Petrosino intervista Catalano
settembre 20, 2010 6 commenti
[Intervista di Alfonso Maria Petrosino a Guido Catalano uscita sul blog criticaletteraria.blogspot.com]
Alfonso Maria Petrosino: Dicono di te che fai cabaret e non poesia: dove inizia una e dove finisce l’altro?
Guido Catalano: Penso che le due cose si confondano. Le mie poesie, non tutte, ma molte, fanno ridere le persone. Ho lavorato in ambito cabarettistico, solo che le mie cose nel mondo zeligghiano non funzionano. Bisogna essere brevi e pensare all’uomo in canottiera con il telecomando in mano. Anche nei live. Io sono lungo. E poi ci vuole il tormentone. E io non ce l’ho. Oggi il cabaret è Zelig. E io non ci sto dentro.
Una cosa che mi disturba è quando i sedicenti poeti mi danno del cabarettista con l’intento di offendermi. Essi non sanno che fare cabaret è una delle cose più difficili al mondo. Ci vogliono le palle di ghisa. O di cemento armato.
AMP: Nella poesia bum bum bum cerchi l’unità di misura dell’amore. Ne hai trovata una per la poesia?
GC: Non credo. Le cose che scrivo sono in continuo mutamento. Se leggo le mie prime cose e le ultime mi rendo conto di questo mutamento. E ne sono contento. Ma forse non ho capito la domanda.
AMP: Sei in costante tour, tra presentazioni, poetry slam e Il grande fresco (“il varietà poetico-musicale più lungo del mondo”). Se non sei in giro sei sul palco, se non sei sul palco aggiorni il blog, se non aggiorni il blog sei in giro e così via. E poi ci sono le partecipazioni alle trasmissioni televisive (Zelig, Barbareschi Schiok): qual è il luogo ideale per la tua poesia?
GC: Mi piace avere delle persone davanti che ascoltino le mie poesie lette ad alta voce da me. Dunque il luogo ideale è il luogo dove delle persone possano stare comodamente sedute ed io davanti a loro, leggere e raccontare.
La televisione fa paura ma è un’esperienza di rara potenza.
La mia speranza è che le mie poesie vivano di vita propria a prescindere dal fatto che io le declami. È come avere dei piccoli figli che poi devono essere autonomi. Non è detto che succeda sempre.
AMP: Tra i tuoi primi tre libri, Motosega, Sono un poeta, cara e I cani hanno sempre ragione, e l’ultimo, La donna che si baciava con i lupi, che differenze ci sono? Sei cresciuto migliorato deteriorato interiorizzato?
GC: Come spiegavo nella domanda numero 2, le poesie mie sono cambiate a manetta. nei “Cani” erano brevi e tristissime. Io ai tempi ero tristissimo. Dunque c’è una coerenza. Poi si sono allungate. Poi si sono riaccorciate un po’. Poi si sono riallungate di brutto. Alcune sono diventate dei racconti. Solo che io dopo dieci anni non sono più in grado di non andare a capo. Anche adesso, mentre ti sto rispondendo per iscritto faccio una fatica boia a non andare a capo.
Negli anni ho cambiato molto e sono molto cambiato. Anche la tecnica di scrittura e i tempi. Una volta scrivevo di getto. Oggi impiego anche tre o quattro giorni a scrivere una poesia. La rivedo e ri-rivedo e la ri-ri-rivedo ancora. Una volta zac!
Oggi sono molto più di buon umore. Sto più attento al suono. Sto molto più attento perché so che la poesia che sto scrivendo la leggerò in pubblico. Deve suonare bene.
Non so se son migliorato, sinceramente.
Spero di sì sennò son cazzi.
AMP: Quali sono i tuoi modelli? In una poesia dichiari propositi di sodomia su Montale. Con chi altri fai all’amore?
GC: Ero giovane e inesperto. Erano i tempi dei cani che hanno sempre ragione e mi piaceva l’idea di sodomizzare Montale. Oggi so che Montale, con tutto che non amo la sua poesia, se fosse ancora vivo, mi si inculerebbe lui con le mani dietro e su un piede solo.
Detto questo, avrei piacere di avere una relazione intima con Jacques Prevert. Proprio baciarci con la lingua. Ma è morto.
Amo Woody Allen, Benito Jacovitti e il poeta credo argentino Martin Santiago, morto nella grande mareggiata di Sicilia mentre pescava con le bombe a mano.
AMP: Che rapporto c’è con la prosa di Maurizio Milani (nel tuo ultimo libro c’è un personaggio specializzato in resurrezione di cani, lui invece i cani di solito li pesa)? Altro punti in comune sono gli accrescitivi onomastici – il tuo Cocciantone, per esempio, e le apparizioni di personaggi reali come figuranti (penso a Sempre, che comincia “eravamo io / Ludovico Einaudi e Francesco Guccini” o Carogna contro scimmia vince carogna (“eravamo io, Noam Chomski e Gilles Deleuze”).
GC: Stimo il Milani. È uno della vecchia guardia. Quella del cabaret di Paolo Rossi, Cornacchione, Albanese e altri a scelta. Diverse persone, negli anni, mi hanno detto che ho qualcosa di milanesco. Soprattutto nel modo di esporre le cose. Non so, non sono mai stato un suo enorme fan. Però evidentemente, qualcosa c’è. Ma non voglio pensarci troppo che sennò mi viene l’ansia.
AMP: Dicci / dacci una tua poesia.
GC: Posso dirti che la prossima che sto scrivendo me l’ha ispirata il tuo amico Gaetano l’altra sera a Pavia.
Spesso mi capita questa cosa: sento una frase che mi piace intanto che chiacchiero con qualcuno e me la segno di nascosto e poi, se il giorno dopo mi piace ancora, la uso per una poesia. Tante poesie sono nate così. Soprattutto a livello di titoli.
Questa poesia che sto scrivendo parla di morte e del fatto che ho un idea chiara di dove voglio essere seppellito quando tirerò le cuoia, fra una novantina d’anni.
La Letteratura, il web e la compulsione a scrivere
novembre 5, 2009 di scrittoriprecari 11 commenti
LA LETTERATURA, IL WEB E LA COMPULSIONE A SCRIVERE
[Questo pezzo nasce a margine di un dibattito iniziato da un articolo di Gilda Policastro, intitolato Viaggio tra le gazzette dell’era di internet, e proseguito con le risposte di Carla Benedetti e del blog Sul Romanzo]
A che cosa somiglia di più, mi chiedo, questo schermo munito di tastiera su cui passo ormai molte ore della mia giornata: al vecchio caro foglio bianco che mi si para davanti quando clicco sull’icona di Word, o a una finestra spalancata sul mondo? A ben vedere, questo attrezzo chiamato personal computer, se non lo si mette in rete ha ben poche differenze rispetto a una normale macchina da scrivere.
Si tratta in pratica di uno strumento “privato”, “personale” per l’appunto, che improvvisamente può diventare di dominio pubblico, con tutte le complicazioni del caso.
Questo per dire che la scrittura sul web – soprattutto quando si parla di quei blog e di quei siti che si aprono ai commenti – è prima di tutto performativa, legata cioè al contesto in cui si sviluppa e ai tempi di reazione dei contendenti.
Come nota giustamente Gilda Policastro nel suo articolo, in questo senso viene meno quella “distanza critica” che caratterizza ad esempio il dialogo/confronto tra due o più riviste (che alcuni dei siti letterari più importanti in certi casi continuano a fare). Da questo punto di vista internet sembrerebbe quindi abolire quello spazio della riflessione che è di dominio della critica, sacrificandolo alla necessità di tallonare da vicino il proprio argomento, che spesso e volentieri finisce con il trasformarsi (e non sempre suo malgrado) in un grande spot promozionale a favore di questa o di quell’altra parrocchia. Eppure, se da una parte questo discorso mi sembra valere per un genere come la recensione – sempre più spesso relegata al compito di decorare l’informazione (e non vale solo per internet) – direi che la questione dei “commentari” non si può liquidare semplicemente paragonando la discussione a un’arena dove si battono i “tori della tastiera”, anche perché non mancano, come in ogni corrida che si rispetti, i toreri con il loro seguito di picadores.
Propongo allora di non prendere il toro per le corna e di considerare la questione da un altro punto di vista: forse che il problema è legato solo all’ambito dei “blog o siti letterari”?
Quella dei cosiddetti disturbatori è una categoria trasversale, che costituisce una delle componenti del web, ma che evidentemente da più fastidio quando si esibisce in certe arene anziché in altre (motivo per cui alcune di queste vengono chiuse ai commenti). Ecco perché eviterei di usare una categoria quale la Letteratura e mi concentrerei piuttosto sulle scritture, che è lo stesso motivo che mi porterebbe a sostituire l’arena con la palestra, dove la definizione di “agonismo muscolare” perderebbe un po’ di quella violenza di cui si nutre invece ogni corrida che si rispetti. Il web come palestra di scrittura, e dunque come scrittura performativa, lo trovo un buon punto di partenza per una serie di motivi: innanzitutto perché il personal trainer ha modo di disciplinare l’ambiente avendo al tempo stesso la possibilità di allenarsi (molto spesso è qualcuno che quella stessa palestra l’ha in passato frequentata come tesserato), ma senza sentirsi in diritto d’infilzare chi vuol fare di testa sua con gli attrezzi, perché è sufficiente stirarsi un muscolo per capire come regolarsi la volta seguente (leggasi autoregolamentazione). Certo, un po’ come avviene con l’insistenza nel curare il proprio corpo, anche quella della scrittura in internet sembra essere per certi aspetti una pratica compulsiva, una fissazione che si rafforza con il protrarsi dell’allenamento, e questo è il motivo per cui mi annovero tra i fautori del cosiddetto web 3.0, dove si rende auspicabile un dialogo effettivo tra la rete e il suo esterno, perché, se proprio devo dirla tutta, a me pare che la scrittura in rete sia più vicina all’oralità che alla scrittura vera e propria. Un’oralità che certamente risente di certi modelli, come quelli del talk show televisivo, dove si fa a chi urla di più, ma non sarà perché forse è la stessa critica ad alzare la voce per farsi sentire, come quando finisce puntualmente a scornarsi sulla questione dei premi letterari, tanto per fare un esempio?
Ecco che allora sembra non esserci poi tutta questa differenza fra internet e il resto, se non, giustamente, per una questione di maggior visibilità a minor costo.
Ma è tutta qui la prerogativa del web?
Il fatto è che molto spesso i blog o i siti letterari (dai più piccoli ai più grandi e importanti) sono ben poco pluralisti, poiché per pubblicare si devono avere i contatti giusti, essere un minimo conosciuti, come d’altronde è sempre accaduto per le riviste cartacee e per quanto concerne qualsiasi attività che sia gestita da una redazione (anche se, come ricorda Carla Benedetti nel suo pezzo, c’è sempre la possibilità di pubblicare una risposta ben articolata). Ora, la rivoluzione del web sembrava proprio consistere nello scavalcamento di questa sorta di barriera, in una libertà pressoché assoluta che si sta però dimostrando di difficile gestione, poiché questa voglia di letteratura (e non solo, ma atteniamoci al nostro caso) si quantifica in un’appendice di commenti come unico spazio disponibile al confronto, e dove effettivamente assistiamo troppo spesso a diatribe personali che deviano ben presto l’attenzione dall’articolo di partenza. Ché poi, a dire il vero, più che di disturbatori (che sono una minoranza) si dovrebbe parlare semmai di affezionati, di blogger (o semplici utenti) che seguono tutte le discussioni e si accalorano nel difendere quello o attaccare quell’altro, mimando quelle stesse dinamiche che si ritrovano in una riunione di condominio o in un’assemblea popolare (sì, è vero, sul web c’è il nick name dietro cui nascondersi, ma io di alcuni dei miei condomini non è che ne sappia poi molto di più). Con questo non voglio affatto mettermi a difendere chi usa lo spazio dei commenti per offendere o attaccare gratuitamente questo o quell’altra, ma solo precisare che forse certi contenuti e certi modi di veicolarli possono attrarre più facilmente di altri interventi del genere (che naturalmente ogni sito o blog ha la libertà di scegliere come meglio regolamentare).
Cominciamo allora a chiederci da dove viene tutta questa necessità di parlare di Letteratura, soprattutto in un paese dove secondo alcuni sarebbero di più gli scrittori dei lettori.
Forse che questa compulsione a scrivere potrebbe essere incanalata in esperimenti di scrittura collettiva (e già ce ne sono, cito su tutti il SIC), alla quale il web si presta per sua natura, e che magari metterebbe anche un freno alla sovrapproduzione di libri e libricini che esiste in Italia? I “tori da tastiera” potrebbero così trasformarsi nelle lepri dietro cui correr coi cani, e chissà, magari a forza di dar loro la caccia si finirebbe pure con lo stanare delle storie interessanti – ma in fondo lo diventano anche certe polemiche, arricchite da personaggi che per quanto ne so potrebbero essere del tutto inventati, e che pure finiscono con l’appassionarmi nel loro carteggio allo stesso modo di un feuilleton o di una telenovela ben articolata.
Ché poi, a pensarci bene, siamo proprio sicuri che questi siti non sentirebbero la mancanza dei tori scatenati con cui scaldare il pubblico dell’arena?
Simone Ghelli
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