Il libretto rosso di Pertini

Sandro Pertini è stato, ed è, il Presidente più amato dagli italiani. Rappresenta quella figura etica di uomo incorruttibile e di indefesso combattente per la libertà di cui oggi più che mai si sente il bisogno. Il libretto rosso di Pertini è un saggio fra letteratura e storia, che raccoglie gli scritti e i proclami politici del grande Presidente di tutti gli italiani e ne ricostruisce l’entusiasmante biografia, dalle sue imprese durante la Prima Guerra Mondiale alla Guerra di Resistenza durante la Seconda, passando per l’esilio e il carcere, fino ad arrivare alla Presidenza della Repubblica. I Di Mino, autori del romanzo Fiume di tenebra, sull’epopea dannunziana a Fiume, e de Il libretto rosso di Garibaldi, completano così un percorso ideale alla riscoperta dell’epica nazionale, ridisegnando la figura di Sandro Pertini, in una chiave moderna e originale, come mito ancora attivo. Leggi il resto dell’articolo

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Fiume di Tenebra

È la notte di un giovedì quando, venuto a Roma per un reading di Scrittori precari, mi ritrovo a casa del subcomandante Liguori, in attesa dell’Intercity delle 4:28 che da Roma Tiburtina mi avrebbe riportato a Firenze.

Evidentemente non pago di quanto bevuto durante la serata, il subcomandante sfodera una bottiglia di calvados. Dico che non importa, che sono troppo stanco per bere. Lui versa. Mi faccio un bicchiere, poi un altro. Poi un altro.

Aggrappato al tavolo, cerco di posticipare il torpore, che è ottimo per affrontare l’Intercity delle 4:28 (non c’è mai posto e allora se sei bello stanco ti schianti nel corridoio, la borsa come cuscino, e tanti saluti), ma prima devi arrivarci, al treno.

Sto per desistere e chiudere la serata addormentandomi al tavolo con la testa sulle braccia, come a scuola, quando lui attacca a leggere qualcosa:

Nel settembre del 1919…

Visto il periodo e i gusti del subcomandante, penso che possa essere Rilke, il che non mi smuove. Forse, sballando di nove anni, bofonchio un “li leggerò, i quaderni, lo giuro…”, ma lui va avanti:

…arditi, sbandati, artisti di mezza tacca, orge in mezzo alle strade, donne che si davano a chiunque, e gli uomini pure con gli uomini; e la popolazione che veniva nutrita fantasiosamente a cocaina. Ma questo sarebbe ancora un metodo come un altro per vivere, perché il grave era che…

Io alzo gli occhi, troppo sonno e troppo calvados per capire di cosa parli il brano che sta leggendo, ma la buona prosa, insomma, quella uno la riconosce in qualunque condizione. Lui continua:

… aveva ribattezzato la marina militare fiumana con il nome degli antichi pirati dell’Adriatico, gli uscocchi, e l’aveva mandata a derubare le navi degli altri, al grido di eia eia alalà. A Fiume si campava con la pirateria, sebbene si dicesse che,

oltre che sulla provvidenza piratesca, D’Annunzio dovesse fare conto sull’aiuto di qualche banchiere: ma molti troveranno la differenza troppo sottile. E non finisce mica qui, perché si diceva anche che a Fiume erano peggio dei bolscevichi, e che Lenin in persona avesse approvato tutta la questione: Carli e Marinetti, con le bombe a mano nella giacca, a Fiume si presero una bella ubriacatura comunista. Insomma: un puttanaio: un immenso puttanaio.

Mi ritrovo improvvisamente rivitalizzato. E quindi parla di Fiume, questo brano! La storia della Reggenza Italiana del Carnaro l’avevo scoperta già da ragazzino, leggendo “TAZ” di Hakim Bey, e da lì avevo sempre sospettato che questo D’Annunzio qualcosa di buono lo avesse, se nelle sue vene scorreva almeno un po’ d’anarchia, e metteva l’Oroboros sulla bandiera. Mi entusiasmo, gli chiedo di leggermi qualche altra pagina. Lui va avanti, ma ben presto l’orologio sulla parete mi chiama al treno. Raccolgo i miei coccini e chiedo come si chiama quel libro, che lo voglio cercare.

A sentire che è un libro in lavorazione, un libro-italiano-contemporaneo e non un testo ripescato chissà dove, ci rimango secco. Il subcomandante mi promette che appena esce me lo farà avere. Preso il treno, mi addormento nel corridoio lercio

vagheggiando imprese da “disertore in avanti”.

E qualche mese dopo mi arriva davvero, il libro. Bello anche a vedersi, seppiato come uno lo immagina, con la faccetta del Vate in un cammeo. Fiume di Tenebra, si chiama. Di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, Castelvecchi editore 2010.

Leggo di Serra, di Keller, Comisso e Ada, di generali per cui il frustino non è solo una decorazione, di una estate dell’amore (un autunno-inverno, a voler esser precisi) in anticipo di quarantasette anni e di un piccolo D’Annunzio tutto nervi e sogno. Sono piaceri.

Vanni Santoni



Fiume di tenebra – L’ultimo volo di Gabriele D’Annunzio (Castelvecchi, 2010)

di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino

 

[Leggi qui il prologo]

[Leggi qui il capitolo “Aspettando il tenente Keller”]

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 14

[continua da qui]

Insomma, i cinque arrivarono a Milano carichi come una bomba a orologeria, pronti a esplodere da un momento all’altro, magari proprio nell’ora dell’aperitivo, in mezzo al brulichio e al cicaleccio di certi personaggi azzimati e impomatati che sembrano usciti fuori da una pubblicità di qualche analcolico on the rocks.

Da testimoni attendibili risulta che i sedicenti scrittori alloggiarono in periferia, presso una cugina di primo grado in dolce attesa, e che vi giunsero soltanto in quattro, ma piuttosto trafelati e puzzolenti e ancora carichi di scatoloni di libri rimasti invenduti. Dal qual particolare si evince una volta di più che destava interesse il loro fenomeno, l’esser dei saltimbanchi, o dei pagliacci se preferite, piuttosto che la sostanza delle loro idee, la scrittura vera e propria.

La riunione si realizzò poche ore dopo sulla scalinata del Duomo, un po’ ingrigita e impallinata dai piccioni, ma pur sempre affascinante sotto quel cielo incredibilmente terso e romantico, come documentato dalla foto traditrice, che riprende un abbraccio in bianco e nero tra i nostri, mentre tutt’intorno la piazza pullula di poliziotti col pastore tedesco al guinzaglio e di turisti all’oscuro del fatidico disegno.

È ovvio, a questo punto, che i fatti precedentemente riportati siano tutti quanti viziati da un madornale errore di fondo, alla luce del quale dovremmo rivedere l’interpretazione vigente. Chiediamoci quindi il perché di questa macchinazione, partorita dalle menti di chi si è voluto dipingere in pubblico come puro artista, come animo intonso ancorché impegnato, e del ruolo rivestito infine da questo fantomatico quinto componente. Quale doveva essere la sua funzione, se non quella di coordinare da una torre di controllo le scriteriate gesta dei suo compari, inficiando così la teoria del piano improvvisato sul momento? Ecco allora spiegata la natura guerrigliera di costui, il suo impegno nelle arti marziali e il ruolo strategico di ufficio stampa alle dipendenze di un editore noto da tempo come sovversivo e sobillatore.

Ed è a questo punto, cari i miei lettori, che mi ritrovo, dopo tanto peregrinare tra scartoffie, interviste e dichiarazioni varie, a esser costretto a prendermi anch’io qualche licenza poetica, ad azzardare qualche ipotesi che non potrà mai essere tanto inverosimile quanto la realtà riportata nei commenti dei nostri protagonisti.

Dopo tanti giorni passati chino sui fogli o con le orecchie attente ad auscultare le intercettazioni ambientali, posso affermare di aver fallito nella ricostruzione dettagliata del piano (ed è questo il dubbio che più mi arrovella, poiché questa pecca giustificherebbe ancora l’ipotesi di un colpo di testa, di una bravata improvvisata), ma di aver compreso alcune cose affatto secondarie sulla psicologia di questi scrittori ributtanti e rivoltosi.

La prima è che non avevano una, non dico due o tre, ma un’idea che fosse una di letteratura, la qual cosa si deduce dall’uso sproporzionato di aggettivi indecenti e deleteri quali carino e interessante, con cui infarcivano le loro riflessioni di bassa lega. Hai letto quel mio lavoro?, chiedeva loro qualcuno, e giù a dire che sì, che era carino, interessante, ma che c’era qualcosa che non andava, che non convinceva fino in fondo. Ecco, di questo qualcosa, che immagino costituisse proprio l’irriducibile sostrato letterario della questione, essi non sapevano darne una definizione precisa. Arrancavano, come i più che oggi si buttano a scrivere in mancanza d’altro e che per lo stesso presupposto, quasi che siano spinti da forza d’inerzia, finiscono persino con l’accettare l’obolo del pagamento pur di vedere pubblicate le loro elucubrazioni da quattro soldi. Loro cinque si dichiaravano però contrari a questa forma masochista di letteratura, per quanto poi non si vergognassero di fare la questua a questo o a quell’altro personaggio famoso pur di ottenere un minimo di spazio e di visibilità.

Insomma, se proprio posso permettermi anch’io un poco di licenza poetica, direi che la storia del nostro glorioso paese doveva ancora conoscere dei simili gigolò della letteratura, che forse non sarebbero dispiaciuti al D’Annunzio, se non fosse che questi non avevano neanche l’ardire di rischiare la propria vita per la patria.

Altro che rivoluzionari della parola!, essi miravano né più e né meno all’effimera gloria, al caduco successo, quello stesso che avrebbero raggiunto con più facilità in uno studio televisivo che nell’impervio mare di carta che s’eran prefissati d’attraversare…

Simone Ghelli