Santo, santino, Santoni e Salimbeni – Una modesta proposta di recènzia a L’ascensione di Roberto Baggio

Santo, santino, Santoni e Salimbeni.
Una modesta proposta di recènzia a L’ascensione di Roberto Baggio.

Tintògna tintògna era andata a finire che m’ero deciso, si fa così e amen, m’ero detto: il reading l’avrei iniziato citando Durkheim quando sferra la staffilata a mezz’aria, il calcio è una liturgia laica, coi suoi Credo e i suoi offertori, poi avrei alzato le braccia al cielo, il signor Durkheim sia con voi, avrei salmodiato, e con il suo spirito, avrebbe celiato l’adunata (funzionò, in effetti), rendiamo grazie al pallone nostro dio, avrei insistito, e – cosa buona e giusta – si sarebbe creata per magia quella cappa d’incenso i cui fumi avrebbero avvalorato la tesi secondo la quale il calcio può aspirare ragionevolmente a soppiantare la religione, nelle parole del compianto Karletto, nel ruolo di oppiaceo di fiducia dell’italica speme.
A quel reading, eravamo a Roma ed era dicembre, il giorno che troneggia sulle maglie dei fantasisti del calcio, partecipavano anche e soprattutto Vanni Santoni e Matteo Salimbeni. Avrebbero letto dei passi de L’ascensione di Roberto Baggio (Mattioli 1885, fresco fresco di stampa).
Sulla copertina di quel libro, il divin codino addobbato a santità. All’interno, un santino. Tra le firme, Santoni.
Il santo. Il santino. Il Santoni.
Mai avrei pensato che la mia vena calcistica avrebbe preso risvolti sì teosofizzanti. Leggi il resto dell’articolo

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Sradicamenti 2: Antonella Lattanzi

Dopo aver letto i loro bei romanzi, ho deciso di porre alcune domande a quattro giovani scrittrici (Simona Dolce, Antonella Lattanzi, Serena Maffia e Rosella Postorino), accomunate sia dalla scelta di trasferirsi a Roma dal sud Italia, che dall’aver pubblicato recentemente dei romanzi che, seppur nella loro diversità stilistica e nella varietà delle tematiche affrontate, mi sono sembrati capaci di dialogare a distanza su alcune questioni importanti.

 

Simone Ghelli: Da un po’ di tempo si parla dei tanti italiani, soprattutto giovani appena laureati e in cerca di lavoro o di una possibilità di continuare la propria carriera universitaria, che emigrano all’estero. Voi, in un certo senso, avete invece compiuto una migrazione interna, dal sud verso la capitale. Come vivete questa doppia situazione: da una parte lo sradicamento dalla vostra realtà e dall’altra la scelta di rimanere in un paese sempre più sfilacciato, che perde ogni giorno pezzi della propria memoria?

Antonella Lattanzi: Da un certo punto di vista credo che parlare del sud possa essere discriminante – non mi piace che mi si chiami scrittrice giovane, o scrittrice donna, così come non mi piace che mi si chiami scrittrice del sud. Ogni scrittore è uno scrittore, e basta. Da un altro punto di vista, credo che meridionali si rimanga sempre, se non altro come complesso d’inferiorità. Si tratta, quindi, davvero, di un argomento molto complicato, complesso, e non risolvibile. Per quanto riguarda la nostra realtà – emigrare internamente, ma poi rimanere in quest’Italia disastrata – io penso che in quanto scrittori dovremmo parlarne di più. Non, ancora una volta, ghettizzarci in discorsi pseudopolitici che divengono inevitabilmente circoli asfittici e viziosi, ma – tramite il nostro mezzo di comunicazione: la scrittura – creando domande a cui il lettore deve, se vuole, dare delle risposte. E questo non solo perché siamo in Italia (è un discorso che varrebbe dovunque fossimo), ma perché pretendiamo di essere scrittori. Lo scrittore secondo me questo deve fare, è questo il nuovo engagement: creare domande, distruggere il muro omertoso che nasconde certe realtà scomode, parlare, dire, raccontare. Senza paura delle conseguenze, sia immediate che a lunga distanza.

S.G.: In che modo la scrittura rappresenta per voi un modo di riappropriarvi di quella memoria che rischiavate di lasciarvi alle spalle durante il viaggio? Ve lo chiedo perché mi sembra che questo aspetto emerga, secondo tonalità e modalità diverse, nei vostri ultimi romanzi.

A.L.: Come ti dicevo prima, non mi sento una scrittrice del sud. Nei romanzi parlo di ciò che conosco. E mi piace che il contesto, l’ambientazione, i luoghi siano raccontati narrativamente, non staticamente. Dunque, prendendo per esempio Devozione, ho cercato di raccontare Bari, Roma, Napoli, Bologna, Catanzaro – città che conosco – rendendole parte attiva della storia, modificandole attraverso lo sguardo, di volta in volta, dei personaggi che metto in scena. La scrittura è sempre, anche, un’operazione di recupero di memoria: di luoghi, di sensazioni, di ricordi. Ma è anche, e soprattutto, un’operazione creativa: riutilizzare ricordi tuoi o di altri, ricombinarli, prenderli come spunto per creare qualcosa di nuovo. La memoria dei luoghi, dunque, è necessaria per la scrittura. E certe volte, mentre stai scrivendo, ti tornano in mente posti e tempi e persone che non ricordavi più.

S.G.: La memoria è anche la propria lingua, quella che ci si va costruendo. Avete mai pensato di correre il rischio di perdere la vostra lingua durante il processo che vi ha portato non tanto alla scrittura, quanto alla pubblicazione di un libro (mi riferisco da una parte al dialetto, di cui rimangono tracce nei vostri libri, e dall’altra del rapporto che s’instaura tra chi scrive e chi compie l’editing del libro)?

A.L.: No. Perché, dove serve, lascio sempre parlare il dialetto. Ma solo dove serve. Un romanzo ha mille lingue, mille stili, mille ritmi. Ci sono personaggi che possono solo parlare in dialetto. E non è nemmeno necessariamente il dialetto che conosce lo scrittore, il suo dialetto (per esempio, in Devozione c’è dialetto barese, romano, catanzarese). Per quanto riguarda l’editing: secondo me, se è ben fatto, serve sempre e soltanto a far sbocciare il romanzo, a migliorarlo, a liberarlo da residui catramosi di cui lo scrittore non sempre può rendersi conto. E ne guadagna non solo il tuo libro in particolare, ma la tua scrittura in generale. La mia esperienza in merito è davvero splendida: con la mia editor, Rosella Postorino, abbiamo lavorato tantissimo a Devozione, e ho visto il romanzo migliorare di tantissimo in seguito al lavoro svolto con lei. Penso – e spero – che tutto ciò adesso faccia parte del mio bagaglio letterario e personale e che, anche grazie all’editing svolto per il mio romanzo, io sia diventata una scrittrice migliore.

S.G.: Un altro punto in comune tra i vostri libri mi sembra il tentativo di rendere un’immagine non stereotipata di quest’Italia sempre più ostaggio della televisione. Durante la sua permanenza all’Isola dei Famosi Aldo Busi, tra le varie cose, dichiarò che in questo paese “non c’è più racconto”. Pensate che la letteratura possa ancora costituire un’alternativa a questa deriva?

A.L.: Non credo che la nostra sia l’era più terribile che la terra e l’uomo abbiano mai attraversato. Non credo che non ci sia più racconto, non ci sia più giustizia, non ci sia più purezza. Sarebbe davvero narcisistico ed egocentrico credere una cosa del genere. Penso invece che ogni epoca sia un po’ più e un po’ meno rispetto alla precedente, che ci siano epoche di grandi cambiamenti e altre di cupezza e perdita. Di certo noi non ci troviamo in un momento storico ottimo, e positivo: ma credo che le storie ci siano sempre, che il racconto non ci abbandoni mai. Perché è proprio dell’uomo. Perché raccontiamo ogni momento della nostra vita. Forse, in questi anni, in Italia, c’è meno voglia di impegnarsi: e quindi di lavorare affinché il nostro racconto diventi sempre più raffinato, più incisivo, più comunicativo (e quindi meno stereotipato). In una parola: migliore. Non credo nemmeno che la tv sia la causa di tutti i nostri mali: siamo noi, ogni io singolo, ad accenderla e a guardarla. Si tratta davvero di scegliere: scegliere il sudore, la fatica, l’impegno, la testardaggine, l’umiltà, il coraggio, la forza; per riuscire, alla fine, in un racconto mai perfetto, ma certamente sentito, e consapevole.

 

Antonella Lattanzi è autrice del recente “Devozione” (Einaudi, 2010), un romanzo in cui la dipendenza dall’eroina diventa una sorta di metafora da tutte le dipendenze, un esordio capace di colpire il lettore per la potenza del linguaggio e del ritmo, che ci calano in una realtà segnata dal racconto di una terribile ossessione.