ciò che è superfluo si paga, caro amico. Questa è la crisi. Chi se lo può permettere, legge. Diversamente, si fa dell’altro. Non è difficile.

Hai ragione. Non è difficile.

Si zittiscono.

Restano così diverse ore.

Immobili. Al buio.

Uno dei due uomini, quello più basso dalla voce profonda, infila il dito dentro il buco nel muro. L’altro se ne accorge appena, chiude gli occhi e risponde rimanendo seduto a terra, braccia incrociate al petto.

E dei tagli all’Università che mi dici?

Niente. Andava fatto. Gli sprechi sono sprechi anche tra le menti più illustri.

Certo. Ma lo sono ovunque allo stesso modo, secondo te?

Non è questo il punto. Si tratta di semplificare e agire in fretta. La crisi c’è, la gente la sente, la politica non può esimersi dall’intervenire. I servizi essenziali devono essere garantiti sempre e comunque. Sanità, assistenza, scuola, sicurezza…

Fermati un attimo: scuola non è anche università?

Ovviamente. L’università però è un tipo di formazione volontaria. E come tale deve essere trattata. Se ti puoi permettere di laurearti, paghi e lo fai. Altrimenti no. Poi, anche all’interno degli atenei in parte sovvenzionati dalle tasse, in parte dai diretti interventi pubblici, si devono evitare abusi e sprechi.

Ad esempio?

Troppo personale. Troppi ricercatori, assistenti, precari che gravano sull’istituzione. Troppe spese da sostenere.

Ma agli studenti che insegna? Poi, come si insegna?

Non è questo il punto. Si tratta di abbattere gli sprechi e riconsiderare il superfluo, te l’ho già detto. Ti accorgi che mi fai ripetere sempre le stesse cose?

L’uomo più basso inspira ed espira rumorosamente. Si muove per la stanza nascondendo direzioni e gesti tra il buio persistente. Appena i rumori, lo tradiscono. I piedi a sfregare sul cemento. Quando riprende a parlare ha infilato di nuovo un dito nel muro, tra le rotondità del foro.

La cultura è superflua?

Non l’ho deciso io. Si tagliano i fondi, si ordinano riduzioni, eliminazioni, rinunce. Noi eseguiamo.

Ma le attività sportive semi private…

Che c’entra? Son cose per il corpo. Crisi o non crisi la gente ancora respira.

E gli stipendi dei politici? Gli appalti per edifici poi inutilizzati? Le sostituzioni di piazze e vie con ciottolati costosi…

Non confondere i piani emotivi con quelli prioritari. Ci sono delle gerarchie da rispettare, è semplice te l’ho detto. Prevede questo tagliare il superfluo. Poi senti, ci sono un sacco di giovani o meno giovani che si parcheggiano fuori corso e perdono anni di lavoro stando comodamente sulle spalle di chi provvede a loro. Poi magari neanche si laureano. E c’è un sacco di gente che di festival, rappresentazioni teatrali ed eventi culturali non sa niente, e sapendolo non andrebbe comunque. Per non parlare delle biblioteche, dai.

Sì, certo, certo. Magari anche sì però. A me sembra la solita generalizzazione di comodo. Tua figlia poi che fa?

Ha appena iniziato lettere moderne a Bologna.

E?

Niente, le solite cose. Tasse, libri, abbonamenti ai mezzi pubblici, mense. Fra cinque anni al massimo sarà tutto finito.

In sostanza investi sul suo futuro.

Ovviamente. Vedi quant’è democratico? Pagherò anche i libri in prestito, se mia figlia andrà in biblioteca. Nessuno spreco. E il superfluo a chi può.

Dal buco nel muro, che nel frattempo si è liberato del dito dell’uomo basso, entra una luce vagamente più chiara, filamenti a spezzare l’oscurità.

I filamenti raggiungono la parete opposta. Si fanno consistenti. La stanza assume contorni precisi. I due uomini si sbirciano, immediatamente consapevoli di corpi e proporzioni, sebbene ancora sfocati.

L’uomo rimasto seduto si alza in fretta, quasi trafelato.

Si avvicina al muro raggiunto dal pulviscolo luminoso passato attraverso il buco.

Non si capisce, cosa c’è scritto. Sembrano capovolte, le lettere.

Lo potrai chiedere a tua figlia, fra qualche anno.

E perché, scusa?

Io non lo so, tu nemmeno.

L’uomo rimasto seduto avvicina il naso al muro, alcune schegge di luce gli invadono la punta dell’orecchio, creano scintille passando attraverso le ciocche di riccioli color nocciola.

Non è una scritta. Forse è un’immagine.

Sarà il mondo fuori di qui.

Anche per quello dovremo aspettare.

La fine del Medio Evo?

Come dici?

L’uomo più basso ride sempre più forte. Duramente.

Niente. Continua a fissarlo. Forse c’è un’eclissi.

Perché dovrebbe?

Aristotele ci guardò un’eclissi. Iniziò così, in un certo senso. Dentro una camera oscura.

L’uomo rimasto seduto aspetta alcuni secondi. Rinuncia a un paio di risposte risalite dall’esofago direttamente in gola, poi finite erose da saliva e succhi gastrici. Probabilmente rispondere non serve, pensa. Basta aspettare dopo aver agito. Gli uomini parlano in continuazione, ragiona tra sé. Parlano, teorizzano, schiamazzano, criticano. Poi? Solo i fatti lasciano tracce. L’uomo rimasto seduto non ha dubbi, sa esattamente cos’è stato fatto e cosa ancora c’è da fare (in Italia, entro il primo decennio del nuovo secolo: è un sottinteso che lo sfiora appena, è di questo che si occupa l’uomo rimasto seduto).

Il passato non c’entra. È del presente che si occupano i vivi, conclude l’uomo rimasto seduto, ma non accenna a voler staccare gli occhi dal fascio di luce proiettato sul muro. In quello sfilacciamento dell’aria ci infila un dito. Tocca la parete. L’immagine gli lambisce la pelle. Ha un suo fascino, nota. Gli sembra di poterci entrare, di riuscire – anche nell’inversione – a vedere.

Da dentro la camera oscura.

Il buio tenuto fuori.

Fa meno paura?

Anche l’uomo più basso si avvicina al muro parzialmente illuminato.

Il fascio di luce respira. Si nutre dell’aria nera.

Le mani dell’uomo più basso si aprono, si fanno largo tra l’aria nera e le briciole luminose riunite nel fascio.

Non è difficile, ha detto l’uomo rimasto seduto, riconsiderare il superfluo. L’uomo più basso ricorda le parole sentite. Ha un moto di stizza che trattiene in corpo. Lo spazio sembra rimpicciolirsi attorno a lui.

Le mani carezzano l’aria, che non ha colore, in realtà.

È solo chiusa, respira a fatica, rantola.

Mentre le dita nodose si distendono, seguendone l’immobilità.

 

Dal 2009 in diversi comuni dell’Emilia Romagna con la rielezione del sindaco la figura dell’assessore alla cultura non è stata definita. In alcuni casi si è ripiegato facendo leva su ruoli assimilabili non ufficiali. Contestualmente, già dai primi mesi del 2010 i drastici tagli progressivi hanno imposto limitazioni evidenti alle feste paesane, le iniziative locali di tipo artistico in senso ampio, dalle semplici presentazioni letterarie fino alle rassegne cinematografiche e le sperimentazioni teatrali. Perfino i comuni dell’hinterland bolognese, rinomati per l’invettiva e le diverse iniziative culturali, sono stati costretti ad abbandonare festival, promozioni artistiche, scambi interculturali ed eventi vari laddove non sono intervenute decise sponsorizzazioni private. L’idea di fissare una tassa o dinamica affine sul prestito dei libri nelle biblioteche pubbliche non è finzione narrativa, bensì proposta che tutt’ora aleggia in talune amministrazioni comunali emiliane. Alcuni paesi compresi nel triangolo Modena-Bologna-Ferrara hanno già annunciato per il 2011 la non partecipazioni ad eventi provinciali consolidati come mostre, rassegne e concerti.

Ottobre 2010, mese statisticamente favorevole all’Alma Mater Studiorum del capoluogo emiliano – romagnolo (la hit parade delle migliori università colloca l’Ateneo di Bologna come la prima facoltà italiana al 174° posto, e nella QS World University Rankings 2010 le discipline umanistiche bolognesi si posizionano al 46° posto), è anche periodo complesso dove prosegue in tutt’Italia la c.d. ‘protesta dei ricercatori’.

Barbara Gozzi

Il trasloco

E adesso?, mi chiede, dove vai, cosa pensi di fare, adesso?

Io gli sto seduto di fronte e ascolto la sua voce profonda. Mi è sempre piaciuta anche da bambino la voce di mio padre. Una volta, mi ricordo, una volta era in camera mia la sera, che mi leggeva una storia per farmi dormire. Mi leggeva una storia, che raccontava di un ragazzino con i capelli ramati, che era arrivato sulla terra per scoprire come vivono gli umani, e poi si affezionava ad una ragazzina e decideva di vivere qui, e faceva alleare il mondo nostro con il mondo suo, e vissero tutti felici e contenti. Mi ricordo che stavo a letto e lo ascoltavo, e mentre lo ascoltavo sentivo la testa che mi vibrava sotto i bassi della sua voce, e mi piaceva e l’avrei ascoltato per ore. Adesso, invece, non lo guardo nemmeno negli occhi. Anche la sua voce mi sembra diversa. Non ha più quel modo fermo che ricordavo. Sembra come che quella tonalità bassa, nasconda qualcosa che non va: insicurezza, domande. Allora io non lo guardo e sto seduto, e mi scortico le dita con la bocca, mentre tengo gli occhi fissi sulle scarpe di mia madre che sta in piedi davanti alla finestra e non dice una parola.

Il giorno che vinsi la borsa di dottorato ero a casa della mia ragazza, di Marta, e fu proprio lei a dirmelo. Io ero in cucina che facevo il caffè, quando la sentii urlare come una pazza e ridere in maniera isterica.

Sarà uscito un nuovo video degli Eels, pensai, conoscendo il suo innamoramento per Mark Oliver Everett, invece mi sbagliavo.

Mi accorsi che mi sbagliavo, quando la vidi arrivare in cucina saltellando con il portatile in mano. Quando lasciò il portatile con la pagina dell’università aperta, e quando mi mise le braccia al collo e mi diede un lungo bacio a stampo sulle labbra.

Marco, adesso che pensi di fare, Marco?, mi dice mio padre, adesso che torni a casa, che pensi di fare?

Io continuo a fissare le scarpe verdi di mia madre, e guardo i suoi passi attorno per la stanza. Sul tavolo, le tazzine sporche di caffè hanno lo zucchero indurito dentro. Penso che le lascerò nel lavandino senza lavarle, tanto, mi dico, tanto poi chissenefrega. Mio padre continua a chiedermi cose sul mio futuro a cui non so rispondere. Forse potrei dirgli che cercherò un posto da commesso nel nuovo centro commerciale vicino a casa, magari nel Trony, dove gli può interessare la mia laurea e il mio mezzo dottorato in ingegneria informatica. Magari potrei dirgli anche che poi, se mi faranno un contratto che duri più di due mesi, cercherò casa da solo e andrò a vivere con Marta, ma non riesco a dirglielo. Non riesco a dirglielo, perché, come mi aveva detto una sera un mio amico che studiava psicologia, quando dici una cosa è come renderla vera, è come se la facessi materializzare, e allora se rispondessi a mio padre, sarebbe come farmi crollare il mondo addosso.

Il giorno che venne revocata la mia borsa di studio, per ragioni di ordine economico e nonostante apprezziamo il lavoro da Lei svolto in questi due anni, così recitava la lettera di comunicazione, il giorno che venne revocata la borsa di studio con cui venivo pagato, andai subito nell’ufficio del preside di facoltà, che mi accolse preparato. La segretaria mi fece entrare senza attese e lui era seduto dietro la scrivania e mi disse accomodati, facendo il segno con la mano. Mi disse anche che, prima di lasciarmi parlare, aveva bisogno di dirmi che era estremamente dispiaciuto per ciò che era accaduto e che non avrebbe mai voluto una simile situazione. Aggiunse che purtroppo è un periodo di crisi e che tutti avremmo dovuto fare dei grossi sacrifici, tirare la cinghia, disse, ma che purtroppo erano cose che non dipendevano da lui. Forse, aggiunse ancora, forse ha proprio ragione il mio amico Pierluigi Celli, con cui eravamo a scuola assieme alle superiori, a dire che i giovani devono andare all’estero. Io lo lasciai parlare e, lì per lì, gli risposi che capivo, che era ovvio che non fosse colpa sua, ci mancherebbe, gli dissi, era solo che… poi non finii la frase, mi alzai, gli strinsi la mano e mi girai verso la porta. Nei cinque metri di tragitto verso l’uscita, pensai che quelle che aveva detto erano tutte cazzate, che lui aveva un potere decisionale e che, in fin dei conti, questo stato di cose, questo stato di cose dove i genitori negano il futuro dei figli, l’aveva deciso lui, non io. Mentre abbassavo la maniglia, pensai anche che quel Celli era proprio stronzo, perché è troppo comoda avere una posizione di potere e poi dire al figlio, vattene dall’Italia. Troppo comoda non assumersi mai le proprie responsabilità, all’interno di una situazione dove si comanda. Troppo comoda lavarsi la coscienza così, cazzo, pensai, mentre chiudevo la porta dietro le mie spalle.

Per riportare tutta la mia roba a casa abbiamo affittato un furgone. Mia madre è seduta in mezzo, fra mio padre che guida, e me, che guardo fuori dal finestrino. Dopo aver chiuso la porta di casa, caricato le ultime due valigie e consegnate le chiavi alla portinaia, che mi ha salutato dicendomi che le spiaceva tantissimo che me ne andassi, non ho più parlato. Dopo aver sorriso alla portinaia, non ho più detto una parola.

Una volta in autostrada, ho acceso la radio, che rompesse la monotonia del solo rumore del motore che si sentiva in macchina. Il dj parla delle settimane bianche prenotate per il mese di dicembre, per le vicine vacanze di Natale. A riguardo, intervista il direttore di un importante albergo di Cortina.

Devo dire che nonostante la crisi ci sono moltissime prenotazioni, dice con voce composta e accomodante, alla fine una settimana di lusso e svago non se la nega nessuno.

Mio padre continua a fissare la strada, come ipnotizzato. Scuote solo leggermente la testa, poi mi lancia un veloce sguardo e abbozza sulle labbra un sorriso amaro.

Alessandro Busi