Non moriremo commercialisti

di Dario Morgante

«Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo».
Roy Batty, Blade Runner

Quest’anno l’Avvoltoio ci lascia 100 euro.

I nostri partiti politici presentano programmi che disquisiscono su come utilizzare questi 100 euro. Tutti promettono «maggiore legalità», che nessuno si azzardi a rubare neanche uno di quei 100 euro! E poi in coro: meno tasse, più investimenti, più lavoro per i giovani, servizi più efficienti.

Stiamo votando per scegliere il miglior commercialista sulla piazza.

Il prossimo anno l’Avvoltoio (quello che in Grecia sta facendo i morti per fame) magari ci lascerà 80 euro. L’anno successivo – chissà – forse 50.

I nostri commercialisti saranno senz’altro bravissimi a tagliare la spesa pubblica e a ritoccare le tasse per affrontare la situazione Leggi il resto dell’articolo

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Fútbologia

Riproponiamo qui, in attesa di Fútbologia, l’indice dello speciale che Scrittori precari curò per i Mondiali del 2010.
Fútbologia è un festival di 3 giorni che si terrà a ottobre a Bologna, con conferenze, reading e incontri. In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora.
Fútbologia
è un modo per ripensare il calcio. E tanto altro ancora. Leggi il resto dell’articolo

‘Sta vita

Il signor Franco e la signora Adele sono i miei vicini del piano di sopra.

«Abitate qua da tanto?».

«Dal ’39».

«Dal ’39?»

«Sì».

Il mio ruolo nelle loro vite consiste nel portare su la spesa della signora Adele al quarto piano, perché non abbiamo l’ascensore e la sua gamba è un po’ malandata.

La signora Adele ha 81 anni. Forse. Non ricorda bene.

Il signor Franco invece ne ha 82.

Faccio i conti. Come possono abitare qua dal ’39? Avevano dieci, undici anni, all’epoca.

Glielo chiedo.

«Io stavo qui all’interno 12. Mio marito all’11. Durante il bombardamento ho perso i miei e i genitori di Franco m’hanno preso con loro».

«Quindi vi siete conosciuti da bambini».

«Allora non era come oggi. Non eravamo bambini».

Il bombardamento è quello del 19 luglio del ’43. Il nostro complesso di palazzine all’epoca era composto da quattro blocchi di appartamenti. Ora sono tre. In quello che non c’è più c’era il rifugio antiaereo. Sono morti in 250, lì. Nel quartiere invece ne sono morti 3500, ma nessuno sa il numero preciso. Per fare un monumento ai caduti hanno impiegato sessant’anni. Veltroni l’ha inaugurato nel 2003. Prima di allora i morti di San Lorenzo erano un fatto privato. Un lutto di quartiere, da ricordare con le foto nella bottega di Gaetano, il barbiere comunista («non comunista, berlingueriano») che della sua bottega ha fatto un museo dove ti taglia anche i capelli.

Il signor Franco ha avuto un ictus lo scorso anno, e ha smesso di uscire di casa. Solo ogni tanto, con la riabilitazione. Lo incontravo tra il secondo e il terzo piano, a riposare in attesa di affrontare una nuova rampa.

«Buongiorno».

«Buongiorno».

«Come andiamo?»

«Eh. Non può piovere per sempre».

A febbraio scorso il signor Franco ha avuto il secondo ictus. Stop anche alle rampe di scale.

Bombola di ossigeno e assistenza domiciliare.

«Così si muore senza dignità».

«Ma no che non muore».

«Mica posso vivere per sempre».

A San Lorenzo da tutta la vita, in affitto al quarto piano con una vista che non ti aspetti, il quartiere che si trasforma, la vita che passa. Il signor Franco ha fatto il ferroviere tutta la vita. Dietro al letto il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo. Non un crocifisso in tutta la casa. La signora Adele ha un Padre Pio sul comodino, accanto alla foto dei figli, dei nipoti e del presidente Pertini.

Stamattina il signor Franco ha avuto un colpo. M’hanno chiamato mentre uscivo per fare colazione. Io e il figlio l’abbiamo alzato di peso per adagiarlo sul letto. La signora Adele mi ringrazia, chiede scusa, piange con i suoi occhi azzurri.

Il signor Franco ci mette un po’ a riprendersi.

Ci guarda sperduto.

«Sta vita», dice. «Sta vita…».

«Bono papà nun parlà».

«Sta vita…», tossisce.

Fuori dall’appartamento c’è il sole che splende sul Verano, ci sono i tram che passano lungo la strada sferragliando, ci sono le rondini che volano basse ma non è vero che pioverà.

«Sta vita…», continua a ripetere il signor Franco mentre esco dall’appartamento. La signora Adele sulla porta, i capelli scarmigliati, mi ringrazia ancora.

Dario Morgante

Il calcio è uno sport da froci

Immaginare uno sport più da froci del calcio è difficile. Guardate il campo: uomini maschi contro uomini maschi. In pantaloncini. Corrono, si strattonano, si battono come leoni.

Fin qui dite che somiglia a tanti altri sport.

Certo che sì.

Infatti credo che lo sport sia in generale una roba da froci. Ma così come il gay pride è la massima e pubblica frociata, politicamente e culturalmente rilevante, il calcio è la summa aurea dell’omosessualità sportiva.

Andiamo avanti.

Quegli uomini che sgambano per il campo, quei ventidue coraggiosi, hanno come unico obiettivo quello di calciare la palla dentro la porta avversaria. Una bella metafora del sesso, e visto che quella porta è difesa da un uomo maschio, una bella metafora del sesso gay.

E quando accade… Quando quella palla entra… Quando quella porta è penetrata…

Eccolo il campione, l’uomo del gol, il centravanti, el pibe de oro, strapparsi di dosso la maglietta, correre sotto la curva a torso nudo, a farsi ammirare bello come il sole dai tifosi (maschi) della sua squadra.

E i compagni che lo inseguono, gli saltano addosso, se lo baciano, se lo carezzano, se lo stringono esaltati. Quante ammucchiate simboliche sotto le curve degli stadi, in diretta televisiva!

Queste masse di muscoli virili esaltati che s’ingarellano, questo trionfo del sudore virile scambiato baciato lemmato siroccato. Ditemi voi, fa più frocio Argentina – Brasile o il carro del Muccassassina al gay pride?

Questi peraltro sono i protagonisti, ma andiamo a dare un’occhiata ai comprimari, andiamo a svelare l’arcano pornografico del lavoro del tifoso: assistere a una partita di calcio, molto ma molto meglio di un film gay porno. Quello si consuma nell’intimo privato, il lavoro del tifoso invece è orgiasticamente pubblico!

Il tifoso di calcio ama stare in compagnia di altri uomini maschi come lui. Le tifose di calcio, comunque una misera minoranza, sono emarginate. Il calcio è roba da uomini, si dice.

Dico io: se si è etero e uomini si preferisce frequentare le donne. Se si preferisce frequentare gli uomini, logica vuole che si tratti di un’attività sospetta.

I tifosi maschi del calcio si ritrovano tutti allo stadio, un’arena libidinosa piena zeppa di altri maschi. Tutti assieme tutti maschi si assiste a cosa? A una lotta nel fango tra bionde pettorute? No! Si assiste a una «partita» tra ventidue uomini maschi seminudi e grecamente atletici.

Poi c’è il gol. Il momento topico del gol. Visto dalle tribune, dagli spalti. Lì nel campo verde il cannoniere si strappa via la maglietta. I pettorali sudati risplendono sotto al sole, i suoi compagni lo tramortiscono di lascivia. Tra i tifosi scatta l’urlo collettivo. La grande ola. Le bocche spalancate. Poi è tutto un abbracciarsi tra vicini sconosciuti, tutto un orgiastico collettivizzare la gioia del cannonniere. Lì, nella pellicola porno gay meglio nota come «partita», lui è il grande mandingo. I tifosi spettatori possono solo accontentarsi della gloria riflessa.

Come raccontava un tale, quella sciocchezza che le corna servono agli alci per i riti di accoppiamento è palesemente una stronzata. Mentre gli alci gay si schiantano in combattimenti omo sospetti con altri alci atletici e muscolosi, quelli un po’ anzianotti, un po’ debolucci, o chiaramente intellettuali, si trombano le femmine nel sottobosco.

Cosa pensate che facciano le vostre mogli mentre voialtri vi esaltate gayamente allo stadio o davanti alla tele nelle seratine «solo per uomini»? Dite di no? Dite che non è vero nulla? Che sto tirando l’arbitro per la giacchetta?

Pensate solo a questo – solo a questo e qui la chiudo – dopo tutto questo esaltarsi tra maschi seminudi per un pubblico di maschi ululanti, come finisce il rito della partita? Come si chiudono questi baccanali testosteronici? Lo sapete vero? Si chiudono con «lo spogliatoio», con i suoi annessi e connessi. Ma lì le telecamere non entrano, lì si spengono i riflettori, come una grande, fumosa, sudata dark room…

Mi dispiace, non mi avrete, sono troppo etero, preferisco tifare per il calcio femminile, guardare femmine che si battono con altre femmine, in attesa che gli sport, come il resto della società, diventino misti.

Dario Morgante

Pranzo di famiglia alla domenica con debutto della fidanzata da 4 del figlio maschio

Nel silenzio raggelato del pranzo domenicale la madre afferma con sicurezza: «Le orge non sono come le fanno vedere nei film hard. Non lo sono».

Il nostro protagonista si strangola con l’arrosto di vitella. Apre e chiude la bocca un paio di volte. Cerca di protestare, debolmente: «Ma, mamma…», gli esce dalla bocca.

«E certo», ribadisce la progenitrice, mentre il sole invernale di Roma illumina la sala da pranzo, «le orge dei film sono fatte per essere mostrate a noi spettatori». Il cane, Carciofo, tende le orecchie, mentre un’ambulanza si trascina ululando per le deserte strade.

Il protagonista guarda il padre con l’idea malsana che egli possa tenere al decoro. Ma sa bene che la risposta è: per niente. L’uomo si alliscia i baffetti grigi, la forchetta con le patate ferma a mezza corsa. Sta pensando, il padre. Ai film porno, in primo luogo, all’arrosto di vitella un po’ secco, in secondo, e a cercare di ricordarsi il nome della fidanzata del figlio, in terzo e ultimo.

«E scusa», dice il maschio adulto che percepisce un reddito mensile di seimiladuecentotrenta euro, «mi sembra che sia così in effetti. Mi sembra che tu abbia ragione. Le orge vere sono un groviglio di corpi. Stai lì che sudi e succhi e spingi, ma non hai certo la visione d’insieme, come ci può essere guardando un film».

La fidanzata del protagonista non è bella. No, non è bella. La madre l’ha notato subito. E subito ha preso il figlio in disparte, quel figlio di venti/trenta anni che vede ogni tanto, che non è sicura per chi cazzo voti, e che anche adesso, di domenica, indossa la cravatta. L’aborto ci voleva, pensa sempre più spesso. Ha preso questo figlio in disparte, e gli ha detto una cosa tipo: «Sembra molto dolce, la tua amica». Al che il figlio di venti/trenta anni che non ha mai capito i genitori e la madre meno che mai, candidamente gli risponde: «È la mia fidanzata, mamma, non una semplice amica. E sì, è molto dolce. Sembra anche a te?». La madre lo guarda con quello sguardo che il figlio pensa “l’amore materno” ma che in realtà è più uno sguardo come a dire “ti devono aver scambiato nella culla con il mio vero figlio”.

La fidanzata dell’unico figlio maschio di questa coppia della Balduina che si trova a disagio nel proprio quartiere per via delle scritte fasciste tipo «W IL DUCE ONORE A GELLI» non è una bella ragazza. Non è bella e a onor del vero, in una scala di dolcezza che va da 1 a 10, con 1 tipo una professoressa di matematica e 10 il diabete, ecco questa ragazza è un 4. E questo numero 4 sta cercando di non sentire quello che i genitori del suo amore stanno dicendo. Perché lei un pranzo domenicale così ancora non l’aveva fatto in vita sua e nella pausa che segue la frase: «Stai lì che sudi e succhi e spingi, ma non hai certo la visione d’insieme, come ci può essere guardando un film», chiede timidamente il sale. Per le patate. E per l’arrosto di vitella. Un po’ secco, a dire il vero.

Il cane Carciofo si alza e si stiracchia, sbadiglia, si gratta dietro l’orecchio ripetutamente. Guarda il tavolo da pranzo dalla sua bassa posizione. Per la milionesima volta si chiede cosa stiano mangiando, visto che non riesce a vedere. Torna a sdraiarsi e si addormenta. Sogna e nel sogno c’è l’arrosto di vitella.

La mamma riprende dove si era interrotta. «Sì hai ragione, quando stai lì, spesso al buio, neanche lo vuoi sapere cosa sta succedendo, vuoi solo perderti nella carne che ti circonda». Una nuvola passa sul sole, il soggiorno si oscura, il figlio pensa che se sono molto ma molto fortunati è l’Armagheddon. La fidanzata da 4 pensa che quell’intera situazione deve essere uno scherzo (anche se poi, giorni dopo, ricorderà improvvisamente che il suo amore aveva detto, mentre posteggiava la Opel Corsa grigia quella domenica mattina, una cosa tipo: «Non farci caso, i miei possono essere un po’ eccentrici», e lei aveva pigramente pensato che la madre forse collezionava ninnoli e foto di gattini vestiti da pagliaccetti) e prega che qualcosa di terribile succeda per poterla sollevare dall’imbarazzo, prima che la madre o il padre chiedano.

Chiedano una cosa tipo: (il padre poggia la forchetta sul piatto e guarda il figlio, poi lei, poi ancora il figlio) «Voi ragazzi cosa ne pensate?».

Il figlio sospira e pensa che l’Armagheddon è lontano ma che forse Carciofo potrebbe stramazzare infartuato, tanto per alleviare la tensione. La ragazza da 4 abbassa lo sguardo e fissa con inquietante intensità quello che resta della vitella.

Poi il pranzo finisce, il padre decide di portare Carciofo a fare una passeggiata, la madre si affanna in cucina, il figlio e la sua fidanzata si stendono sul divano e guardano la televisione. Lui dice sottovoce una cosa tipo: «Sai, non si possono scegliere i propri genitori» con un sorriso che non lega molto con i suoi denti. E lei risponde una cosa a caso: «No, ma sono i tuoi genitori, e sicuramente ti vogliono bene. Si vede. E poi sono delle brave persone. Magari un po’ eccentriche».

La madre dopo aver fatto finta di rassettare ammucchiando piatti e bicchieri nel lavandino si accende una sigaretta. Guarda fuori dalla finestra della cucina, dove si vedono via della Balduina, palazzi su palazzi, marciapiedi, i tavolini del ristorante sotto casa e più giù, dove il sole sta scomparendo, piazzale degli Eroi. In strada vede passare il marito assieme al cane e pensa che li ama entrambi, loro.

Dario Morgante

* una prima versione di questo racconto è stata pubblicata sul numero 200 della rivista «Blue



Trauma cronico – Atto finale

Siamo ai saluti. Questa domenica è l’ultima insieme. Ci pensavo già da qualche settimana, ma oggi sono giunto alla decisione: chiudo Trauma cronico.

La ragione principale di questa mia scelta è l’omonimia con lo spettacolo ideato da Dimitri e Andrea (che mai potremo smettere di ringraziare per quello che stanno facendo per noi) e che vede Scrittori precari protagonisti. Da oggi, Trauma cronico, sarà soltanto lo spettacolo. Tanto, quando voglio, qui su, posso scrivere quel che mi pare e quando mi pare.

Però mi raccomando, continuate a passare di qui la domenica, ci sarà sempre, come ogni giorno, un nuovo post interessante; abbiamo tanti contributi di nuovi e vecchi autori, differenti scritture da offrirvi per amor dell’arte, della letteratura e della bellezza.

Anche questa settimana sarà ricca di intessanti novità: i racconti di Dario Morgante, Simone Rossi, Luigi Pingitore e la prima parte di un racconto lungo di Gregorio Magini, poi l’intervista a Percival Everett del nostro Pietrogiacomi e sabato continua la Banda del Ghelli. Insomma, ogni giorno, un buon motivo per passare a trovarci.

Trauma cronico vi saluta qui, noi ci sentiremo presto. Se non avete di meglio da fare, vi ricordo che giovedì siamo al Simposio, ci saranno ospiti gli amici Peppe Fiore e Vanni Santoni, ed un giovane bravissimo che ci allieterà con la sua musica, Manuel Milano.

Un altro evento targato Scrittori precari assolutamente da non perdere, vi aspettiamo.

Ci sentiamo presto. Fate i bravi.

Gianluca Liguori

Al traguardo, al traguardo…

Maratona letteraria

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