La società dello spettacaaargh! – 2

[La società dello spettacaaargh – 1]

Caro Jacopo,

il senso di questo dialogo a distanza mi fa pensare a una partita a scacchi per corrispondenza: un contesto in cui la cadenza settimanale è un compromesso, in questo caso felice, tra problemi da affrontare e tempo a disposizione per trovare una risposta. Dico «compromesso» perché, per quello che mi chiedi, sospetto non mi basterebbero mesi, o addirittura anni, per rispondere come si deve! E dico «partita a scacchi», invece, perché gli scacchi sono un modello logico e dialettico in cui chi comincia per primo, in questo caso tu, introduce un tema, e la replica del secondo giocatore, in questo caso io, deve tenere conto di questo tema, accoglierlo, e svilupparlo replicando con la propria mossa, secondo regole cui non è possibile sottrarsi senza incorrere in errori. Ma poiché errare è umano, tu, mi raccomando, metti in luce con franchezza i miei errori, perché a scacchi, come recita un fondamentale assioma, “vince chi fa il penultimo errore”, e di sicuro io ne farò, non avendo tutto il tempo di cui ho bisogno per risponderti ogni volta, e non essendo certo un Kasparov. Io farò altrettanto con i tuoi errori, quando li noterò, per le stesse ragioni e con lo stesso spirito che chiedo a te. Esplicito ciò perché credo non ci sia bisogno d’essere spietati tra noi: lasciamo la spietatezza a chi guarda all’altrui errore con occhio torvo. Leggi il resto dell’articolo

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Le stelle di Pincio

Hotel a zero stelle (Laterza, 2011)

di Tommaso Pincio

La luce di cui brillano a tratti i romanzi è qualcosa di estraneo al placido scorrere della prosa; è simile alla luce degli abbaglianti di un’auto che improvvisamente ci si para davanti nella corsia opposta , e allo stesso modo in cui quei fari ci costringono per un attimo a chiudere gli occhi, così lo sfarfallio di una certa frase ci obbliga per un attimo a sospendere la lettura. (Hotel a zero stelle, T. Pincio)

A dimostrazione della sua versatilità e della distanza che lo separa dai colleghi, in un momento in cui il romanzo gode di ottima salute con buona pace di chi lo vuole morto – soprattutto il romanzo di una generazione che gli stessi vogliono avvilita e che invece dimostra afflati tutt’altro che ordinari – seguendo una pista controcorrente rispetto a quella di sapore anamnestico che predomina nel panorama narrativo odierno, Pincio sforna un oggetto narrativo di rara bellezza. Non che la sua intera produzione sia da meno, ma questo in particolare abbaglia per eleganza del dettato e per la precisione con cui ritrae alcune tra le figure letterarie più amate da chi ha a cuore la letteratura (con la l minuscola, visto che dopo la boutade della Mazzantini fa un po’ ridere scriverla grande). Leggi il resto dell’articolo

Centrattacco, sfonda mento.

Il dolore, se lo conosci, se t’ha già morso, impari a difendertene, a sentirlo sopraggiungere, il dolore, ne avverti il fetore. E se poi ti scorge, mannaggiallui, con l’occhio iniettato di sangue, ti punta; ti carica; viene per farti male, nuovamente, il dolore.

Virgilio è felice, quand’è ragazzino, si sente una gioia dentro quando vede il mare che gli viene da pensare meglio di me, nessuno, altro che Dante. Leggi il resto dell’articolo

Metodica delle cose inutili – Sul lavoro

Sul lavoro


Il lavoro non mi piace, non piace a

nessuno. A me piace quello che c’è

nel lavoro: la possibilità di trovare

se stessi.

Conrad in Cuore di Tenebra

Un punto spinoso: il lavoro. Così spinoso da dover subito sgombrare il campo da tutte le interpretazioni fuorvianti in cui è possibile leggere, in contrasto con la teologia della nostra civiltà, questo concetto.

A molti pare, infatti, che il lavoro, anziché un obbligo o una triste necessità, sia qualcosa di voluto dal nostro spirito, dalle nostre mani. Ancora nella costituzione fiumana si parlava di lavoro senza lavoro e, uno dei protagonisti dell’avventura dannunziana, Guido Keller, folgorato da un’etica dell’altro (“scordare se stessi per l’altro”), che ricorda vagamente quella di Lévinas, umanista profondo qual’era, vedeva nel lavoro un ampliamento di conoscenze. Uno dei maggiori danni, in questo campo, è stato apportato da Dante Alighieri, che, nell’ottavo canto del Paradiso (v. 142-148), fa bellamente dire a Carlo Martello: “ E se ‘l mondo la giù ponesse mente/ al fondamento che natura pone,/ seguendo lui, avria buona la gente./ Ma voi torcete a la religïone/ tal che fia nato a cignersi la spada,/ e fate re di tal ch’è da sermone;/ onde la traccia vostra è fuor di strada.” Insomma questo mondo è fuori strada, e la gente non è buona, perché non si tollera che l’individuo si assuma il coraggio e il peso della propria vocazione, e si fa di un soldato un prete, e di un prete un re. In questa lettura del lavoro non solo è pericoloso questo richiamo alla volontà individuale e a un diverso, più profondo e stravagante, uso della ragione, ma vi è insito quell’appello del Nazareno a leggere la realtà non secondo le regole della necessità imposte arbitrariamente dall’uomo (secondo il suo libero arbitrio), ma in una feconda chiave simbolica che liberi la natura profonda delle cose dalla retorica della concretezza (“non di solo pane vive l’uomo”), che ha determinato in certo cristianesimo perfino una visione delle leggi di mercato e una lettura dell’ordine sociale invertite: si pensi a Sant’Ambrogio, secondo il quale quando fai l’elemosina, “non de tuo largiris pauperi, sed de suo reddis” (al povero non dai il tuo, ma gli restituisci il suo: il maltolto). Questa affermazione può sembrare un aspetto innocuo di questo ribaltamento di prospettive, ma apre un dibattito che ancora nel Novecento, porterà Norman O. Brown, in una critica al luteranesimo e al comunismo scientifico, a riconnettersi alla fonte, sorpassando una critica al denaro come “sterco del demonio” e come strumento di sopraffazione, e puntando la sua, di critica, sul denaro come indice quantitativo anziché come espressione di valore simbolico: in uno spirito non diverso da quello del Nazareno, o anche come uno zingaro, secondo Brown l’oro sta meglio al collo che in tasca (sarà stato mentre si faceva ungere di preziosi balsami con soldi non dati ai poveri che a Gesù è venuto in mente che una lanterna non deve rimanere nascosta in un moggio).

Bene, questo, per sommi capi, è il campo che dobbiamo sgombrare, scartando con forza ogni richiamo alla responsabilità individuale verso se stessi e l’altro, e a un uso diverso della ragione, riconnesso alla sua matrice simbolica e immaginale. Ci aiuta, in questo, la lampante evidenza che lo sforzo spirituale e culturale che mette in gioco questa lettura della realtà è impari davanti al fatto che non bisogna avere una laurea per capire che la via facile da seguire è quella dell’inutilità.

Il lavoro è inutile, è come una di quelle cose che si inventano tanto per cattiveria, una punizione data da Dio ai suoi bambini capricciosi, una correzione che ci dà un’ordinata, un ordine. Si può allora accettare questo ordine, accettare il lavoro in suo nome, subendolo passivamente o, in un istinto confuso ad ottenere il perdono, cercando di guadagnare dei meriti, ovvio quantificabili (fare carriera, guadagnare denaro, ottenere potere, e via dicendo): tutte le organizzazioni sociali avvicendatesi nella nostra civiltà sono state basate su questa salda base.

Uscire fuori da questa prospettiva significa pensare che questo mondo, piuttosto che una valle di lacrime, è la “valle del fare anima” (Keats) e che ognuno di noi è chiamato a lavorare, secondo il proprio talento e la propria vocazione, (ognuno secondo le proprie capacità così come ad ognuno secondo le proprie esigenze) per essa: per gli altri.

Pier Paolo Di Mino

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 8

[Puntate precedenti]

Da qui in avanti le notizie si fanno più precise, per via di annotazioni prese dagli stessi protagonisti – anche se questi non hanno poi riconosciuto la paternità della totalità degli appunti – nonché grazie ad accurate testimonianze, che si fanno particolarmente interessanti considerando il fatto che il Presidente si sia salvato proprio grazie all’arte di qualche crumiro, alle cui attenzioni avranno senz’altro ceduto gli egotici scrittori, che in quanto a penne pare non avessero niente da invidiare a quelle colorate con cui i pavoni amano farcire la ruota.

Del viaggio nella città di Dante – che fu anche di molti altri, come appresero i nostri passeggiando trionfalmente davanti agli Uffizi – se ne parla soprattutto in termini podistici, tanto che le scritture convergono sul tema comune del mal di gambe, che prese un po’ tutti durante il quarto e ultimo viaggio, nonché umido e notturno, da La Cité all’auto e ritorno. I cinque erano stremati, ma felici di aver fatto convergere tante persone in Borgo San Frediano, nonostante il concertone in piazza della Signoria, che quando lo seppero, lì davanti alla libreria, prese a tutti un bel colpo! Per lo spavento, a quello di loro che aveva origini etrusche e toscane, tornò su pel gargarozzo l’intera fettina panata che s’era mangiato in ricordo di quand’era piccolo. Di lì a poco avrebbe infatti letto il racconto sul suo nonno, che dopo i mercati lo portava in trattoria, mentre il freddo imperversava in Val di Cecina, e gli era sembrato un bel modo di rendere omaggio alla sua infanzia il concedersi una fetta di quegli antichi sapori, che aveva accompagnato con una porzione di patatine fritte e innaffiato di vino rosso della casa – identificandosi subito come scrittore piuttosto prevedibile, aggiungo io.

Insomma, nonostante la concorrenza, gli è che il luogo si riempì all’inverosimile, tanto che ai fiorentini gli luccicaron gli occhi per l’orgoglio. La città toscana rispose alla grande alla chiamata alle armi dell’esercito dei letterati dell’ultim’ora, che incuriosivano più per la follia della loro impresa che per la verità delle loro parole – su cui si sospendeva volentieri il giudizio per colpa dell’ammirazione delle gesta. Inutile quindi aggiungere che di libri i nostri cinque non ne vendettero manco uno, a esclusione di quelli stampati in ciclostile, del costo di un euro, che andavano via più per lo sfizio d’averci questo cimelio in mano che non per la qualità dei contenuti, che però contribuirono all’abbeveraggio necessario all’utilitaria.

Alla fine della baraonda, che vide impegnati nel tour de force verbale anche tre noti scrittori del Valdarno, il gruppone si sminuzzò in una sparuta compagine che finì col consumare un ultimo bicchierino in una piazzetta là dietro, dove saliva tutta l’umidità del fiume, che per fortuna non portò seco le tanto vituperate zanzare, che pare amino moltiplicarsi soprattutto tra i vicoli pisani.

Giunte che furon le due di notte, i cinque scalatori della metrica si concessero un’ultima scarpinata per posare le scatole ancor ricolme di carta e poggiare i loro corpi in un giaciglio amico; ché fu in un loft del più famoso tra gli ospiti della serata letteraria, che dovette anche sorbirsi puzze e fetenze varie di lorsignori, come prodotto di un’intera giornata passata in balia delle intemperie. Costui dimostrò prova d’inenarrabile coraggio nell’affrontar la marmaglia, anche se si levò alto il grido nella notte, per interrompere il sinfonico russare di almeno tre delle cinque vie respiratorie.

Insomma, se la rivoluzione non aveva a russare, qua c’era di che lavorarci parecchio…

Simone Ghelli