La depressione

Si parla di crisi economica. Ma se diamo retta all’etimo, dovremmo parlare di una crisi delle regole della casa.
Dovremmo domandarci se le scelte prese a partire dagli anni ’70 siano state positive o negative e se siano state inevitabili o prese per scarsezza dei loro promotori. È saggio rispondere che, economicamente e psicologicamente, in parte sono dipese da un clima generale e in parte da scelte specifiche sbagliate. Leggi il resto dell’articolo

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Fa un freddo abominevole

Fa un freddo abominevole.
Persino la leggera striscia di urina lasciata da Toni il Barbone lungo quella crepa del muro, vicino a uno dei vecchi tubi, è diventata solida. Un pezzo di ghiaccio ocra illuminato dalla luce debole di questo sole che non scalda.

Mi chiedo sempre come cazzo faccia Toni a pisciare all’aperto con queste temperature, tirarselo fuori a dieci gradi sotto zero. Non ha paura che gli diventi solido come quella strisciolina sul muro, e gli si spezzi in due, come capita ai surgelati nel freezer? Bah… Leggi il resto dell’articolo

Lo Psicotico Domato

Lo Psicotico Domato (Nicola Pesce Editore, 2010)

di Toni Bruno

 

Toni Bruno ha la capacità di impressionare il pensiero in tratto. Di fare storia con chiaroscuri.

Toni Bruno è un disegnatore al suo primo romanzo grafico, dopo aver illustrato libri per Newton e aver disegnato Non mi uccise la morte. Questa prima opera in toto non delude, anzi lascia con la voglia di averne ancora nello stomaco.

Lo Psicotico Domato è irrequieto, incivile nella sua ostentazione del disagio mentale, colpisce duro con una forma di distacco psicanalitica, e chi legge si trova a chiedere quanto di autobiografico ci sia o quanto possa essere fintamente autobiografico il tutto.

Una matita incosciente, che travolge nel suo tratto che sembra non aver mai bisogno di essere temperato; un ammiccante vortice di voci, anzi un lungo flusso di coscienza che si sviluppa nel disegno che ricorda il Giappone e la scuola europea, in un mix felice di originalità e familiarità pop.

Il giovane siciliano, oramai adottato dalla capitale, ci racconta il suo viaggio verso il continente, le motivazioni che lo hanno spinto a spostarsi in una città che ha fauci sempre aperte e denti taglienti. Nel suo percorso da immigrato non mancano i ricordi, le prime paturnie, e sempre presenti sono le mille facce dell’omonimo protagonista che racchiudono paure e sopralluoghi della depressione. La depressione, la psicosi, è vera e propria amante che in tutta la graphic novel riecheggia in un particolare, in una frase lasciata cadere o in un annuncio plateale, una femmina sinuosa che serpeggia dentro i jeans come le dita di una voluttuosa adultera, eccitando la fantasia e sfiancandola una volta presa in mano. L’instabilità mentale è quindi personaggio, affatto fittizio, che si approfitta di tutto il racconto, che ne abusa in modo sfacciato per mostrarsi nella sua totale alterigia edonistica, e Toni, che come ogni amante viene usato e usurpato, non fa altro che essere la voce, trasognata e a volte idolatra di questa concubina.

Tra giochi linguistici e grafici, pagine che riportano alla mente ambientazioni oniriche degne (e non ci sentiamo di esagerare troppo vista la pasta di cui sono fatte queste pagine) di Miyazaky, con Lo Psicotico Domato si viaggia in un mondo impalpabile per la sua semplicità, per la sua concreta crudezza quotidiana, quello dell’uomo e dei suoi problemi, quello di un ragazzo e dei suoi sogni, quello dell’oggi crudelmente certo e del domani di cui non vi è mai certezza.

 

Alex Pietrogiacomi

Consigli per cinefili inesistenti

A qualcuno piace Carlo

A pochi mesi dalla sua uscita, è già un classico dell’erotismo inesistente: un mingherlino insulso scombina gli ormoni di qualsiasi donna che gli capiti a tiro, ma un bel giorno comincia a fare effetto anche sui maschietti: il dramma di un sovraffollamento bisex nella camera da letto di un certo Carlo, a cui se lo vedessi non daresti due lire. Ancora una volta colpisce nel segno la regia geniale di Ziggy Wilder.

I soliti idioti

Mario Monelli ci racconta, in un cortometraggio girato interamente in un angusto interno d’un monolocale romano, un episodio vissuto in prima persona. Tutte le notti, poco dopo essersi coricato, per un mese intero, il protagonista viene disturbato dal suono del citofono, senza mai riuscire a cogliere sul fatto l’autore o gli autori dello scherzetto. Rinchiuso tra quattro mura, egli sarà colto dapprima da un’insonnia esasperante, poi da attacchi d’ansia sempre più frequenti e infine da una devastante depressione.

Rimane negli occhi e nel cuore dello spettatore l’ultima agghiacciante inquadratura: un primo piano in cui la vittima, ormai quasi completamente sopraffatta dagli eventi, chiede a se stesso, in un sussurro appena percettibile, guardando in camera: “Chi può essere stato a farmi questo?”.

Nascita di una frazione

Un film diviso in quattro parti, ognuna delle quali viene indicata come un quarto, espresso numericamente come 14. Due quarti sono equivalenti ad una metà 12 del film, cioè 2 x 14 = 12.

Il primo quarto è dedicato alle origini della frazione presso gli antichi egizi, il secondo quarto agli sviluppi in età medioevale, il terzo quarto agli orari che vanno dalle 18:00 alle 21:00 o se si preferisce dalle 6:00 alle 9:00, il quarto quarto al raggiungimento di un’unità.

Mezzogiorno da poco

Un risveglio alquanto kafkiano è quello a cui assistiamo nella prima sequenza dell’ultimo flim di Fred Oddsmann: un intero paese si desta dal sonno e s’accorge d’aver perso la cognizione del tempo, insieme alla capacità di leggere l’ora. I ritmi di un’intera comunità vengono sconvolti senza motivazioni apparenti, finché uno straniero venuto da un paese lontano non farà il suo ingresso in scena, dicendo agli abitanti, in maniera approssimativa, che ore sono.

Il suo messaggio, però (che dà il titolo al film), sarà frainteso da buona parte degli astanti, che lo crederanno un insulto alla qualità del suo soggiorno nella landa in questione. L’avventore se la dovrà vedere a questo punto con l’astio delle persone a cui aveva creduto di fare un gran favore. Vai a fare del bene alla gente…

A qualcuno piace calvo

È già in fase di lavorazione il sequel di A qualcuno piace Carlo di Ziggy Wilder, che come ricorderete descriveva efficacemente le difficoltà di un poco più che anoressico individuo che provoca, inspiegabilmente, tempeste ormonali in individui d’ogni sesso esistente. I problemi si moltiplicano con l’avanzare dell’età: il nostro eroe non è più un ragazzo e ha perso quasi tutti i capelli, ma continua a essere assediato. Da vedere assolutamente.

Carlo Sperduti


Le puntine da disegno del capitale

Sono le puntine da disegno del capitale.
Sono studenti, stagisti, sono in ricerca.
Conficcati in un muro in attesa di cadere, sostengono il peso per un po’; poi cadono.

Ines ha tentato di tutto per apparire più bella, quando ha saputo che quei sei mesi non avrebbero portato a nulla. Ines, la nostra stagista, quella che ero convinto mi avrebbe fatto le scarpe. E invece no. Ha trascorso tutto questo tempo poco lontana da me, di solito seduta, in ricerca vorace di informazioni, di feedback, frammenti. Bruciava per capire dove avevano nascosto il salvagente, tentava di rendersi indispensabile.

Ines era quella diversa: da noi perché più dinamica e pronta a prendere tutto, a subire con garbo, a farlo suo; dai suoi coetanei perché così giovane e impermeabile all’apatia, così meccanica nell’efficienza, nel suo non appannarsi mai. Le avevano detto, come una confidenza che non si dovrebbe fare, che era quello che stavano cercando. Le avevano confidato che si cercava ancora, nonostante le voci, nonostante l’evidenza. E invece no, l’evidenza diceva il vero.
Da quando sono caduto in depressione ci immagino tutti posizionati sugli scaffali di una cartoleria. Uno di quei negozi che fanno tanto vecchio quartiere, dove ormai nessuno va più, perché ci sono i computer per scrivere, e ci sono i supermercati per comprare quel poco di cancelleria che serve, e a meno. Mi è diventato chiaro, col tempo, che la cartoleria è il mondo del lavoro, e noi gli articoli in vendita, senza nessuno ad acquistarci.
I creativi le matite colorate, i ricercatori di marketing gli evidenziatori, le segretarie i raccoglitori ad anelli, il nastro adesivo gli account, eccetera.
Tutti lì a prender polvere.
Le puntine da disegno sono le più dolorose. Ognuno di noi lo è stato; lo saremo presto, di nuovo.
A volte penso a quando vivevo con i miei genitori e c’era qualcosa da appendere – una foto, un diploma, un poster – mio padre usciva il sabato e tornava con una di quelle cornici industriali con il plexiglass al posto del vetro. Forava il muro, metteva un tassello, e la stampa restava lì, giusto un po’ meno nitida ma appesa, tranne che in caso di terremoto.
Quando sono venuto a Milano, era diverso. Cambiavo casa in continuazione, o meglio cambiavo stanza, tutto era molto ostile e io cercavo di scendere a patti con questa crudeltà, mi trascinavo dietro più cianfrusaglie che vestiti e appena prendevo possesso di quattro pareti nuove mi accanivo a ricoprirle, per renderle simili alle precedenti. Solo che non c’erano più cornici, trapani, c’erano le puntine da disegno. Bastavano un paio di colpi e la locandina del film era fissata, la caricatura fatta da un’amica, il collage osceno di ritagli di giornale. Stavano su, per un po’.
Quando mi svegliavo trovando a terra una foto e poco lontano la puntina, un po’ storta e inutilizzabile, di solito era ora di cambiare stanza, di nuovo.
Ines è così, e anche quella che il mese prossimo prenderà il suo posto che non c’è, e chi piangerà sognando la scrivania di Luigi. Io li vedo, tutti uguali, ma ciascuno con un piccolo segno distintivo, o meglio con una serie di tratti distintivi e omologanti insieme, a gruppetti, ancora una volta come le puntine da disegno, quelle con le capocchie nere, quelle rosse, blu o gialle, bianche, grigie. Ciascuna nella sua scatolina, insieme a tutte le altre, pronta all’uso, pronta sostenere, stortarsi e cadere: chi ha fatto scienze della comunicazione, chi ha tentato la carriera accademica, chi ha messo la testa a posto, chi ha deciso di cambiar vita e inseguire i propri sogni, chi ha bisogno, e chi ha bisogno; tutti.

Ines arriva ogni mattina sempre più presto, a sfidarci, per questo si fa bella, chiusa in bagno, prestissimo, con i ritagli delle riviste a indicarle la strada, le strategie di trucco, quei volti color faretti e polistiroli e cosmesi, a cui assomiglia sempre di più con il passare dei minuti, sempre più lontana e patinata, e con un sorriso che sfiora la paresi fa il suo ingresso nell’open space come una piccola tromba d’aria, vestita secondo un manuale aggiornato scrupolosamente, pensando e non pensando a quanto le costa venerare le tendenze, in attesa di poterle imporre, a quanti soldi brucia ogni mese, forse ricordando che questo stage semestrale non era assolutamente retribuito, nemmeno rimborsato, a parte qualche striminzito buono pasto, forse ripetendosi che questo modellarsi, questo non crollare mai lo sta facendo per il proprio futuro, «Ciò che non uccide fortifica» ha scritto sul suo blog, e poi anche «Andare a caccia di ciò che è cool rende gelidi», forse Ines si prenderà un periodo sabbatico, lei e il windsurf.

Questa non è la solita tirata contro il precariato. È una constatazione: abbiamo perso.
Tutti, tutti.

Il problema non sono le condizioni materiali, la crisi economica, la scarsità della domanda. Sbagliano. Il nocciolo della questione è il desiderio. Il nostro essere puntine da disegno del capitale (il nostro esserlo stato, il nostro stare per) deriva dal fatto che non sappiamo volere altro, non ricordiamo nemmeno di poterlo fare. L’altra metà della trappola sono le aspettative: ci hanno convinto che ci siano dei futuri possibili, tenuti da parte per noi. Ci hanno inculcato questa idea fin dall’età più inconsapevole e intuitiva, ci hanno contaminato. Ci hanno rassicurato: c’è qualcosa per noi, di designato e gratificante – certo non sarà distribuito così, alla cazzo, ma in cambio di un ragionevole impegno noi saremo tutto; concertisti oppure padri di famiglia, speculatori di borsa che comprano e vendono azioni con il loro MacBook da una spiaggia della Guadalupe, assistenti sociali, scenografi. Noi li abbiamo ascoltati, ci siamo rassegnati. Niente è precluso, ci hanno detto, purché ricercato in maniera costante e ragionevole; e invece no. È falso. Peggio: è pericoloso. Questa minuziosa catena di montaggio di aspettative, a cui ci esponiamo come a una chemioterapia, sgretola la capacità di provare desideri, ci mangia all’osso. E la pulsione erotica verso i nostri sogni, la voglia di farsi una sproporzionata e infinita e goduriosa scopata con la vita, sono degli strumenti di resistenza, dei grimaldelli che però ci sono stati tolti di mano in maniera complessa e consapevole. Sono riusciti a trasformare tutte le nostre esperienze – dall’hobby alla perversione sessuale, dalla rabbia allo sport – in esperienze formative. Ci hanno convinto (e in un modo così totale e scacchistico che ci si può solo inchinare) che proprio quei frammenti di vita che per definizione, tempo libero, stanno dall’altra parte della barricata, proprio quegli atti in cui si è sempre investito il massimo carico emotivo, la propria risicata quota di pazzia e spontaneità, siano funzionali. Ce li hanno portati via. Così oggi cerchiamo di collocare nello schema del nostro curriculum quello che facciamo ancora prima di compierlo, e addirittura per decidere se compierlo o meno. Se non si incastra, se ha un posizionamento troppo ambiguo, lo evitiamo. A questo punto tutto è pronto per il colpo di grazia. Che, viste le premesse, non è nemmeno qualcosa di spettacolare, di ultraviolento: basta una spintarella. Quando si entra finalmente nel mondo reale (perché prima si viveva in una parentesi, e ce ne rendiamo conto in quel momento) le aspettative vengono deluse, tutte insieme. Non c’è niente.
Così non si entra mai, per davvero, ci si esilia nelle pieghe di una realtà immaginata. Ci si stacca, ci si aliena, ci si rimuove. Di solito qualcosa si storta dentro, e non va a posto, mai. Ci si deprime, tutti e in profondità, con più o meno consapevolezza, che si trovi lavoro oppure no, che si duri, che non. Le puntine da disegno, così colorate, così pronte all’uso. Così rotte. E quando capisci che qualcosa non va, che tutto non va, e vorresti reagire, ti trovi rapinato del desiderio, ed è come se intorno avessi solo nebbia, non vedi niente, non vedi possibilità. È per questo che abbiamo perso tutti, e abbiamo perso male. Tutto ciò non porterà nulla di buono, nemmeno per chi l’ha imposto, non può. È un errore, non per questo meno grave, ma terribilmente miope. Addirittura controproducente. Perché se la ribellione, la voglia di cambiare, la trasgressione sono tutte dinamiche sane, che spingono avanti l’orizzonte, che finiscono per produrre vantaggi anche per chi ha il potere, in questo modo invece si mette un tappo, per quanto robusto, per quanto potente, ma assediato di pressione, una pressione inimmaginabile. Così è possibile progredire solo per strappi e lacerazioni. Migliaia, milioni, miliardi di puntine da disegno, di articoli di cancelleria, a prender polvere, prima di esplodere.

Andrea Scarabelli

Andrea Scarabelli è nato a Milano nel 1983 dove tuttora vive e si barcamena precariamente tra collaborazioni editoriali e scrittura. Ha esordito con il romanzo Beautiful (No Reply 2008), firmato solo con il nome di battesimo, e ha pubblicato racconti in antologie (Voi non ci sarete, Agenzia X 2009; Italia Underground, Sandro Teti 2009), sui quotidiani Il Manifesto e L’altro e sulla webzine Carmilla.